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Cari amici di Radio Maria, questa sera vi presento un missionario dell’Amazzonia che aveva caratteristiche del tutto eccezionali, padre Augusto Gianola, morto nel 1990 a 60 anni dopo 27 anni di Amazzonia brasiliana. Un personaggio interessante perché rappresentativo del fatto che la vocazione missionaria è spesso congiunta con la tendenza alla contemplazione. Augusto fin da ragazzo aveva una marcata tendenza alla contemplazione ed ha potuto sperimentarla in missione, recandosi spesso nel profondo della foresta amazzonica, anche per lunghi periodi, proprio per isolarsi dal mondo per pregare, contemplare e parlare con Dio.
Tutta la sua vita va letta in questa chiave: il missionario che era in ricerca di Dio e della santità e si metteva in situazioni estreme, soffrendo il digiuno, iAugusto era un eremita nelle foreste amazzoniche, ma poi, quando tornava nelle comunità cristiane che aveva fondato, era un prete impegnato nell’apostolato e nella promozione umana dei suoi caboclos e indios. Questa sera, cari amici, vi racconto un romanzo d’avventure non di fantasia, ma del tutto autentico.
La mia catechesi si svolge in tre punti:
1) Era tutto di Dio, ma anche impegnato col popolo.
2) Un contestatore orientato alla santità.
3) La missione alle genti di un missionario contemplativo.

Parte prima – Era tutto di Dio, ma anche impegnato col popolo

Augusto Gianola nasce a Laorca di Lecco nel 1930 , primo di tre femmine e due maschi. Due delle sue sorelle diventano suore. “L’educazione ricevuta in famiglia – racconta la sorella Anna Maria , suora Carmelitana di clausura a Sassuolo – è stata eccezionale sul piano della fede e della preghiera, soprattutto per merito della mamma. Augusto fin da piccolo sentiva il fascino di Dio, ma invece di essere “pio” nel senso tradizionale, era vivacissimo e famoso in paese perché faceva scherzi a tutti e molti si lamentavano”. Un giorno, il parroco don Broggi viene dalla sua mamma e le dice: “Qualcuno ha messo in bilico sulla porta socchiusa della chiesa una pentola piena d’acqua. Quando ho aperto la porta, mi sono bagnato tutto. Signora, io non so chi è stato, ma certamente è stato Augusto”. Però lo manda in seminario perché il giovane aveva una vita di fede e di preghiera. Dice alla mamma: “In seminario i tipi come lui li calmano, li mettono in riga”.
Invece, per tutti i lunghi anni del seminario diocesano, Augusto Gianola matura nella vocazione al sacerdozio, ma il carattere irrequieto e scherzoso rimane quello di prima. Don Romeo Peja, suo coetaneo, intervistato nel 1992, mi diceva: “Augusto era un giovane di vivissima spiritualità. Qualcuno lo vede solo come un originale, un ribelle. Ma era fedele alla preghiera, scalava le montagne col Breviario e il Rosario nello zaino. Era anche molto libero. In seminario ne combinava di tutti i colori, non era un alunno disciplinato. Noi due facevamo parte di un gruppo informale detto “i preti del Novecento” cioè moderni. In tempi in cui c’erano molte chiusure, eravamo tifosi di don Giovanni Colombo, che poi diventò arcivescovo di Milano e cardinale, con le sue idee di umanesimo. Andavamo a trovarlo di sera e ci fermavamo a volte fino a tardi a discutere. Colombo capiva Augusto, lo proteggeva, lo stimolava”.
“Una volta – continua don Romeo – mentre stava arrivando in seminario il card. Schuster, Augusto mise una carica fumogena dentro la grande statua in bronzo di San Carlo all’ingresso del seminario: la statua fumava dalle orecchie, dal naso e dalla bocca. Uno spettacolo. Poi si sentì uno scoppio e tutti temevano che la statua crollasse. Quella volta, se non era per don Colombo, lo mandavano via”.
Un altro sacerdote coetaneo di Augusto, don Ercole Belloni, così lo ricordava: “Di lui ricordo l’entusiasmo per quel che faceva e la determinazione. Riusciva a fare vie nuove nelle scalate delle montagne perché era atletico, ma anche perché non si lasciava scoraggiare da nulla. Quando eravamo in liceo abbiamo aperto una nuova via sul Pizzo dei Tre Signori che venne ufficialmente riconosciuta col nostro nome. Lui faceva il capo-cordata, io il secondo. Abbiamo scalato la parete del Medale sopra Lecco in mezz’ora, altri ci mettevano 33-35 minuti. Anche in quell’avventura, giungendo sulla vetta Augusto disse: “Voglio tornare qui a mettere una statua della Madonna. Quelli che verranno quassù troveranno la Madonna ad attenderli”.
“Aveva uno spirito religioso molto forte, portava sempre il discorso su Dio e i problemi della fede. La sua forza fisica era eccezionale, ma non ne parlava mai, il suo tema preferito era la fede. Pregava durante tutte le ascensioni… Una volta ci siamo presi una forte pioggia mentre eravamo in parete. Io mi lamentavo e lui mi disse: “Quando saremo preti dovremo soffrire altro che questo! Prendila e taci”. Per lui la vita era un’avventura da vivere con entusiasmo, ma con punti ben precisi di riferimento: Dio, Gesù, la Madonna, l’amore alla gente… Sapeva farsi voler bene, era generoso e pronto a tutto per farti un favore. Quando ebbi la tubercolosi venni ricoverato in sanatorio. Ero positivo, cioè potevo infettare altri. Pochi venivano a trovarmi e questo mi deprimeva. Augusto venne e, nonostante la proibizione di medici e infermiere, mi abbracciò più volte. Io stesso non volevo, ma lui mi abbracciò stretto e rimase vicino a me a lungo. A me quel gesto fece tanto bene e lo ricordo con affetto”.

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L’Amazzonia come una parete di sesto grado

Da giovane, Augusto compie circa 180 ascensioni. L’amore alla montagna nasceva dal suo senso religioso. Come diceva la sorella Pinuccia, suora di Carità dell’Assunzione a Napoli: “Aveva un cuore di fanciullo e la coscienza di essere un piccolo bambino che non si fa da solo. Sentiva fortemente la sua dipendenza da Dio. Per lui andare in montagna voleva dire avvicinarsi a Dio”.
Fin dal seminario e poi da viceparroco a Locate Varesino don Gianola matura la vocazione missionaria. Don Giovanni Colombo gli dice: “Vai pure missionario nel Pime, perchè in diocesi sei troppo fuori dagli schemi”. Per lui la via delle missioni era un modo per andare oltre, per essere sempre sulle frontiere più estreme, non solo per il senso dell’avventura, ma per un cammino spirituale verso la santità. La sorella Anna Maria ricorda: “Quando nel 1960 sono entrata nel Carmelo, lui era sacerdote da sette anni, ma aveva già chiara la chiamata alle missioni. Gli ho detto: “Io vado nel Carmelo” e lui mi risponde: “E io mi faccio missionario”. Mi ha accompagnata nel Carmelo e mentre stavo varcando la porta della clausura che era già aperta per accogliermi, lui mi prende per un braccio. mi tira in disparte nella saletta del parlatorio e mi dice: “Anna Maria, prega perché io debbo farmi santo. Ricordati di pregare perchè sono io che debbo diventare santo”. Suor Anna Maria oggi commenta: “Il desiderio di santità era in lui fin da ragazzo ed è continuato tutta la vita. Ho sempre ricordato quelle parole, che poi ha ripreso in varie lettere che mi scriveva e nel Diario. Penso che la spinta a diventare missionario abbia origine in questo suo desiderio di santità, di eroismo, di scegliere la via più difficile”.

A 16 anni entra nel seminario diocesano di Milano, a Venegono e il 28 giugno 1953 è ordinato sacerdote dal beato card. Ildefonso Schuster. Dopo dieci anni di vice parroco a Locate Varesino (Como) e poi uno a Verano Brianza, nel settembre 1962 entra nel Pime e un anno dopo, il 5 novembre 1963 parte da Genova su una nave da carico con padre Gabriele Modica. Il 17 novembre sbarcano a Macapà e il 5 dicembre a Parintins, destinazione finale.
Nel suo Diario scrive: “Signore Gesù, sento che vado incontro alla croce, aiutami a non tornare indietro. Lasciare un mondo pulito per un mondo sudicio, un mondo accogliente per un mondo repellente, un mondo organizzato per un mondo disastrosamente disorganizzato, un mondo di amici per un mondo di ignoti, un mondo fatto a misura per te come un paio di scarpe, per uno che non è il tuo e ti costringe ad una vita bislacca. Fare il missionario è più difficile che fare il prete in Italia. Almeno per dei poveracci come me. E’ la fede, prima ancora della carità, la virtù del missionario; e io ne ho così poca. Il mio entusiasmo dipende dalla mia fede e per questo sono in crisi. Signore, aumenta la mia fede!”.
Però si riprende subito e il 10 dicembre scrive nel Diario: “Io che sono fuggito dall’Italia perchè stanco della vita sedentaria; io che desideravo una vita diversa… Se non mi santificassi io, cosa sarei venuto a fare qui? Perchè non impegnarmi a regalare un santo al Brasile? Io sono qua per riparare la vita passata, per staccarmi dal mio mondo passato, per dare a Dio, secondo la sua volontà, quel che mi resta. Signore, dammi la tua grazia e farò quello che vuoi, ma guarda che ce ne vuole almeno il doppio di quella grazia che hai preparato per me”.

“Un nuovo modo di essere missionario”

Anche umanamente, padre Augusto era un uomo eccezionale. Alto 1.90 circa, atletico, muscoloso con una forza fisica fuori del comune e un sorriso da attore cinematografico. Era cordiale, accogliente con tutti, sempre sorridente. Aveva un’intelligenza vivace, che gli permetteva di riuscire negli studi. In Amazzonia impara facilmente la lingua brasiliana e poi il dialetto dei caboclos amazzonici. Fin da ragazzo era un appassionato scalatore di montagne e sognava di andare missionario in Birmania, dove ci sono monti inesplorati da scalare. Invece i superiori del Pime, l’hanno mandato in Amazzonia, una terra che più piatta non si può immaginare. Solo fiumi e foreste, foreste e fiumi, con villaggi e cittadine di caboclos lungo i fiumi, le uniche vie di comunicazione.
Nei primi dieci anni di Amazzonia, padre Augusto è viceparroco della Cattedrale di Parintins e poi fonda una parrocchia alla periferia della città, San Giuseppe Operaio, ma svolge la sua missione viaggiando in barca per visitare le famiglie disperse, cercando di unire queste famiglie e creare delle piccole comunità. Padre Augusto viveva con la gente comune e il più possibile come il suo popolo di caboclos. Si è adattato ad una vita molto povera, parlava come loro, conosceva e discuteva i loro problemi umani, diceva che per annunziare Gesù Cristo ai poveri, il missionario deve condividere il più possibile la loro vita, i loro pensieri, i loro discorsi. Questa era la contestazione all’esistente del cosiddetto “Sessantotto”, quando anche noi, giovani preti italiani, ci chiedevamo come si poteva ideare e realizzare un “nuovo modello di prete”, che fosse vicino alla gente comune e non apparisse una casta staccata dalla vita di tutti. Padre Gianola era missionario in Amazzonia e anche lui, in quell’ambiente, coltivava l’ideale di vivere “un modo nuovo di essere missionario”.
Ma il senso della sua missione non era di natura politica o sociale. Augusto amava l’uomo e aiutava i poveri nella loro crescita umana, ma per portarli a Dio. La grandezza di p. Gianola, in un tempo come il nostro, in cui la Chiesa rischia di apparire un’agenzia di assistenza sociale, sta in questo: aveva il senso fortissimo di cosa significa essere missionario: portare Dio agli uomini e gli uomini a Dio. “Gli uomini hanno bisogno di Dio”, ripeteva spesso. E lui per trasmettere l’amore di Dio pregava molto, si mortificava, andava ogni tanto alcuni giorni in foresta per cercare Dio, per innamorarsi di Dio. Si sentiva indegno di essere sacerdote e diceva: “Come faccio a portare Dio agli altri uomini se io lo amo così poco?”.

La nascita delle comunità lungo i fiumi

Il vescovo Cerqua e padre Augusto si stimavano, si volevano bene, ma erano diversissimi. Cerqua ha creato la miglior diocesi dell’Amazzonia, oggi con tanti preti locali, la miglior radio cattolica, i migliori dirigenti laici; era un uomo previdente, organizzato, tradizionalista in pastorale; Augusto era un grande prete, aveva tutte le qualità per essere gradito alla gente. Il vescovo gli affidava uffici importanti, ma lui fuggiva da ogni organizzazione e da ogni incarico. Concepiva la pastorale come una continua novità, realizzava tante cose nuove anche in campo sociale, ma poi non le portava avanti, erano gli altri a continuarle. Era radicale in tutto. In anticipo sul Concilio, contestava la ricchezza della diocesi, le case dei padri, i mezzi ricchi di cui disponevano, frutto dell’avvedutezza del vescovo fondatore della diocesi. Coltivava l’ideale che i missionari debbono vivere come gli indigeni, dare ai caboclos più poveri le loro abitazioni e abitare in capanne come la maggioranza dei loro fedeli.
A Parintins fonda la parrocchia di Gesù Operaio e la costruisce in legno e paglia e la sua casa come una casupola di caboclo. Però, dopo due anni si convince a costruire in muratura, come la gente stessa gli chiede. Ma già pensa di lasciare quel posto e dedicarsi alle comunità sui fiumi. Tutta la vita di Augusto corre su questa falsariga: tentare, sperimentare appassionarsi, poi fuggire e ricominciare da capo.
L’epopea dei primi dieci anni di missione di Augusto in diocesi di Parintins è la fondazione delle comunità lungo i fiumi. I caboclos vivevano dispersi su grandi estensioni, famiglie isolate o piccoli gruppi distanti da altri. Non si poteva fare la scuola, la cappella, l’ambulatorio medico. Quando Augusto visita i caboclos dell’interno trova alcune famiglie riunite attorno al fazendeiro, il datore di lavoro perché proprietario di grandi estensioni di terreno in parte già messe a coltivazione. Il missionario che voleva incontrare le famiglie, dava loro appuntamento alla fazenda, unico punto di riferimento e lui stesso era ospite del fazendeiro.
Una situazione che Gianola non poteva accettare. Ne parla al vescovo che accetta di sperimentare la nascita di comunità lontane dalla fazenda, per liberare la gente e la Chiesa stessa da questa dipendenza. Augusto si butta in questa impresa. Sceglie il luogo adatto, compera alcuni ettari di terreno dal governo, incomincia a costruire una cappella, poi visita i caboclos sepolti nella foresta o isolati lungo i fiumi e li convince a far parte della prima comunità cristiana. L’idea entusiasma quella povera gente, in poco tempo nascono diverse comunità attorno alla cappella a cui si aggiunge la scuola, il dispensario medico, il mercato, il salone comunitario, il campo da pallone. Il missionario visitava queste comunità, le famiglie venivano in barca anche da lontano, fermandosi alcuni giorni. Al mattino c’era il catechismo e la Messa e dopo pranzo incontri con vari gruppi, i capi famiglia, gli insegnanti, le infermiere. C’era una vita nuova nelle comunità che nascevano lungo i fiumi. Con il tempo queste comunità sono diventate villaggi o cittadine. Nel 1972, l’ultimo anno che è stato a Parintins, Augusto visitava una trentina di comunità nate lungo i fiumi.
Il motore di queste comunità sono stati i Mariani, appartenenti alla Congregazione Mariana, protagonisti dell’evangelizzazione dei caboclos nell’interno della diocesi, fondati da mons. Cerqua all’inizio della presenza dei missionari del Pime a Parintins nel 1955. Nel 1969 il vescovo nomina direttore diocesano dei Mariani padre Augusto, che svolge quel lavoro con entusiasmo. Li visita nelle loro comunità e ogni anno dirige il ritiro spirituale, che si teneva a Parintins nei tre giorni del Carnevale, quando in tutto il Brasile impazziva l’alienazione festaiola. Dai 1.000 ai 1.200 uomini adulti si isolavano dal mondo esterno per poter pregare assieme e seguire le lezioni di dottrina cristiana tenute da vari missionari.
Augusto era animatore di questo movimento, stimato e amato dalla gente, oltre che parroco di Gesù Operaio. Il 19 marzo 1973 inaugura la chiesa parrocchiale in muratura e a fine marzo lascia Parintins e torna in Italia per la prima vacanza dopo dieci anni di missione. Nel novembre 1973 è in foresta col caboclo Cicero e nel 1974 si ritira da solo al Paratucù, molto più lontano da ogni presenza umana. Solo nell’eremo della foresta, per cercare Dio, parlare con Dio.
II) Un contestatore orientato alla santità

Padre Augusto era di natura sua un contestatore. Sognava sempre qualcosa di diverso, ma, a differenza dei falsi rivoluzionari laicizzati del Sessantotto, tutta la sua vita era orientata a Dio. In lui la fede era forte e sicura, ma era uno spirito libero, insofferente di formalismi e burocrazie. Leggendo le sue lettere mi veniva in mente lo slogan dei primi missionari del Pime: “Mandateci al martirio, ma non in fila”.

La missione è un’avventura della fede

Quando ho scritto la sua biografia, diversi confratelli mi dicevano: “Lascia perdere, era un missionario atipico e fuori da ogni regola”. Allora ho chiesto a mons. Aristide Pirovano, che era stato vescovo di Macapà in Amazzonia e poi superiore generale del Pime, e mi risponde: “Sì, scrivila perché Augusto era un uomo sincero e di sicura fede. Può fare del bene. Ma non presentarlo come un missionario tipico del Pime, perché di Gianola ne basta uno. Due sarebbero troppi!”. La biografia di padre Augusto (“Dio viene sul fiume”, EMI 1994, pagg. 331) ha avuto un successo editoriale insperato, quattro edizioni per complessive 18.000 copie. Ma quello che più mi ha stupito è l’ondata di lettere e telefonate di consenso ricevute, segno evidente che padre Augusto ha toccato il cuore dei lettori e che la sua “avventura missionaria”, scritta a partire dalle sue lettere e dal suo diario, fa del bene.

Un anno in foresta per “cercare Dio”

Il 1974 è per padre Augusto l’anno della crisi nella sua vita sacerdotale: smette di fare il prete e il missionario secondo lo schema tradizionale della Chiesa, per tentare un cammino nuovo, insoddisfatto del come aveva realizzato fino a quel momento il suo sacerdozio: dopo dieci anni in Italia e dieci in Amazzonia, sempre impegnato nella pastorale parrocchiale, lascia tutto e va in foresta, all’inizio col caboclo Cicero sul Rio Pananarú (dicembre 1973-settembre 1974), poi da solo in un posto ancor più lontano dai villaggi, il Paratucú. Voleva imitare gli antichi padri del deserto, che vivevano isolati da tutto il mondo, conducendo una vita di preghiera e di sacrifici, procurandosi il cibo necessario. Augusto pescava, coltivava la terra e andava a caccia con un fucile che aveva portato dall’Italia. E scriveva: “In questi giorni la solitudine mi sembra sia stata la mia vocazione da sempre”.

Molte le motivazioni di questa sua crisi: coscienza della sua debolezza e insufficiente santità, progetto di immergersi nel mondo dei cablocos (con grandi sacrifici) per poter capire ed evangelizzare meglio, non vuole lasciar imprigionare il servizio sacerdotale e missionario in “strutture prestabilite” e soprattutto Augusto aspirava ad un tempo di penitenza e di preghiera per una «ricerca di Dio» più profonda e autentica. In una lettera a monsignor Cerqua (13 luglio 1974) scrive chiaramente: «Vent’anni di sacerdozio mi hanno a poco a poco fatto capire che io non sono adatto per essere sacerdote. Ci vuole molta più fede, molto più amore di Dio e molta più virtù, per poter dare davvero Dio al popolo. Oltretutto io, col malesempio, a volte ho dato il diavolo».
Capiva e toccava con mano la distanza abissale fra la sua miseria e quello che il sacerdozio chiedeva da lui. È un ‘esperienza che prima o poi tutti noi preti facciamo, ma le reazioni sono diverse:
• c’è chi se ne va, rinunzia all’esercizio del sacerdozio: “Ho sbagliato, non sono fatto per un cammino così difficile”;
• chi si siede: “Inutile prendersela e combattere, tanto non cambia nulla”;
• chi s’impegna con buona volontà ma senza angoscia e con umiltà: “Faccio quel che posso con buona volontà e sacrificio, il resto lo fa il Signore”.

Augusto non si riconosceva in nessuna di queste vie. Radicale com’era (voleva tutto e subito), va fuori riga e giunge a conseguenze che non erano capite né dal vescovo, né dai superiori del Pime e nemmeno dai confratelli e dal popolo. Durante l’estate 1973, mentre è in vacanza in Italia, visita diversi monasteri di clausura in Italia e in Francia, con l’intenzione di fermarsi in uno di essi per un periodo di riflessione e di preghiera. Ma poi riparte per l’Amazzonia e inizia (dicembre 1973) il suo primo e lungo periodo di «deserto» nelle foreste e sui fiumi: non sognava di essere un nuovo Robinson Crusoé, ma una specie di san Giovanni Battista o di eremita solitario.
La grandezza di padre Gianola (e la difficoltà di capirlo da parte dei confratelli e del popolo stesso) è questa: si proponeva sempre ideali altissimi, poi si rimproverava quando non riusciva a raggiungerli e si sottoponeva a terrificanti penitenze, in certi periodi perdeva 30 chili per i digiuni e recitava sette Rosari al giorno, quando si accorgeva di essere ancora troppo lontano da quelle mete. Andava in foresta alla ricerca di Dio, della santità, della purificazione da ogni peccato, per avvicinarsi a quell’ideale di sacerdote a cui aspirava con tutte le sue forze, ma che capiva di non aver ancora realizzato. Questa sua ricerca dura tutta la vita.

“La nostra rivoluzione con il Vangelo, non con Marx”

Nel gennaio 1975 padre Augusto esce dall’eremo del Paratucù e va nella parrocchia di Urucarà sul Rio delle Amazzoni. I suoi caboclos sono pescatori, lui vuole farne dei contadini, disboscando la foresta e coltivando le “terre alte” (non toccate dalle acque dei fiumi che facilmente esondano) per far diventare agricoltori i caboclos, che erano per tradizione pescatori. Un’impresa difficile: i caboclos dell’Amazzonia sono sempre vissuti di quanto il fiume dà, la foresta l’hanno sempre vista come un nemico, mentre rappresenta il loro futuro, il luogo della loro stabilità.
Incomincia così il periodo migliore del suo apostolato in Amazzonia, dal 1975 al 1984 si impegna a fondare le “colonie agricole” dei suoi caboclos, sul modello degli Atti degli Apostoli: vita comunitaria fondata sull’amicizia e la condivisione, la preghiera in comune e l’ideale di creare un modello nuovo di vita in Amazzonia, rimanendo ancorati alla terra, evitando così la fuga verso la città di Manaos o di Parintins, dove i caboclos finiscono nelle baraccopoli di periferia a soffrire la fame.

Nasce la “Scuola agricola” di Urucarà, i caboclos lavorano con entusiasmo, trascinati dall’esempio di padre Augusto. Il tentativo di rendere agricoltori i caboclos ha successo e sta diventando un modello di sviluppo comunitario cristianamente ispirato, esemplare per tutta l’Amazzonia.
Ma anche qui, Padre Augusto va in crisi per due motivi:
1) Primo, avvertiva di non essere adatto a portare avanti una struttura anche burocraticamente così impegnativa, che cresceva di anno in anno e suscitava tante invidie da parte dei governanti locali (che non riuscivano a realizzare nulla di simile) e tanti nemici (fazendeiros e commercianti). Alla fine si ritrova solo nell’impresa: i volontari italiani che aveva con sé per vari motivi ritornano in Italia e il personale locale non gli dà ancora piena fiducia!
2) Si accorge che i suoi caboclos contadini, con il successo e i primi soldi che ricevono dai loro prodotti, seguono la via “cittadina”, contro la quale lui stesso aveva tanto polemizzato: l’arricchimento, il consumismo, l’abbandono della vita semplice della foresta, la tentazione di fuggire in città. In una lettera (ai suoi amici di Locate Varesino del 26 gennaio 1981) si dichiara triste per «il fatto che le colonie cominciano a produrre, appaiono i soldi e il cuore dell’uomo ne è accecato. E vero che io ho già da tempo iniziato la campagna contro la ricchezza, ma è quasi un controsenso. Loro mi dicono: «Tu ci hai insegnato la strada del progresso, del come venir fuori dalla miseria e adesso vuoi frenarci e ci dici che siamo sulla strada sbagliata». Non mi ascoltano più, il luccichio dei soldi è più forte delle mie parole. Eppure mi pare di aver parlato chiaro, di non aver dato esempi cattivi, di non esser corso dietro al dio denaro, ma di aver sempre parlato del vero Dio».

Gli anni trascorsi ad Urucarà sono il periodo migliore dell’apostolato amazzonico di padre Gianola. Le lettere di questi anni sono ricche di temi interessanti che rivelano come Augusto amava profondamente il suo popolo e intuiva che la soluzione per il loro sviluppo era di coltivare le sterminate terre amazzoniche, dando dignità al loro lavoro che avrebbe portato benessere. In una lettera da Manaus (10 febbraio 1979) confronta l’esistenza dei caboclos e degli indios con la vita complicata degli italiani e nel mondo evoluto: conclude dicendo di non poter più vivere in una città moderna come Manaus. Il progresso, dice, è inevitabile e risolve molti problemi dell’uomo, ma allontana dalla natura, che rende l’uomo più uomo, più libero, più tranquillo e sereno. È un discorso difficile che lui ripete ai suoi fedeli.
Su questo tema ci sono pagine da antologia: “I coloni non sono più miserabili, ma sentono la tentazione del dio denaro e quelli che si mantengono idealisti sono pochi. La nostra piccola voce non è ascoltata e il progresso senza valore è propagandato dai mass media, che hanno enorme presa su un popolo sprovveduto e bambino. È facile dire loro che l’asino è più ecologico del trattore, ma loro ti dicono: «Allora perché in Italia non usate l’asino? Andare a piedi o in bicicletta sì, è bello e sano, ma perché voi andate in automobile?». lo mi sforzo di andare in canoa, ma passano con la barca a motore e mi guardano come un tipo originale, poveretto! Il progresso ingoia tutto e tutto si complica, addio vita calma e serena. Dovrò rifugiarmi fra gli indios per avere un po’ di semplicità? Forse non ho ancora imparato che la pace è di dentro e non dipende dai tempi e dai posti» (lettera, 23 ottobre 1981).
Un tema di questo periodo è la politica. Augusto viveva nella prelazia di Itacoatiara, affidata ai missionari canadesi di Scarboro, dei quali scriveva: “ Il mio Vescovo e gli altri padri (canadesi) sono rivoluzionari e vogliono a tutti i costi che il popolo sia contro il governo ( la dittatura dei militari, ndr). Io vivo in mezzo al popolo, il suo linguaggio non è rivoluzionario. L’idea della rivolta violenta è importata”. E spiega che il popolo si lamenta del governo, lo critica ma con amore, cioè senza odio (Lettera del 23 ottobre 1982). Augusto scrive dei missionari canadesi: “Loro protestano, incitano alla rivoluzione, noi dialoghiamo ed obblighiamo le autorità a venire incontro alle necessità dei caboclos. Noi otteniamo parecchio, loro non ottengono nulla. È il nostro modo di fare rivoluzione, mantenendo sempre i ponti per il dialogo. Tagliare i ponti è anticristiano, perché anche al di là del ponte c’è gente e non tutti sono disonesti» (lettera dell’8 luglio 1982).
Padre Gianola era preoccupato della finalità religiosa della sua Scuola e del suo operare in campo sociale fra i caboclos. Nel 1990 scrive, ricordando i fatti del 1982-1983): “I coloni sono cresciuti, hanno più soldi, ma la loro fede è aumentata? Nella scuola, ogni mattino dalle 5.30 alle 6.30 c’è «l’ora di Dio». Tutti gli alunni se la ricordano. Anche nelle colonie agricole, prima di partire per il lavoro si legge e si commenta il Vangelo. Noi abbiamo fatto la nostra rivoluzione non con Marx in mano, ma con il Vangelo. E questo lavoro a partire dal Vangelo, dà una speranza più solida e duratura che le nuove piantagioni stesse… Il lavoro di missionario mi ha davvero riempito la vita e non lo cambierei con nessun altro”.
Molto bella la risposta di alcuni amici alle provocazioni di padre Gianola: “Nel tuo discorso c’è tanta serenità: non è l’angoscia di ciò che può succedere politicamente, ma che il tuo progetto di vita sociale e religiosa possa progredire. Dal tuo comportamento emerge la testimonianza di una esperienza religiosa che ti rende attento a mediare fra la fedeltà a Dio e la problematica concreta della vita delle tue 500 famiglie» (lettera a padre Augusto del 23 ottobre 1982).
In canoa dal Mocambo a Macapà, 1.400 km!

Un’espressione sempre ricordata della sua personalità è il frequente combinare scherzi che non tutti tolleravano. Avplte mancava del senso della misura. Quando venne a trovarlo in Amazzonia (nel 1966) il grande amico alpinista Carlo Mauri, un gigante di Lecco che ha lasciato il suo nome su varie “prime” delle Alpi e anche su monti di altri continenti, Augusto lo porta con sé in un viaggio verso gli indios e poi lo abbandona per un giorno e una notte in foresta, facendogli perdere le sue tracce. Mauri si dispera, grida, spara col fucile. Augusto, che gli era vicino, non si faceva vivo,voleva dargli l’impressione che ormai era del tutto disperso. Poi va a “salvarlo” dicendogli: “Hai visto che la foresta amazzonica è più difficile che una scalata sulle Alpi?”.
La prima volta che sono andato a Parintins, nell’estate 1966, la cattedrale era ancora in costruzione, esisteva già il muro portante alto 18 metri. Era il 16 luglio festa patronale di Parintins, la Madonna del Carmelo. La solenne processione con la statua di Maria entra nella piazza della Cattedrale e tutti vediamo padre Augusto in piedi sul muro della cattedrale (senza nessun ponteggio) che dirigeva l’inno sacro. Ci siamo fermati e Augusto ha fatto cenno di continuare la processione, ma era impossibile, sembrava che cadesse da un momento all’altro! Ero proprio vicino a mons. Cerqua che dice fremendo: “Preghiamo perchè non cada, ma quando viene giù mi sente!”. Poi Augusto incontra Cerqua in sacrestia e gli dice: “Ma di cosa si lamenta? Questi bravi fedeli non hanno mai pregato con tanta intensità come quando mi credevano in pericolo di vita! Vedrà monsignore che fra qualche giorno di questa processione del Carmelo parleranno in tutta l’Amazzonia e sarà contento anche lei”.
Padre Giovanni Andena è stato due anni con lui in missione (1964-1965) e racconta che quando andava da Parintins a Manaos in battello, tornando a Parintins diceva al capitano: “Quando arrivi di fronte a Parintins, ferma il battello in mezzo al fiume, io mi tuffo e raggiungo il porto a nuoto”. Infatti, diverse volte si buttava in acqua e nuotava fino a riva. Uno spettacolo terrificante, data la forte corrente, gli anaconda (serpentone acquatico lungo 6-8metri), i jacarè (coccodrilli), i piranha. Augusto sapeva di poterlo fare, ma era una pazzia. Lo faceva per divertire la gente e lui diventava una specie di mito, di eroe popolare. I caboclos non vanno mai a fare il bagno nei fiumi e meno che mai nel Rio delle Amazzoni, di cui tutti hanno paura anche stando in barca.
Era l’uomo delle sfide estreme. Nel giugno 1985 scende il Rio delle Amazzoni in canoa dal Mocambo a Macapà: 1.400 chilometri su un fragile guscio, in 15 giorni e 5 ore, 138 ore di navigazione, in media quasi 10 ore al giorno passate remando! Considerando i pericoli del Rio-Mar (fiume mare) come lo chiamano gli indios, che nel diario Augusto descrive ampiamente (isole galleggianti, vortici e cascatelle che possono capovolgere una fragile canoa, molteplicità dei bracci del Rio con possibilità di perdersi, animali pericolosi), questa impresa appare davvero pazzesca, da Guinnes dei primati! Un ‘altra delle sfide contro se stesso.
Padre Gianola compie l’impresa, fermandosi in villaggi e cittadine per mangiare e dormire. Un’avventura che dopo i primi giorni diventa un fatto mediatico rilevante per i giornali e le radio amazzoniche. L’avventuroso missionario è seguito, monitorato dalle autorità e dai mass media, aspettato, accolto dove si fermava. Le comunità cristiane non lo lasciavano ripartire se non celebrava la Messa per loro. Quando arriva a Macapà una folla lo attende al porto, il governatore e la moglie lo portano a casa loro, comprano la canoa per metterla nel Museo di Macapà, dicono che il viaggio in canoa rimarrà nella storia dell’Amazzonia.
Celebra la Messa in Cattedrale e riparte per Belem in battello, dorme nella casa del Pime e poi, a piedi e in pullman, arriva fino a Recife, in aereo in Portogallo e Fatima e poi a piedi a Lourdes e in Italia. Era il suo “pellegrinaggio di penitenza”.

III) La ricerca di Dio in Augusto Gianola

Padre Augusto Gianola ha congiunto nella sua vita, in modo molto personalistico ma anche con grande sincerità e spirito di sacrificio, le due frontiere estreme del cristianesimo: la missione alle genti e la contemplazione; l’evangelizzazione e promozione umana del popolo caboclo con la ricerca di Dio e della santità. Il ricordo di chi l’ha conosciuto spesso è troppo condizionato dagli aspetti avventurosi e stravaganti della sua vita; anche chi ha letto la sua biografia1 ricorda volentieri le tante avventure e gli episodi singolari, anticonformisti e bizzarri della sua personalità, mentre dimentica o sottovaluta quello che era l’orientamento fondamentale di tutto il suo essere: l’amore a Dio e al prossimo, spinti fino ad eccessi che indicavano l’esuberanza di vitalità che Augusto sentiva e che non poteva ridurre nei limiti dei percorsi sperimentati della via ascetica e mistica cristiana.

“Il missionario che cercava Dio”

Gli ultimi cinque anni della sua vita, dal 1985 al 1990, padre Augusto li dedica alla “ricerca di Dio”. Quando è tornato in Italia dopo le visite ai Santuari mariani di Fatima e di Lourdes, visita alcuni monasteri benedettini in Italia e in Francia, ma poi sceglie di tornare in Brasile, dove viene accettato come novizio al monastero-fattoria cistercense di Jequitibá, nello Stato di Bahia. Era affascinato dall’idea di poter unire la vita monacale e il lavoro fisico in una fattoria e nell’agricoltura, secondo il motto di San Benedetto: “Ora et labora”, prega a lavora. Infatti, all’inizio di questa esperienza, come spesso gli succede, è contentissimo, scrive lettere entusiastiche, dice che tutto va bene ed è a un passo dal risolvere i suoi problemi. Poi, sei mesi dopo, sente nostalgia dell’eremo del Paratucú e dell’Amazzonia: il 18 agosto 1986 abbandona Jequitibá e, con un viaggio avventuroso di nove giorni con mezzi pubblici e a piedi, si ritrova nel Paratucú.

Augusto capisce che il suo è un comportamento strano, pochi sono disposti a capirlo ed a perdonargli. Al superiore generale del Pime scrive (28 dicembre 1985): “Ritengo il Pime l’Istituto missionario più meraviglioso del mondo” e non esagera! Qualunque altro Istituto gli avrebbe dato uno o due anni di esclaustrazione, poi l’avrebbe espulso… Alla sorella Annamaria e alle Carmelitane di Sassuolo (18 agosto, 1986) scrive: «Ho visto che qui nel mondo ci si appoggia a molte cose che non sono Dio, sono speranze fondate sui soldi, sulla gente, sulle forze del progresso. A me piacerebbe invece fare l’esperienza di una fede totale, che dipende solo da Dio e basta. Lo so che con la mia piccola fede iniziale è un assurdo, una presunzione temeraria, una tentazione di Dio, una pretesa pazzesca, un ‘imprudenza dal punto di vista umano, forse un inganno diabolico o un’infantile ricerca di me stesso e di avventure di uno spirito inquieto, immaturo, incerto e orgoglioso. Ma devo anche dire con sincerità che in mezzo a tutte queste tensioni negative io scopro anche un vero sincero desiderio di incontrarmi col mio Infinito e Misterioso Amore, che da sempre mi perseguita e mi vuole tutto per sé”.
Però il 20 agosto 1986 scrive alla mamma: “Questo tuo figlio non sembra soddisfatto di nulla, è sempre alla ricerca di qualcosa che non ha ancora trovato”. E’ la definizione che egli dà di se stesso e infatti, rileggendo le sue lettere2, appare chiara questa caratteristica della sua personalità, sempre volta al superamento di se stesso, al desiderio di inventare qualcosa di nuovo, all’insofferenza per i ritardi e gli ostacoli che gli impedivano di realizzare i suoi ideali. Insomma, un uomo eccessivo in tutto. Però sempre ancorato a Dio e al sentire del popolo e in fondo al buon senso di una personalità autenticamente cristiana.

In Italia, ho avuto due incontri significativi con padre Augusto (1980 e 1985), ed entrambe le volte sono rimasto perplesso. Come direttore di “Mondo e Missione”, che lui leggeva e apprezzava, gli ho chiesto di poter pubblicare qualcosa su di lui e sulla sua esperienza. La prima volta non voleva, la seconda volta l’avevo intervistato a lungo, poi erano passati due anni prima che permettesse di pubblicare il servizio speciale “Mission ‘87” su Mondo e Missione (maggio 1987). Enzo Biagi, dopo aver letto quella sua lunghissima intervista, mi ha telefonato dicendomi che voleva andare in Amazzonia a conoscere quel personaggio. C’è poi andato nell’ottobre 1989, con l’aiuto del Pime di Manaos. Ne è venuta fuori la trasmissione su Rai Uno con l’intervista televisiva di Enzo Biagi (e la video-cassetta della San Paolo) che ha fatto conoscere padre Augusto ad una vastissima cerchia di telespettatori. Biagi ha poi scritto la prefazione alla biografia “Dio viene sul fiume”.
Mi aveva sconcertato il motivo per cui Augusto rifiutava di farsi intervistare. Continuava a ripetere di essere indegno, peccatore, l’ultimo dei missionari, di non aver nulla di positivo da raccontare! Una umiltà sincera ma esagerata, drammatizzata. Eppure in quelle conversazioni lo ammiravo perché parlava di amore di Dio, di santità, di volersi spendere tutto per i suoi caboclos. A Roma, una sera d’estate del 1980 siamo andati a piedi sul Gianicolo e davanti a un bel gelato Augusto mi chiede: “Ma insomma, Piero, tu cerchi Dio? Tu aspiri alla santità? Che immagine ti fai di Dio? Quali sono i tuoi rapporti con Gesù e con la Madonna?”. Discorsi non abituali anche tra presti e missionari.
Avevamo discusso a lungo su questa “ricerca di Dio” e lui concludeva con quelle domande provocatorie. Gli dicevo che Gesù ha buttato giù da cavallo Paolo, però col profeta Elia si manifesta in altro modo: non era nel vento gagliardo che spaccava le rocce, né nel terremoto e neppure nel fuoco, ma in una leggera brezza. Non dobbiamo pretendere di conoscere Dio più di quello che lui stesso ci fa conoscere e sperimentare. Quando preghiamo, osserviamo la legge di Dio e ci doniamo agli altri, dobbiamo vivere serenamente. Ma lui concludeva con quelle domande provocatorie.
In tre anni al Paratucù perde 30 chili

Gli ultimi anni della sua vita padre Augusto li ha trascorsi quasi interamente nell’eremo del Paratucù, in cui si è ritirato nel settembre 1986. Vi rimane tre anni, fino al 18 agosto 1989. È il periodo finale della sua esistenza, del quale abbiamo poche ma significative lettere. Scriveva poco anche perché al Paratucú era molto isolato, riceveva e spediva posta solo ogni mese o due, quando qualcuno andava a visitarlo. Il 3 ottobre 1986 scrive nel Diario: “Questa (del ritorno al Paratucù) è un’avventura diversa e finale, cioè il finir bene la mia vita così sconclusionata, il prepararmi a morire, tentare l’avventura più bella che è quella di rispondere con amore a un Dio che da 56 anni mi chiama con amore. Per me – aggiunge il 10 ottobre – non esiste ormai che una sola avventura da compiere, ne sono sicuro, l’avventura più bella, l’unica che dia un senso alla vita. L’Avventura di Amare Dio. Non desidero altro nella vita”.
Passare tre anni in foresta, distante 3-4 giorni di cammino dal luogo abitato più vicino (il Mocambo), presuppone l’esistenza di una struttura abitativa. Quando Augusto vi si stabilisce a metà settembre 1986, si fa accompagnare da quattro caboclos del Mocambo e da un indio, Marcelino, che portano provviste e strumenti per poter sopravvivere. Il luogo è alla confluenza del fiume Paratucù con un suo affluente, in un triangolo di “terre alte” che non vengono sommerse durante i mesi di piena dei fiumi. I caboclos si fermano con lui alcuni giorni e gli costruiscono tre grossi capannoni di bambù e paglia: uno per abitazione, il secondo per il lavoro (soprattutto di falegnameria) con gli strumenti necessari, il terzo come deposito e accoglienza di eventuali visitatori.
All’ingresso un albero che porta una lunga tavola di legno sulla quale si legge, dall’alto in basso: “Ora et labora”. E’ l’insegna dell’eremo, che è tutto cintato da un’alta siepe protettiva, con una via tracciata che lo attraversa tutto. All’interno zappano un orto dove seminano fagioli, cipolle, pomodori, coste, zucche e poi manghi, banane e altra frutta. Marcelino si ferma più a lungo con lui per insegnargli i segreti degli indios per sopravvivere in foresta, le erbe e le radici commestibili.
Ma l’orto produce poco scrive Augusto e a volte è parzialmente intaccato da insetti o dalla “sauva” (formiche), zucche e fagioli mangiati dal camaleonte. Di fronte a questa distruzione del suo lavoro scrive: “Mio Dio, prendimi tutto, ma dammi Te. Io sono qui per fare penitenza. Che penitenza sarebbe, in mezzo a bei raccolti e molta frutta e senza fame? S. Giovanni Battista si nutriva di locuste e radici, io voglio mangiar bene. E’ sbagliato. Perciò accolgo con spirito nuovo le distruzioni delle mie piantagioni”.
Il suo lavoro quotidiano è soprattutto procurarsi da mangiare (e scrivere sul Diario (nove grossi volumi formato A4, i suoi pensieri e riflessioni). Pesca nel fiume con le reti e la canoa, ma pesca poco; col fucile va a caccia e qualcosa prende sempre. Una volta uccide un’anta (tapiro o grosso maiale selvatico), ottima carne. Augusto scava una fossa, lava nel fiume tutta la carne, la sala e la mette dentro la buca avvolta in larghe foglie di banano. Ma dopo una decina di giorni la carne puzza, marcisce. La tira fuori, la lava bene al fiume, la mette al sole e si secca. Va avanti per un po’ a mangiare, scrive che quella carne arrostita al sole puzza ed è piena di vermi, ma è ancora mangiabile! Mangiava poco e male e in modo irregolare, aveva lo stomaco in rivolta, ma quel che mangiava lo digeriva. Ci voleva uno con la sua resistenza fisica per sopravvivere perdendo 30 chili e continuando a lavorare! Se una volta al mese l’indio Marcellino non andasse a portargli la posta e un po’ di provviste, rischia di morire di fame! A volte vengono amici dal Mocambo e gli portano cibo, medicine, veleno per le formiche, un gatto per i topi, cartucce per il fucile, il vescovo Cerqua gli manda ostie e vino per la Messa che celebra ogni domenica. ecc. A Natale 1988 vengono a prenderlo dal Mocambo, a mezzanotte celebra una messa indimenticabile, ma si ferma al Mocambo solo due giorni poi torna al suo eremo.

La gioia di Augusto colpito dalla lebbra

Nei tre anni finali vissuti al Paratucú, padre Gianola si immerge sempre più totalmente nell’isolamento, nella preghiera e nella contemplazione, nella tensione verso la santità, nelle mortificazioni e nei digiuni. In alcune lettere paragona il suo stato alla “pazzia dei Santi”, consacrati ad una sola meta: “I santi erano pazzi – scrive ai nipoti nel dicembre 1987 – con una sola idea in testa e una volontà fissa in quell’idea. S. Francesco era un pazzo, ma anche S. Paolo, lo stesso Gesù, con un’idea ed un amore totale a quell’idea. Come vorrei essere davvero pazzo, ragazzi, pazzo per il Signore, mio Padre, mio Re, mio Pastore, mio amico. Allora sarei santo. Invece, purtroppo, sono intorbidato nelle mie stupide idee e non riesco a correre».
Due i sentimenti di fondo in questa estrema ricerca di Dio: la coscienza della propria piccolezza, insufficienza, debolezza; e la certezza di aver pregato e cercato Dio con tutte le forze, raggiungendo la serenità di averlo trovato, nei ristretti limiti della natura umana. La “tormentata ricerca di santità» della vita di padre Augusto (sottotitolo della sua biografia) diventa, al termine della vita, una” serena e gioiosa certezza di aver trovato Dio». Su tutto domina il sentimento profondo della fede, l’atmosfera di fede in cui Augusto è sempre vissuto, nonostante i suoi sbagli, stranezze, contraddizioni. Testimoni di questa fede le due lettere in morte della mamma (nel 1989), vero capolavoro di letteratura cristiana.
Bella anche la lettera in cui si dichiara il cagnolino di Dio! “Ho letto “Fuoco in Castiglia” e l’ho goduto. Perbacco, ma quella S. Teresa d’Avila è troppo alta per me, mi ha fatto invidia… mi sono sentito uno straccio e comunque se lei è un’aquila io sono un cagnolino, ma sempre del buon Dio. Mi basta avere una cuccia fuori del Paradiso. Gesù è il mio Pastore e quando mai si è visto un pastore senza un cane?” (lettera alla sorella Annamaria, Natale 1987).
“Se mi chiedete a che punto sono del mio cammino Vi rispondo che sono sempre all’inizio, anzi, quanto più vado avanti, tanto più mi sembra di andare indietro. Ma è questo appunto che mi fa felice, vivere in questo mistero. Mi chiederete come ho fatto a trovare Dio. Vi dirò che l’ho cercato appassionatamente. Ricordo quando ero ragazzo, mi piaceva molto cercare i funghi e ne trovavo più di molti altri che venivano con me. Perché? Perché loro li cercavano distrattamente, senza passione, si stancavano, volevano solo tornare giù, per bere un buon vino all’osteria, con polenta e salsicce. Io invece li cercavo con la passione dei fungiatt (cercatori di funghi, ndr). E li trovavo. Con Dio è come con i funghi. Mai lo troverà chi non lo cerca o lo cerca solo qualche volta, distrattamente. Bisogna cercarlo con passione e costanza. Lo si trova certamente. Se no passeremo la vita tra il vino e le luganeghe (salsicce, ndr) e non troveremo mai quel tesoro che è l’unico per cui vale la pena di vivere. Cerchiamolo insieme. Forza!» (lettera ai compaesani di Laorca, ottobre 1988).

Negli ultimi mesi del suo isolamento si moltiplicano le visite per farlo uscire dalla foresta. Tutti sapevano della sua malattia (la lebbra) perché l’aveva visitato a Parintins fratel Francesco Galliani, fondatore e direttore della «Casa padre Vittorio Giurin» per i lebbrosi (1). Nel 1989, l’ultimo anno al Paratucù, padre Augusto matura a poco a poco la decisione di uscire dall’isolamento: riceve inviti e stimoli per tornare ad Urucarà o a Parintins, capisce che il suo eremo è sempre più conosciuto e disturbato. Molti amici vengono a trovarlo, altri arrivano fino a lui, per fiume e per terra, per i più svariati motivi, soprettutto per vedere questo padre Augusto di cui si parla tanto. La fama del missionario eremita si è diffusa oltre le diocesi di Itacoatiara e di Parintins, vengono in gruppi per intervistarlo, fotografarlo, vedere come vive.
Nella primavera 1989, padre Augusto va a Parintins per fare esami clinici: ormai da più d’un anno ha il piede e la gamba destra quasi insensibili e una ferita al piede, causata da una grossa spina, che non si rimargina più e fa marcire la carne. Lo visita fratel Francesco Galliani che gli dà il responso: è lebbra! Poi lo manda a Manaus dal professor Sinesio Tagliari (figlio di italiani), specialista del morbo di Hansen: anche lui constata che Augusto ha la lebbra e gli dà le prime medicine.
Ai suoi compaesani di Laorca, padre Gianola scrive: “Quando i medici mi hanno dato il loro verdetto: lebbra! ho sentito il mio cuore riempirsi di una felicità mai provata. Come è buono il nostro Dio! Ci dà le prove perché ha fiducia in noi e poi ci dà la felicità di portarle. Così adesso incomincio un’altra avventura, la più bella di tutte, perché anche la disavventura rende più bella l’avventura: i medici dicono che faranno di tutto per guarirmi in breve tempo. Sarei contento di tornare a lavorare con i miei caboclos. Ma quasi quasi, a dire il vero, non mi dispiacerebbe neanche di finire la mia vita in un lebbrosario, assieme ai più poveri e disprezzati dal mondo” (lettera ai compaesani di Laorca, settembre 1989).

Padre Augusto scrive nel 1958: “La preghiera. Sono ancora all’inizio di quest’arte. E sono quasi vecchio, ma non riesco a penetrare l’altezza dei cieli per localizzare Dio in cui fermamente credo. Se mi si dice che non è necessario guardare nei cieli lontani ma che è qui vicino, nel mio cuore, peggio ancora: il cuore è più misterioso e profondo del cielo. Insomma, la mia preghiera non ha potenza, non ha penetrazione, non entra nel profondo, non va lontano, alta. E’ fiacca. Ecco, io ho bisogno di un Dio che sta solo a due o tre metri, quattro al massimo, davanti a me, facile da vedere, da contemplare. Oh, Dio, fatti più piccolo e più vicino!”.

Conclusioni.

La biografia di Augusto «Dio viene sul fiume – Una tormentata ricerca di santità » è un formidabile messaggio di evangelizzazione soprattutto per i giovani d’oggi. Perché Augusto è un giovane, di spirito giovanile, di sensibilità aperta. Moderno, avventuroso, insofferente di fronte alle regole e alle pastoie burocratiche (per alcuni versi uno «spirito sessantottino»), amante della natura, poeta, sognatore, scrittore geniale ed efficace… insomma, ha tutte le qualità per piacere ai giovani di età e di spirito. E nello stesso tempo trasmette con tutta la sua vita questo messaggio di fede: solo Dio conta, il resto, in fondo, passa presto e non vale niente; ha valore solo se è orientato a Dio, se è vissuto per Dio e nella Legge di Dio.
Non è che di Augusto si possa approvare tutto. Per carità, era fuori riga in molti campi e aspetti della vita, ha fatto molti sbagli. Ma anche questo suo prepotente scoppiare, esplodere, non stare mai dentro nessuna regola, finisce per condurre a
Dio, a Gesù Cristo, al Vangelo. Lo ripete lui stesso più volte: nessun cammino può agganciare l’Infinito, nessuna teologia può rappresentare l’Assoluto, nessuna regola o modello umano può avvicinarsi a quello di Cristo. L’uomo deve sempre cercare il di più, andare oltre, allargare lo sguardo al di là delle frontiere stabilite, sapere che Dio è e rimane misterioso e si conquista solo con una fede e un amore senza limiti.

Nel febbraio 1996 sono stato al Mocambo, una delle parrocchie più lontane della diocesi di Parintins sul Rio delle Amazzoni, ai confini con la diocesi di Itacoatioara, da dove padre Augusto partiva per andare nel suo ultimo eremo in foresta, il Paratucù. Al Mocambo, nel 1996, c’erano due giovani volontarie italiane dell’ALP (Associazioni Laici Pime), un’infermiera e un’insegnante, le quali mi dicevano che il ricordo di padre Augusto era molto vivo tra la gente, lo pregavano e visitavano la sua tomba nel piccolo cimitero del villaggio, dove era stata sepolta, in una piccola scatola, una boccetta col suo sangue (estratto per esami clinici). Nella chiesa del Mocambo, un grande quadro di Augusto, opera del fratel Michele De Pascale, appeso al muro a fianco dell’altare, oggetto di venerazione e di preghiere.
Nel mese di agosto 2011, parlo a Milano con padre Giovanni Andena, missionario a Parintins dal 1958, che ha conosciuto benissimo padre Gianola e gli chiedo se oggi, a più di vent’anni dalla sua morte, è ancora ricordato dalla gente comune. Dice: “Sì, molti ormai non l’hanno conosciuto, ma tanti altri lo ricordano e anche i più giovani hanno sentito parlare di lui. Lo ricordano per le sue stranezze e modi contro-corrente, ma anche perché sanno che lui voleva veramente bene ai caboclos e voleva portarli a Dio, indicava al popolo che solo Dio conta nella nostra vita”.
Padre Gheddo a Radio Maria (2011)

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