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Padre Augusto Gianola, nato a Laorca di Lecco nel 1960, ordinato sacerdote dal beato card Schuster il 28 giugno 1953, è stato viceparroco in diocesi di Milano per dieci anni. Entrato nel Pime, nel 1964 è partito per Parintins in Amazzonia. Nel luglio 1960 è morto a Lecco per un cancro e un principio di lebbra. E’ il personaggio più avventuroso, più salgariano, nella storia del Pime, ma anche un uomo di fede, di preghiera, di sacrifici e penitenze, che dava la vita per il suo popolo. Un tipo fuori dalle righe, ma decisamente orientato a Dio, a Gesù ed a Maria.
Quando i parenti e gli amici di Augusto mi avevano chiesto di scrivere la sua biografia, ne parlai con nostri missionari dell’Amazzonia ed erano dubbiosi o negativi. Mons. Pirovano, che da superiore generale aveva avuto con lui forti contrasti, mi dice: “Scrivine pure perché piacerà ai giovani e potrà fare del bene. Ma mi raccomando, non dire che padre Augusto è un missionario tipico o simbolico del Pime, perché di Gianola, ti assicuro, ne basta uno, due sarebbero troppi”.
Augusto svolgeva la sua missione viaggiando in barca per visitare le famiglie disperse, unire queste famiglie e creare delle comunità. Prima fonda le comunità lungo il fiume, poi tenta di spostarle verso la foresta, per coltivare la terra. Un’impresa difficile: i caboclos dell’Amazzonia sono sempre vissuti di quanto il fiume dà, la foresta l’hanno sempre vista come un nemico, mentre rappresenta il loro futuro, il luogo della loro stabilità. P. Gianola fonda una scuola agricola ad Urucara e varie comunità di caboclos nella foresta, per indicare che il futuro sta nelle terre alte dell’Amazzonia, nell’agricoltura. Lotta contro i fazenderos, contro i politici, i commercianti, contro la burocrazia statale per proteggere i suoi caboclos.
Ma il senso della sua missione non è di natura politica o sociale. Augusto amava l’uomo e aiutava i poveri nella loro crescita umana, ma per portarli a Dio. La grandezza di p. Gianola, in un tempo come il nostro, in cui la Chiesa rischia di apparire un’agenzia di assistenza sociale sta qui: aveva il senso fortissimo di cosa significava essere missionario: portare Dio agli uomini e gli uomini a Dio.
Padre Gheddo su InfoPime (2012)
“Gli uomini hanno bisogno di Dio”, ripeteva spesso. E per trasmettere l’amore di Dio lui pregava molto, si mortificava, andava mesi in foresta per cercare Dio. Si sentiva indegno di essere sacerdote e diceva: come faccio portare Dio agli altri uomini se io lo amo così poco? Ha delle belle riflessioni sulla preghiera che ci insegnano qualcosa: “La preghiera. Sono ancora all’inizio di quest’arte. E sono quasi vecchio. Non riesco a penetrare l’altezza dei cieli per localizzarli in qualsiasi posizione di Dio in cui fermamente credo. Se mi si dice che non è necessario guardare nei cieli lontani ma che è qui vicino, nel mio cuore, peggio ancora: il cuore è più misterioso e profondo del cielo. Insomma, la mia preghiera non ha potenza, non ha penetrazione, non entra nel profondo, non va lontano, alta. E’ fiacca, va soltanto qualche metro. Ecco, io ho bisogno di un Dio che sta solo a due o tre metri, quattro al massimo, davanti a me, facile da vedere, da misurare, da contemplare. Oh, Dio, fatti più piccolo e più vicino!
“Leggendo la Bibbia, le mie idee su Dio vanno confondendosi. Non capisco più niente, tutto è oscuro, mistero, tenebre fitte. Noi siamo ancora molto bambini nei nostri pensieri su Dio. Anche i grandi teologi… Tuttavia, nonostante le tenebre sempre più fitte la mia fede aumenta. Lo sento… e sono questioni di sentimento? Non so, non credo. Anche la mente ha le sue esigenze filosofiche…. si fa più forte in me l’idea di Dio che dà San Giovanni. Amore: io sono a questo punto essenzializzato: Dio è Amore. Tiro le mie conclusioni: io ho fiducia in lui, mi metto nelle sue mani, sto tranquillo”. In altra pagina del diario, mentre è nella foresta amazzonica da un mese facendo una vita durissima (diminuiva anche di 20-30 chili!), scrive: “ Recito il mio Rosario a Maria. Mamma mia buona, mi hai fatto tante grazie, che non so più cosa chiederti. Suggeriscimi tu che cosa chiederti: Vorrei l’Amore di Dio. E’ troppo? Vorrei amarlo, amarlo, amare solo Lui, totalmente. Ma né io lo merito né ne sono capace. E so che è la cosa più importante”.
“ Io sono molto tradizionale nella mia fede e nella mia pietà. Non c’è niente di originale, di personale, di nuovo. Chissà quanti altri modi ci sono di pregare, di contemplare, di entrare in contatto con Dio! E io non so trovare altro che i vecchi sistemi, quelli dei vecchi Padri spirituali: il breviario, il rosario, le preghiere del mattino e della sera, l’Angelus, la meditazione, la lettura spirituale. A volte agli occhi degli altri sembro un prete avanzato dalle vedute nuove, dai metodi nuovi. Invece, se dovessi dirigere un seminario sarei come i miei vecchi superiori”.

A Roma, una sera d’estate del 1980 siamo andati a piedi sul Gianicolo e davanti a un bel gelato Augusto mi chiede: “Ma insomma, Piero, tu cerchi Dio? Tu aspiri alla santità? Che immagine ti fai di Dio? Quali sono i tuoi rapporti con Gesù e con la Madonna?”. Discorsi non abituali anche tra preti e missionari.
Padre Augusto Gianola ha congiunto nella sua vita, in modo molto personalistico ma anche con grande autenticità, le due frontiere estreme del cristianesimo: la missione alle genti e la contemplazione; l’evangelizzazione e promozione umana del popolo caboclo con la ricerca di Dio e della santità. Il ricordo di chi l’ha conosciuto spesso è troppo condizionato dagli aspetti avventurosi e stravaganti della sua vita; anche chi ha letto la sua biografia ricorda volentieri le tante avventure e gli episodi singolari, anticonformisti e bizzarri della sua personalità, mentre dimentica o sottovaluta quello che era l’orientamento fondamentale di tutto il suo essere: l’amore a Dio e al prossimo, spinti fino ad eccessi che indicavano l’esuberanza di vitalità che Augusto sentiva e che non poteva ridurre nei limiti dei percorsi sperimentati della via ascetica e mistica cristiana.

La biografia di Augusto «Dio viene sul fiume – Una tormentata ricerca di santità » è un formidabile messaggio di evangelizzazione soprattutto per i giovani d’oggi. Perché Augusto è un giovane, di spirito giovanile, di sensibilità aperta. Moderno, avventuroso, insofferente di fronte alle regole e alle pastoie burocratiche (per alcuni versi uno «spirito sessantottino»), amante della natura, poeta, sognatore, scrittore geniale ed efficace… insomma, ha tutte le qualità per piacere ai giovani di età e di spirito. E nello stesso tempo trasmette con tutta la sua vita questo messaggio di fede: solo Dio conta, il resto, in fondo, passa presto e non vale niente; ha valore solo se è orientato a Dio, se è vissuto per Dio e nella Legge di Dio.
Non è che di Augusto si possa approvare tutto. Per carità, era fuori riga in molti campi e aspetti della vita, ha fatto molti sbagli. Ma anche questo suo prepotente scoppiare, esplodere, non stare mai dentro nessuna regola, finisce per condurre a
Dio, a Gesù Cristo, al Vangelo. Lo ripete lui stesso più volte: nessun cammino può agganciare l’Infinito, nessuna teologia può rappresentare l’Assoluto, nessuna regola o modello umano può avvicinarsi a quello di Cristo. L’uomo deve sempre cercare il di più, andare oltre, allargare lo sguardo al di là delle frontiere stabilite, sapere che Dio è e rimane misterioso e si conquista solo con una fede e un amore senza limiti e col sacrificio della propria vita spesa per il Vangelo e il popolo.

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Nel febbraio 1996 sono stato al Mocambo, una delle parrocchie più lontane della diocesi di Parintins sul Rio delle Amazzoni, ai confini con la diocesi di Itacoatioara, da dove padre Augusto partiva per andare nel suo ultimo eremo in foresta, il Paratucù. Al Mocambo, nel 1996, c’erano due giovani volontarie italiane dell’ALP (Associazioni Laici Pime), un’infermiera e un’insegnante, le quali mi dicevano che il ricordo di padre Augusto era molto vivo tra la gente, lo pregavano e visitavano la sua tomba nel piccolo cimitero del villaggio, dove era stata sepolta, in una piccola scatola, una boccetta col suo sangue (estratto per esami clinici). Nella chiesa del Mocambo, un grande quadro di Augusto, opera del fratel Michele De Pascale, appeso al muro a fianco dell’altare, oggetto di venerazione e di preghiere.
Nel mese di agosto 2011, parlo a Milano con padre Giovanni Andena, missionario a Parintins dal 1958, che ha conosciuto benissimo padre Gianola e gli chiedo se oggi, a più di vent’anni dalla sua morte, è ancora ricordato dalla gente comune. Dice: “Sì, molti ormai non l’hanno conosciuto, ma tanti altri lo ricordano e anche i più giovani hanno sentito parlare di lui. Lo ricordano per le sue stranezze e modi contro-corrente, ma anche perché sanno che lui voleva veramente bene ai caboclos e voleva portarli a Dio, indicava al popolo che solo Dio conta nella nostra vita”.
Padre Gheddo su InfoPime (2012)

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