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La beatificazione di Carlo De Foucauld il 13 novembre 2005 indica certamente uno dei modelli più originali di vita evangelica che la Chiesa propone nel nostro tempo, quando ci interroghiamo sul come essere missionari nella nostra società scristianizzata oppure fra popoli non cristiani spesso ostili. Quando ho incominciato a visitare le missioni ho incontrato in varie parti del mondo le comunità del De Foucauld. Nel 1967 ero ad Hong Kong, i profughi dalla Cina rossa si convertivano in massa. Sacerdoti e suore stranieri erano pochi, quelli indigeni ancora meno, le giovani suore francesi del De Foucauld vivevano nella baia di Aberdeen su due barche di pescatori fra “il popolo delle barche”, aiutando la gente che stava loro attorno e annunziando Cristo, ma senza prendere impegni con le parrocchie. I missionari del Pime, ai quali allora era affidata la diocesi, ammiravano queste sorelle, ma non le capivano. Io stesso, animato dallo spirito missionario secondo la nostra tradizione, ero disorientato da questo modo di “fare missione”. Mi sbagliavo, non avevo ancora maturato il concetto che nella Chiesa molti sono i carismi e nessuno di essi può pretendere di rappresentare tutto il Vangelo.

     Quale in sintesi il carisma di De Foucauld attualissimo oggi? Quale la sua via alla missione? Anzitutto l’amore a Gesù Cristo e all’Eucarestia, che si esprime nell’adorazione e nell’attenzione ad ogni uomo, specie i più piccoli, più marginali, meno considerati nella società. Tutti siamo chiamati alla santità e De Foucauld propone di seguire il cammino che Gesù ha percorso nei suoi primi trent’anni: la vita ordinaria a Nazaret così nascosta e così piena di Dio, come luogo di santificazione; la contemplazione nella vita quotidiana, in mezzo alla gente comune. Una “via missionaria” che sempre più le giovani Chiese stanno riscoprendo, specie dove è molto difficile o quasi impossibile essere missionari secondo la tradizione. Anni fa ho visitato padre Abramo Aykhara, educato nei seminari del Pime e poi entrato nell’Istituto missionario indiano di San Tommaso Apostolo nel Kerala, di clero secolare, fondato nel 1980 sul modello delle Costituzioni del Pime, che realizza presenze cristiane significative in quelle regioni e stati dell’India dominati dall’induismo più integralista e anti-cristiano. Ad esempio, il Madhya Pradesh, 75 milioni di abitanti con poche migliaia di cattolici.

      Dal 1980 padre Abramo è missionario nella diocesi di Ujjain in Madhya Pradesh: ispirandosi a De Foucauld, ha fondato una missione a Malikhedi, in regione di induismo accanitamente anti-cristiano e senza tribali animisti. In tutto il suo vasto territorio ha solo cinque famiglie di cattolici emigrati dal sud India, prima nascosti, ora emersi, con la cappella aperta a tutti che Abramo ha costruito. Vive e prega con cinque suore, che aiutano i poveri in un dispensario medico e una scuola elementare. Hanno adottato le regole dei monasteri indù, ad esempio sono vegetariani e fanno molta preghiera e adorazione pubblica (la piccola cappella ha sempre la porta aperta sulla pubblica via); rispettano le leggi dello stato, non convertono nessuno, non fanno “propaganda” cristiana. Però la loro testimonianza è accolta in modo favorevole, suscita interrogativi e apre il dialogo con sacerdoti e saggi indù: Abramo insegna loro il sanscrito, l’antica lingua sacra dell’India. La comunità non si presenta come Chiesa cattolica, ma come “Devata Ashram”, il Monastero della Madre di Dio. Insomma, nel nostro tempo in India, più “ad gentes” di così è difficile immaginare, in un ambiente in cui è quasi impossibile fare altro.

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    Ecco la ricchezza e bellezza della Chiesa! A non molta distanza da Malikhedi, in altra area priva di presenze cristiane, a Bhadrachalam in Andhra Pradesh, un missionario del Pime, Agostino Mundupalakal, che già ha lavorato in Camerun, ha aperto una missione fra il popolo Khoya, tribali che ignorano il Vangelo; con lui è andato il vescovo emerito mons. Matteo Cheriankunnel, missionario del Pime quasi ottantenne ma ancora valido, che sta dando un bell’esempio alla Chiesa dell’India (anch’essa ha tendenza a chiudersi). In pochi anni hanno avuto tre comunità di suore e aperto scuole, pensionati per studentesse e ragazzi poverissimi, dispensari medici, centro di assistenza sociale, visite ai villaggi, ecc. Insomma, la missione classica della tradizione: in India la Chiesa si è impiantata attraverso l’istruzione, l’assistenza sanitaria e nelle emergenze, l’aiuto ai poveri.

     Meglio la missione di Agostino o quella di Abramo? Nessuna delle due, sia perché sono unite in Cristo e nella Chiesa e questo è quel che conta; poi perché in ogni tempo e in ogni situazione può darsi che un tipo di missione sia più attuale, più opportuno dell’altro. Ma qui si entra nelle diverse sensibilità e nella libertà dei figli di Dio. San Paolo diceva: “(In un modo o nell’altro), purché Cristo sia annunziato!”.

     Ho l’impressione che, specialmente nelle giovani Chiese in Asia e nei paesi islamici, il “modello De Foucauld”, in varie forme espressive, stia oggi emergendo, almeno nelle intenzioni. In fondo, la tradizione contemplativa della Chiesa, che una volta e ancor oggi è vissuta nella separazione dal mondo, De Foucauld l’ha attualizzata in una vita nel mondo e nella disponibilità alle necessità del prossimo.

    Da un lato ho visto suore di Clausura che vivono la contemplazione aprendosi verso l’esterno (Carmelitane Scalze a Kuching e a Kota Kinabalu nel Borneo malese, Clarisse Cappuccine ad Asmara in Eritrea, Servite di clausura a Nampula in Mozambico, se ricordo bene il posto); dall’altro, vedo che anche negli istituti missionari più attaccati alla tradizione, c’è l’apertura alla vita contemplativa e missionaria: ad esempio, il Pime ha accettato la richiesta del vescovo di Laghouat-Ghardaia (Algeria) (la diocesi più vasta del mondo), di assumere una “parrocchia” in pieno deserto del Sahara, dove non ci sono cattolici e nemmeno se ne possono sperare, ma è una presenza cristiana che bisogna inventare in una vastissima regione senza nulla di cristiano.

    Ripensando oggi ai molti incontri con esperienze missionarie, concludo dicendo che la “missione” si esprime in tanti e così svariati modi, che non è giusto sostenere “la” via che ci è cara come l’unica o la migliore. Quanti vivono con sincerità ed entusiasmo la loro vocazione cristiana, il loro carisma (o del loro movimento, del loro istituto) e dicono: questa è la “vera” missione di Cristo! Per carità, nessuno può pensare di ingabbiare Cristo e lo Spirito Santo in uno schema, in un metodo, in un’esperienza. L’unità della Chiesa e fra i cristiani nasce dal capire e dal vivere in profondità questo concetto.

Padre Gheddo su Il Timone (2006)

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