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In “Noticum” del giugno 2003 (mensile del “Centro unitario per la collaborazione missionaria fra le Chiese” a Verona, promosso dalla Cei) il direttore don Flavio Saleri scrive: “L’Istituto centrale sostentamento del clero documenta la presenza in Italia, nel novembre 2002, di 1.517 sacerdoti di nazionalità non italiana, che ricevono un compenso per il servizio che prestano alle nostre comunità cristiane… I sacerdoti diocesani italiani attualmente in servizio ad altre chiese sono 580, cioè poco più di un terzo dei sacerdoti stranieri che operano in modo continuo e sistematico nelle nostre parrocchie e diocesi”. Il CUM, nato all’inizio degli anni sessanta, organizza corsi di preparazione per i missionari partenti: fino ad oggi vi hanno partecipato 5.458 missionari; ma “gli iscritti al prossimo corso del CUM per i partenti per l’America Latina e l’Africa sono rispettivamente 11 e 7”.

Nel fascicolo di agosto 2003 di “In Vinculo Christi”, bollettino della diocesi di Vijayawada in India (Andhra Pradesh)

c’è un lungo elenco dei seminaristi diocesani: 40 nei quattro anni di teologia, 12 nel periodo di “Regency” (uno o due anni di lavoro pastorale pre-teologico), 27 nei tre anni di filosofia, 13 nell’anno di spiritualità, 31 nel periodo di studi umanistici.

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La diocesi di Vijayawada, fondata dai missionari del Pime nel 1937, ha oggi 230.000 cattolici (su più di quattro milioni di abitanti), con 123 seminaristi (di cui 40 in teologia). Visito una diocesi media italiana: circa 200.000 cattolici, tre studenti di teologia e nient’altro.

Non servono commenti. Questi dati dimostrano da soli la crisi di fede che la Chiesa italiana sta attraversando e, per conseguenza, la crisi di vocazioni alla vita consacrata e alle missioni: non è sbagliato pensare che, già oggi ma ancor più nel prevedibile futuro, verranno ad evangelizzarci preti e suore dall’Asia, Africa, America Latina, Oceania! Lamentarsi del nostro popolo e della nostra Chiesa non serve, siamo tutti nella stessa barca. Ma se è vero che la decadenza religiosa, morale e persino demografica del nostro popolo (senza ingressi di nuovi terzomondiali, gli italiani diminuirebbero ogni anno di circa 100.000 unità) è la conseguenza di una crisi di fede, la conclusione mi pare logica: bisogna tornare ad annunziare Gesù Cristo come lo si annunzia nelle missioni “ad gentes”, cioè tra i pagani. Un’inchiesta di qualche mese fa a Roma fra gli studenti portava questo dato spaventoso: solo il 42% sanno dire con sufficiente precisione chi è Gesù Cristo, solo il 25% individuano nell’annunzio di Cristo il compito fondamentale della Chiesa cattolica.

Trent’anni fa avevo pubblicato un servizio speciale su questa rivista intitolato “A scuola dalle giovani Chiese”. Ricordo che le molte lettere ricevute esprimevano in maggioranza sconcerto e anche scandalo per quel titolo e i contenuti dello studio: pareva impossibile che noi, dopo duemila anni di cristianesimo, dovessimo andare a scuola da giovani cristianucci senza alcuna esperienza di fede, di vita cristiana, di teologia, di esegesi biblica. Ebbene, credo che oggi siamo un po’ tutti convinti che le giovani Chiese possono insegnaci molto. Non perchè i battezzati delle missioni siano migliori cristiani di noi. Per carità! Forse sono più peccatori e sicuramente più ignoranti di noi; ma è altrettanto certo che a noi manca l’entusiasmo della fede e lo spirito missionario che loro hanno. Cosa potrebbero insegnarci? Anzitutto questo: che per rievangelizzare il nostro popolo, bisogna ripartire dall’annunzio di Cristo, in modo semplice, elementare, esperienziale, molto concreto.

Un esempio. Ho scarse esperienze di insegnamento della religione nelle scuole (a volte sono chiamato a parlare agli studenti); ma poichè più del 90% dei giovani italiani e italiane frequentano l’ora di religione, viene da chiedersi di cosa parlano gli insegnanti. Da quel che sento, in genere i temi delle lezioni sono più sociologici che religiosi, più culturali che catechetici, più politici che ecclesiali in senso stretto, più problematici che capaci di dare le notizie certe della fede. Forse bisognerebbe ripartire dal Catechismo di Pio X e dal “Manuale di preghiere del buon cristiano”! E’ solo una battuta, perchè il discorso è lungo e complesso, ma come idea di fondo può essere quella giusta: discorsi semplici, elementari; dare certezze più che aumentare gli interrogativi; raccontare testimonianze più che fare ragionamenti; comunicare l’entusiasmo della fede che è un dono di Dio (da chiedere con la preghiera)

 Piero Gheddo
dicembre 2003

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