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Image by ekrem from Pixabay

Il deserto è uno dei più maestosi scenari del globo (come l’Everest, l’Amazzonia, gli Oceani) che Dio ha preparato perché ci ricordiamo di Lui. Attraversandolo in auto, dormendo una notte sotto le stelle e contemplando quell’immensità  di sabbia e rocce nel silenzio e nell’emozione della mia piccolezza e nullità di uomo, meditavo e pensavo: “Se questo luogo che esiste da milioni di anni è così affascinante, incantevole, seducente, quanto dev’essere più grande e bello Dio che l’ha creato! E come mi vuole bene il Signore, che l’ha creato per me”. Che grande cosa la fede,  cari amici lettori, che riempie e anima tutti i vuoti della vita e della natura!

   Un prete medico con una vita avventurosa

 Eppure il deserto del Sahara, che parte da Tripoli e dopo 3.000-3.500 chilometri arriva ai primi insediamenti umani dei paesi confinanti, è il luogo dove si svolge una delle tragedie umane più ignorate del nostro tempo: migliaia, decine di migliaia di africani poveri e spesso perseguitati e disperati tentano di attraversarlo a rischio della vita; per arrivare in Libia, da dove, se va bene, riescono a venire in Italia, in quell’Europa che per loro è come l’America degli italiani poveri di un secolo fa.

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A Sebha, 850 km. a sud di Tripoli, il prete veneziano Vanni (Giovanni) Bressan lavora da 16 anni come medico dell’ospedale governativo: gradito a tutti, ha fondato la Chiesa nel deserto e anche la prima scuola cattolica della Libia. Sono stato con lui nel suo appartamento con un cortiletto tutto suo, al mattino celebravamo la Messa nella sua sala da pranzo, in chiesa celebra solo il venerdì e la domenica perché i cristiani lavorano e non sono liberi di venire. Padre Vanni è un uomo interessante con una vita da romanzo giallo e di avventure (altro che le vuote e frivole “fiction” delle nostre televisioni: ma chi farà mai una fiction su padre Vanni?). Nato a Venezia nel 1931, è diventato medico all’università di Padova, poi ha studiato teologia in Belgio presso l’istituto missionario di clero secolare (come il Pime) SAM (Società Ausiliari delle Missioni), che forma preti e li manda a servizio dei vescovi locali delle missioni. Ha fatto il medico in Pakistan dove l’avevo conosciuto (in Beluchistan, preso di mira dagli estremisti islamici), Iran (sotto Khomeini) e Afghanistan (sotto i russi!), prima di arrivare in Libia nel 1990, sempre per rispondere ad inviti dei vescovi locali e per programmi di cura della lebbra.

“Sono giunto a Sebha nel 1990 – racconta – abitavo un piccolo appartamento dello stato e lavoravo in ospedale. C’erano solo due piccoli gruppi cattolici di indiani e sudanesi, ci incontravamo in case private. Da una decina d’anni sono arrivati tanti neri dai paesi a sud del deserto (Camerun, Nigeria, Ciad, Benin, Togo, Burkina Faso, Costa d’Avorio), con viaggi avventurosi. Oggi, nella regione di Sebha i neri sono circa 40.000 su 200.000 libici, forse più della metà cristiani. I libici sono tolleranti, c’è molto lavoro per i neri: in agricoltura (c’è acqua), come meccanici, falegnami, muratori, ecc. Si fermano qui tre-quattro anni e quando hanno 4-5mila dollari vanno sulla costa libica per venire in Italia, rischiando la vita”.

La fuga dall’Africa per venire in Italia

Sono stato alcuni giorni fra questi africani a Sebha: dicono che il governo libico è tollerante, loro sono giovani e preparati, fanno qualsiasi tipo di lavoro pur di guadagnare e venire in Italia: meccanici, saldatori, elettricisti, spazzini municipali, falegnami, nei ristoranti, in agricoltura, ecc. Se non danno fastidio il governo chiude un occhio sulla loro irregolarità, prima o poi trovano un lavoro e sono utili all’economia libica, fin che non tentano l’avventura di venire in Italia. Quanti racconti ho sentito di vere tragedie successe durante l’attraversamento del deserto su camion strapieni, per cinque-sei o più giorni, sempre sperando e pregando che non succedano incidenti, rotture del motore. La strada è una pista precaria nel deserto di sabbia. Incontrano qualche oasi abitata o carovane di tuareg che vendono loro acqua e cibo, ma la traversata è sempre un rischio, un azzardo facile da immaginare.

Arrivando in Libia, a circa 200-250 km. dal confine (solo sulla carta), il primo posto di polizia è ad Al Qatrun, dove incomincia la strada lastricata verso Sebha (a più di 100 km. a nord). Gli africani sono fermati e schedati dalla polizia, poi proseguono verso la regione coltivata attorno a Sebha (80.000 abitanti): qui lavorano per guadagnare 4-5.000 dollari con i quali pagarsi il viaggio in Italia e in Europa. Se commettono crimini rischiano grosso perché sono portati nel deserto dove muoiono di fame e di sete. Ma in genere gli africani lavorano duro e guadagnano. Dopo qualche anno cercano l’occasione per andare al nord verso Tripoli o Zuwarah, da dove partono per Lampedusa. Qui è in agguato lo sfruttamento di criminali libici: ad esempio, chiedono i soldi in anticipo per la traversata e poi non si fanno più vedere; oppure mandano questi poveracci su barcacce che non resistono nella traversata marina perché con motori avariati o per il mare troppo mosso: a volte rimangono a soffrire per giorni e giorni in mare. Se gli va bene sono scoperti dalla guardia costiera o dalla marina militare italiana e tratti in salvo a Lampedusa, a volte sono abbandonati a se stessi.

Ho incontrato un ragazzo nigeriano che ha fallito due volte di venire in Italia perché gli hanno rubato i soldi: è tornato a Sebha, non vuole mollare, lavora ancora qualche anno e poi ritenterà. La vita di questo popolo di neri nel deserto è precaria al massimo. Ogni tanto, non si capisce perché, la polizia libica stringe i freni e fa una retata per punirli e magari portarli nel deserto. I ragazzi sono spaventatissimi, per loro è la morte. Altre volte, sempre senza spiegazione, li liberano dopo qualche giorno di detenzione: forse è solo una minaccia se non rigano dritto. Padre Bressan è già intervenuto parecchie volte per farseli restituire, gli credono sulla parola e glie li danno indietro.

 “In parrocchia fanno tutto i neri”

Ho parlato con i capi cristiani di queste comunità. Sognano l’Italia e l’Europa. Inutile chiedere perché non si fermano in Libia, dove c’è lavoro per tutti. Vanni riesce a fermare alcune famiglie che trovano una buona sistemazione, ma il miraggio, il sogno rimane l’Italia. Ha già aperto una scuola per i loro bambini e vorrebbe iniziare una scuola professionale per le donne insegnando infermieristica, cucina, taglio e cucito, lavoro di parrucchiera. Bressan dice: “Gli africani a Sebha sono circa 10.000, lavorano tutti e sono molto stimati, quindi hanno un po’ di tranquillità e di stipendio che permette di risparmiare. Questi ragazzi sono buoni, gente semplice, lavoratori, cordiali. I cristiani sono molti, cattolici o protestanti, che fuggono dai paesi a sud del Sahara. Sono attaccati alla fede e alla Chiesa, entusiasti della fede. Se venissero in Italia, lo dico perché ne sono convinto, sarebbero di buon esempio e di aiuto alla società italiana”.

Come fai a fare il medico e il parroco?“La parrocchia l’hanno organizzata i neri spontaneamente. Io dò solo la copertura e l’assistenza spirituale, ma fanno tutto loro, si dividono in gruppi, inventano lavori e servizi ecclesiali e sociali. Io sono l’unico prete, ho 75 anni e faccio anche il medico. La parrocchia ha molti settori e gruppi diversi: teatro, canti, assistenza agli anziani, visite alle famiglie e agli ammalati, bambini, aiuto ai poveri, gruppo biblico, visita ai lontani per ricondurli alla Chiesa, ecc. Sono attivissimi per abitudine contratta in Africa. Appartengono a due movimenti, la Legione di Maria e i carismatici cattolici. Sanno organizzarsi da soli senza prete. Sarebbero una risorsa per la Chiesa italiana. Anni fa sono stato a Londra, un pastore anglicano mi diceva: “Alcune nostre chiese o parrocchie si sono rinvigorite perché sono arrivati tanti di questi africani giovani ed entusiasti della fede”.

I profughi più numerosi nella parrocchia di Sebha sono nigeriani. Mi dicono che in Nigeria le diocesi hanno tante vocazioni, debbono respingere le richieste di giovani. Bressan li loda perché “quando qualcuno sta male, si fanno in quattro per aiutarlo. Ho avuto casi di giovani che dovevano essere operati e qui non li operano se sono profughi. Io lo dicevo alla Messa e trovavamo tra i profughi 500 dollari per rimandare il malato in Nigeria in aereo ed essere operato”.

 Le strutture di cui dispone padre Bressan nella parrocchia fondata dieci anni fa, sono scarse. In un quartiere molto povero ha comperato un bel terreno, adattando un grande capannone a chiesa (per circa 200 persone). Poi c’è la scuola riconosciuta dallo stato e iniziata per la richiesta dall’ambasciata nigeriana in Libia (in maggioranza i 100 bambini sono nigeriani), due cortili e parecchie sale per la cucina della scuola, l’ufficio parrocchiale, riunioni e catechismo, appartamento per il custode. Padre Vanni abita a dieci minuti di auto e i cristiani sono molto dispersi in città e nei villaggi vicini. Oltre alla chiesa di Sebha, Vanni ha costruito altri centri cristiani e chiesette più piccole a Brak, Murzuq, Ubari, Ghat (distanti da 80 a 500 km.), dove ci sono consistenti comunità cristiane che visita quando può, una volta al mese.

“Ammiro molto il movimento carismatico”

  L’imperativo di questi cristiani neri è di avere ciascuno la propria Bibbia. Vanni le importa dall’India in inglese e francese in edizioni popolari e se veramente c’è uno che non può pagarla, allora la regala. Per loro è una bella cifra (un pranzo al ristorante costa 3 Euro per due persone, n.d.r.) e padre Bressan non possiede risorse abbastanza stabili e consistenti per fare tutto quel che vorrebbe e potrebbe, anche se lo aiutano gli amici personali, le Pontificie opere missionarie, la Caritas italiana e la Missio tedesca. E’ una pena visitare queste Chiese nascenti con tante possibilità di crescita e trovarle mancanti non solo di personale consacrato, ma anche di aiuti economici adeguati.

A Sebha, ogni martedì da otto anni si fa la veglia biblica nella chiesa parrocchiale. Recitano il Rosario, molti canti, leggono il Vangelo e ciascuno esprime la sua riflessione, fanno un’ora di adorazione. La veglia incomincia alle 22, padre Vanni parla a mezzanotte in francese e in inglese (due i due gruppi linguistici) e poi torna a casa a dormire. “Ma loro vanno avanti a pregare fino alle due di notte, poi dormono su tappeti per terra in chiesa e nelle salle della parrocchia. Al mattino vanno a lavorare… Ammiro molto il movimento carismatico che dà loro questa carica di entusiasmo e capacità di sacrificio”.

Al lunedì c’è l’incontro serale dei “teaching ministries” nigeriani (ministri della parola). Incomincia alle 20 e si va avanti fino alle 22-22,30. Si preparano alla predicazione di quel tempo liturgico e quando non c’è il prete supplisce il capo di questi ministri e questo insegnamento lo fanno anche nelle case. Ho assistito all’incontro il lunedì 11 dicembre 2006. C’erano 16 ministri, uomini fra i 25 e i 35 anni di età, bella gente convinta, giovani forti e vigorosi, animati, entusiasti del loro compito. Non ho capito tutto quel che dicevano (la pronunzia dell’inglese è un problema in tutto il mondo!), ma ho ammirato la loro fede, l’attaccamento alla Bibbia e alla Chiesa e ho parlato dieci minuti per incoraggiarli.  Dopo l’incontro, due sono venuti a chiedermi se posso interessarmi per farli venire in Italia. Perché non vi fermate in Libia dove c’è lavoro? “Perchè c’è l’islam e noi conosciamo l’islam in Nigeria, non vogliamo vivere in un paese islamico”.

Piero Gheddo

Mondo e Missione – marzo 2007

Pubblicato con il permesso del Pime
(18/7 R. Perin – Direttrice dell’Ufficio Storico del Pime)

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