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Il 2010 è l’Anno dell’Africa. Sono passati cinquant’anni dall’anno simbolico dell’indipendenza africana, il 1960, quando17 paesi divennero indipendenti e altri seguirono pochi anni dopo. Però è una ricorrenza poco ricordata dalla stampa italiana e anche internazionale, non celebrata in convegni di studio su questo mezzo secolo di indipendenza. L’opinione pubblica dei paesi sviluppati si ricorda del continente africano solo in occasione di spaventose carestie, colpi di stato, dittature, di guerre e guerriglie e degli aiuti umanitari che vengono organizzati da governi e associazioni private.
Oggi si parla e si scrive molto della Cina e anche dell’India, che godono di un invidiabile sviluppo economico. Si dimentica l’Africa e per me è una pena, constatare che l’Europa e l’Italia si disaffezionano dell’Africa. La vedono solo o quasi in una prospettiva negativa. Ma questa sera parlo dell’Africa, perché è giusto interessarci di questo continente perché, lo dico sinceramente, avendolo visitato molte volte lo porto nel cuore. Nel continente africano, più del 50% della popolazione è formata da giovani sotto i vent’anni, in Italia i nostri giovani sotto i vent’anni sono il 17% di noi italiani! L’Africa è il continente dei giovani mentre la nostra Italia è il paese degli anziani.
L’Africa quindi è il continente del futuro, della speranza, nonostante le gravi difficoltà che incontra nello sviluppo economico e sociale moderno.
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Sviluppo questa catechesi ad un esame degli ultimi cinquant’anni dell’Africa nera, dividendola in tre punti:
- Lo stato attuale dei paesi africani in via di sviluppo e di sottosviluppo
- Le cause radicali del sottosviluppo e i timidi inizi di un’Africa nuova che realizzi le aspirazioni dei suoi cittadini.
- Il ruolo della Chiesa e del cristianesimo nella rinascita dell’Africa.
Parte prima – La situazione attuale dell’Africa nera
La situazione dell’Africa nera è lacrimevole, anche se non mancano gli spetti positivi (vedi più avanti) e dovrebbe seriamente preoccupare anche i governi e i popoli europei, che hanno pesanti responsabilità storiche e attuali nei confronti dei fratelli africani.
In tutte le statistiche degli organismi dell’Onu i paesi africani sono agli ultimi posti. L’Africa nera detiene troppi primati negativi:
- Prodotto nazionale lordo. Molti paesi hanno una ricchezza nazionale pro capite inferiore ai 500 dollari annuali. Alcuni paesi sono sui 100-150 dollari l’anno!
- Debito estero. Nel 1970 era di 70 miliardi di dollari. Nel 2000 erano 900, oggi circa 1.100.
- L’Africa nera non produce abbastanza cibo di base per nutrire tutti i suoi abitanti (riso, mais, grano, miglio, orzo). Com’è possibile garantire a tutti il minimo vitale, quando parte del popolo vive in un’economia di sussistenza?
- L’analfabetismo colpisce circa il 45% degli africani e due terzi degli analfabeti africani sono donne. Senza considerare gli “analfabeti di ritorno”, cioè quelli che hanno fatto le elementari, ma poi non hanno quasi mai letto giornali o libri e sanno leggere e scrivere con difficoltà.
- Il 64% di tutti i sieropositivi del mondo vivono nell’area sub-sahariana, due milioni di questi sono bambini e giovani con meno di 15 anni. Oltre 2 milioni sono i bambini orfani a causa del virus. Tre donne sieropositive su 4 vivono nell’Africa sub-sahariana.
- L’indice di “sviluppo umano” dei paesi di tutto il mondo vede i paesi africani agli ultimi posti. Degli ultimi 33 paesi (dal n.135 al n. finale 173), 26 sono africani, con uno latino-americano e sette asiatici, latino-americani e oceanici.
- Sono attualmente in corso nell’Africa nera una quindicina di guerre o guerriglie. In genere, nei paesi dell’Africa nera il sistema democratico parlamentare non esiste o esiste solo formalmente (escluso il Sud Africa, del tutto diverso dagli altri). In Camerun ad esempio, considerato uno dei migliori paesi africani, il presidente-primo ministro è Paul Biya, eletto la prima volta nel 1980 e poi sempre rieletto fino ad oggi e nelle prossime elezioni presidenziali del 2011 molti prevedono che sarà ancora confermato al potere.
- L’organismo dell’Onu Undp (United Nations Development Program), che monitora lo sviluppo dei singoli paesi, nel mondo attuale ci sono
– 57 “paesi sviluppati”
– 85 Paesi in via di sviluppo
– 35 “in via di sottosviluppo”, invece di andare avanti, vanno indietro.
Degli ultimi 35 ben 27 sono in Africa nera. Infatti, visitando vari paesi africani, si sente spesso ripetere da chi ci vive da molto tempo, che le condizioni di vita per i locali sono complessivamente peggiorate. L’ho ancora sentito ripetere nel 2006 in Guinea Bissau, non perché rimpiangono la colonizzazione portoghese, ma semplicemente per dire che allora c’era un progresso, si andava avanti, oggi basta una guerra civile come quella del 1998 per distruggere quel che di buono i portoghesi avevano lasciato (fra l’altro la stabilità politica e la sicurezza) e il paese è tornato indietro di 30-40 anni.
In un rapporto della Banca Mondiale dell’agosto 1985 si legge: “L’Africa è oggi in una situazione molto peggiore di prima dell’indipendenza. Se non interverranno fattori assolutamente nuovi, il continente andrà ancor peggio nel prevedibile futuro”. L’ex segretario dell’OUA (Organizzazione per l’Unità Africana), Edem Kodjo, commentando il rapporto della Banca Mondiale dichiarava: “L’Africa è un continente in via di sottosviluppo: siamo in una situazione che peggiora di anno di anno, non riusciamo nemmeno più a concepire soluzioni che diano speranza”. Nello stesso anno 1985 (l’anno della grande siccità e carestia nelle regioni del Sahel) il direttore della Fao, Edouard Saouma, lanciava un grido di allarme e dichiarava: “Il nostro problema è l’Africa e purtroppo non sono ottimista per i prossimi dieci anni. Non vedo come la situazione alimentare possa migliorare”.
E’ vero che dal 1985 sono passati 25 anni, ma secondo la FAO il problema della denutrizione e della fame in Africa non è migliorato. Nel Rapporto annuale del 30 ottobre 2006 si legge che negli ultimi dieci anni i maggiori progressi in questo campo sono stati realizzati in America latina, che è passata da un tasso di sottoalimentazione del 13% al 10%. Anche in Cina c’è stato un calo dal 16% al 12%, mentre la situazione resta preoccupante per la fascia dell’Africa centrale dove c’è stato un aumento preoccupante della percentuale di sottoalimentazione, schizzata del 20%, dal 36% e al 56%. In particolare, risultano in netto peggioramento le percentuali della Repubblica democratica del Congo (dal 31% al 72%), dell’Eritrea (dal 68% al 73%) e del Burundi, (dal 48% al 67%).
Gli aspetti positivi che danno speranza
Ma la situazione dell’Africa nera, come di tutte le parti del mondo, è più complessa. Ci sono anche non pochi aspetti positivi che vanno sommariamente elencati. Rispetto al 1960, l’anno simbolo dell’indipendenza africana, ecco com’è migliorata la situazione dell’Africa nera nel suo complesso:
- L’analfabetismo nel 1960 riguardava circa il 90% degli africani, oggi solo il 45%. In cinquant’anni è quasi dimezzato.
- Soprattutto, sul piano universitario, nel 1960 nell’Africa nera le Università erano cinque o sei, in Congo, Uganda, Kenya, Senegal, Etiopia e Somalia. Oggi si sono moltiplicate e se ne contano poco meno di cento. Tutti i paesi indipendenti hanno la loro Università e in certi paesi ci sono anche le private.
- La speranza di vita alla nascita era di 41 anni, oggi è di circa 55 anni.
- La mortalità infantile è diminuita in modo considerevole. Era del 173 per mille all’inizio degli anni Cinquanta, è caduta all’85 per mille all’inizio dei Novanta.
- Il più importante miglioramento è stato nella mentalità dei popoli, che hanno preso coscienza della propria dignità e dei propri diritti. Il mondo si evolve e l’Africa nera è oggi informata soprattutto da radio e televisioni. Sono nati partiti politici, sindacati, cooperative, associazioni studentesche, giornali popolari. Il fatto positivo che si nota visitando vari paesi africani è il moltiplicarsi di associazioni di base, di gruppi che si incontrano, di cooperative che realizzano vari tentativi di sviluppo solidale. Sia nelle città che nei villaggi.
- Dove c’è coscienza di popolo c’è la democrazia, mentre nel 1960 l’Africa nera era praticamente governata da dittature o, nei casi migliori, da governi paternalisti attorno ai capi carismatici che avevano portato all’indipendenza (Costa d’Avorio, Kenya, Tanzania, Senegal, Ghana, ecc.). Oggi le cinque o sei vere dittature totalitarie sopravvivono in pochi paesi, che hanno avuto la sfortuna di essere governati da regimi comunisti (Eritrea, Etiopia, Zimbabwe, ecc.).
“L’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere. È un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo”, ha scritto il grande reporter Ryszard Kapuscinski. E’ vero, nel senso che anche limitando il discorso al tema economico.
Negli ultimi tempi i dati di organismi internazionali affermano che l’Africa sta crescendo anche economicamente. Ad esempio nel rapporto della Banca Mondiale del 2007 si legge: “Molte economie africane sembrano aver voltato pagina e intrapreso il cammino di una crescita economica più veloce e costante” (“Africa Development Indicators 2007”). E si riferisce al tasso medio di sviluppo annuale del 5,4%. Paesi emergenti e virtuosi in questo cammino verso lo sviluppo economico e umano sono il Ghana (l’unico africano visitato dal Presidente americano Obama nel luglio 2009), il Lesotho, la Namibia e forse alcuni altri.
Ma il problema fondamentale dell’Africa nera oggi è questo. Buone speranze di sviluppo ci sono e spiace che in Occidente si conoscano solo gli aspetti negativi dell’Africa e non quelli positivi. Ma i segnali di ripresa positivi da alcuni paesi non si sa mai se sono costanti e preludio di un futuro migliore oppure transitori. Il caso classico di questo fenomeno mi pare sia la Costa d’Avorio, che ho potuto seguire abbastanza bene anche perché ci sono stato e vi lavorano i missionari del Pime.
All’inizio degli anni Ottanta, la Costa d’Avorio era considerato in campo internazionale il paese più sviluppato e virtuoso dell’Africa nera. La forte crescita economica, la stabilità politica e il multipartitismo invitavano alla speranza. In quegli anni l’UNESCO assegnò alla Costa d’Avorio il suo Premio per la più efficace campagna nazionale di lotta contro l’analfabetismo. Ci sono stato nel 1985, visitando bene il paese e scrivendo un lungo servizio speciale nel quale scrivevo1:
“Molti sono pessimisti sull’Africa nera, ma in realtà non tutto è negativo. C’è almeno un paese autenticamente “in via di sviluppo” e non “in via di sottosviluppo”, del quale si parla poco in Italia, forse perché fanno più notizia i fatti negativi che quelli positivi: la Costa d’Avorio. Dieci milioni di abitanti di cui circa tre di immigrati da paesi vicini in cerca di lavoro. Tasso di crescita annuale costantemente sul 5-6%; reddito annuale pro-capite superiore ai 1.400 dollari (nel resto dell’Africa nera è inferiore ai 400-500). Non ci sono prigionieri né esiliati politici, né condanne a morte; è stata raggiunta l’autosufficienza alimentare. Infine, un clima di pace, di mancanza di guerriglie e rivolte, di tentativi di colpi di stato. Tutto questo permette al governo di avere, in proporzione agli abitanti, il più piccolo contingente di forze armate del continente e di spendere la somma minore per le armi. Anche la Costa d’Avorio ha i suoi problemi di crescita, le sue crisi, le sue decisioni sbagliate, i suoi fallimenti. Ma è un paese che, tutto sommato, cammina in avanti e non va indietro. Esso appare oggi, 25 anni dopo l’indipendenza, come il paese dell’Africa nera che ha ottenuto i risultati positivi più eclatanti, sia in campo sociale che economico e politico. Per quale motivo, quando la Costa d’Avorio era in partenza uno dei paesi meno sviluppati e più poveri dell’Africa occidentale? Il suo Presidente, uomo saggio e moderato (l’Africa ha abbondanza si “rivoluzionari”, ma scarseggia di uomini di governo realisti, equilibrati), il quale ha una sola dottrina politica: “L’Africa ha bisogno dell’Europa e l’Europa ha bisogno dell’Africa. Fin dall’inizio dell’indipendenza ha apertole porte alla collaborazione con i paesi dell’Europa occidentale ed educato la sua gente all’accoglienza e alla fraternità”.
Questo quanto ho scritto nel 1985. La Costa d’Avorio era citata come il miglior successo della decolonizzazione. Ma il 9 dicembre 1993 è morto il Presidente (a vita) e Padre dell’indipendenza (1960) Houphouet-Boigny e la Costa d’Avorio ha iniziato anche lei il suo cammino verso l’instabilità, la guerra civile e la divisione del paese in due parti. Naturalmente con l’intervento di forze esterne, l’OUA (Organizzazione dell’Unità Africana), la Francia, l’Onu, che hanno riportato la pace ma non ancora unificato il paese. Che, con il ritiro degli investimenti stranieri e la fuga di coloni e tecnici francesi, ha registrato il crollo della sua economia: il Pil pro capite di 1.400 dollari nel 1985, oggi è ridotto a 1.054.
Il recente volume di un giovane africano2 racconta la storia della Costa d’Avorio fino ad oggi, dando un giudizio severo delle élites intellettuali e politiche del suo paese: “In Costa d’Avorio – scrive – prevale la democrazia della pancia. I nostri dirigenti passati e presenti pensano solo al loro stomaco… I nostri politici si servono, invece di servire la nazione. Salgono al potere per riempirsi la pancia e, quando sono sazi, riempiono le tasche di banconote e quando le tasche diventano troppo piccole, aprono dei conti bancari nei paradisi fiscali, comprano palazzi a Parigi e organizzano viaggi turistici in Brasile e Thailandia”.
In precedenza aveva accusato la Francia del fallimento della Costa d’Avorio. Certamente la Francia aveva ed ha le sue colpe e i suoi egoismi anche gravi, ma a me pare che tutto questo non spiega la difficile situazione africana. La risposta adeguata alla domanda che molti si fanno: “Perchè l’Africa nera non si sviluppa?” si ottiene solo esaminando i molti fattori che hanno concorso, storicamente, a questa triste attualità. Tenendo conto anche del problema che, mentre l’Europa e il mondo globalizzato corrono, l’Africa nera cammina a passo lento. Il distacco fra ricchi e poveri continua ad aumentare.
Seconda parte – Le cause del sottosviluppo africano
Quali sono le cause del sottosviluppo africano? Per capire i grandi fenomeni storici bisogna esaminarli nella loro radice storica. Gli antichi romani avevano una conoscenza limitatissima del mondo. Conoscevano il Nord Africa, la sponda meridionale del Mar Mediterraeo che avevano occupato e colonizzato (ho visto le rovine romane in Libia, Giordania, Libano, Siria, Turchia), ma non conoscevano l’Africa a sud del Sahara. Scrivevano: “Hic sunt leones”, qui ci sono i leoni.
La storia spiega il sottosviluppo africano
A causa dell’isolamento geografico, l’Africa nera è giunta all’impatto col colonialismo europeo alla fine dell’Ottocento, quando viveva ancora in una economia di sussistenza e culturalmente in un tempo definito “preistorico”, non perché non avessero una storia alle spalle, ma perchè quella storia non era conservata in documenti scritti. La preistoria è così definita: “Il periodo della vita del genere umano che precede il tempo in cui si hanno documenti scritti”. Dire che fino alla colonizzazione europea alla fine dell’Ottocento l’Africa nera viveva nel tempo preistorico non è offensivo dei fratelli neri. E’ solo prendere atto del fatto che, non avendo lingua scritta, non avevano storia, cioè non c’era stato nella società un cammino graduale di evoluzione e avvicinamento allo sviluppo del mondo moderno.
Nella biografia di San Daniele Comboni3, che con i suoi missionari è entrato in Sudan nella seconda metà dell’Ottocento, si legge che gli indigeni vivevano in situazioni disumane, in piccoli villaggi sempre in lotta fra di loro, in capanne di fango e paglia, nel tempo freddo dormivano nudi, sepolti nella cenere tiepida di grandi fuochi. “Tutti coloro che si recavano a Khartum – scrive il biografo – erano consapevoli che era più probabile morirvi che uscirne vivi… Khartum non aveva scuole, eccetto quella che vi avviarono i missionari… Città commerciale, si vendeva di tutto, compresi le zanne d’avorio e gli schiavi…Per strada non era impossibile imbattersi in un coccodrillo oppure nel cadavere di uno schiavo bastonato a morte dal padrone e lasciato lungo la via perché fosse preda degli animali….In confronto ai miserabili villaggi, Khartum comunque rappresentava l’unico esempio di progresso realizzato in Africa”.
Il ritardo storico dei popoli africani è condiviso anche da altri popoli rimasti isolati, come quelli della Papua Nuova Guinea e dell’Australia, oppure degli indios amazzonici. L’Africa nera è venuta in contatto col mondo esterno prima con l’islam dal 1300 in avanti (una religione che non favoriva certo lo sviluppo); e poi, dal 1500 in avanti, con lo schiavismo di varie potenze europee e dalla seconda metà del 1800 con gli esploratori e i colonizzatori europei.
Nel 1885 le potenze europee si riuniscono a Berlino per dividere il continente africano in “zone di influenza”. La colonizzazione è iniziata nel 1900 ed è durata solo 60-70 anni, con in mezzo due guerre mondiali. Un tempo non sufficiente per preparare un popolo e una élite locale capaci di far funzionare uno stato moderno.
Il caso classico è quello del Congo ex-belga. Nel 1956 il governo democristiano di Bruxelles approvò il piano del ministro degli esteri Van Bilsen, che concedeva l’indipendenza in trent’anni di preparazione dei funzionari e dei politici e delle autonomie locali, per governare un paese esteso sette volte la nostra Italia. Era un piano ragionevole, che forse avrebbe funzionato dando l’indipendenza nel 1986.
Ma nel 1958 a Bruxelles sono andati al potere il partito socialista e le sinistre. Sotto la spinta degli studenti congolesi in Belgio e dell’opinione pubblica belga, concedono l’indipendenza nel 1960: “Hanno diritto di governarsi da soli, diamo subito i poteri ai congolesi”. E questo senza tener conto che nell’immenso Congo, allora con 15 milioni di abitanti, c’erano solo 14 laureati! Di più, il primo ministro Patrice Lumumba, laureato nell’Università per studenti esteri a Mosca, appena salito al potere il 1° luglio 1960 decreta l’espulsione di tutti gli stranieri, specialmente di tutti i belgi, che facevano funzionare le strutture moderne dello stato.
In 15 giorni il Congo precipita nel caos, perchè improvvisamente si fermano linee aeree e ferrovie, banche e scuole, commerci interni ed internazionali, ospedali e telefoni, servizi postali e industrie. Lo stesso esercito, dove i sergenti diventavano generali e i soldati semplici colonnelli, non obbediva più alle autorità governative, ma si divideva secondo le appartenenze alle varie etnie e regioni del Congo (esteso sette volte l’Italia!). In quel caos perdettero la vita il segretario dell’Onu Hammarskjold e 13 aviatori italiani massacrati a Kindu il 12 novembre 1961. L’Onu mandò subito delle forze internazionali, ma il caos continuò fin quando il “generale” Mobutu Sese Seko riuscì ad imporsi con la violenza, dando origine alla sua dittatura personale che durò trent’anni, dal 1967 al 1996. Ancor oggi il Congo ex-belga non ha raggiunto la pace e la stabilità politica, senza le quali ogni sviluppo è impossibile.
Il Congo ex-belga è solo un esempio di come l’indipendenza venne concessa ad africani non preparati a gestire dei governi e degli stati con strutture moderne. Bisogna distinguere però due modi nei quali l’Africa è giunta all’indipendenza:
- I paesi le cui élites andate al potere, avendo scelto l’ideologia rivoluzionaria marxista-leninista e la guerriglia di liberazione dal colonialismo, finirono presto nella dittatura personale o di partito: Guinea Konakry, Somalia, Etiopia, Eritrea, Zimbabwe, Congo Brazzaville, Angola, Mozambico, Guinea Bissau, ecc. L’esempio più recente è l’ex-Rhodesia, dove vivevano 400.000 coloni inglesi. Ci sono stato nel 1979, la Rhodesia era considerata ”il granaio dell’Africa”. Nel marzo 1980 il paese è indipendente e sale al potere Robert Mugabe, membro del Partito comunista che aveva guidato la “guerra di liberazione” contro i bianchi. La sua politica ispirata al modello sovietico porta lo Zimbabwe alla rovina, oggi è il paese più povero dell’Africa, la maggioranza vive in condizioni disumane per la fame e la dittatura.
- Altri paesi sono giunti pacificamente all’indipendenza in accordo con la potenza colonizzatrice e hanno continuato a mantenere buoni rapporti con i colonizzatori, riuscendo ad evitare caos e dittature, progredendo anche economicamente e socialmente; alcuni di questi sono poi giunti alla guerra civile o alla dittatura, ma parecchio tempo dopo: Senegal, Camerun, Tanzania, Nigeria, Costa d’Avorio, ecc.
La scelta delle città trascurando le campagne
La seconda causa del sottosviluppo africano sono le scelte fatte dai governi indipendenti, che hanno sviluppato le città trascurando l’Africa rurale dei villaggi. Con molte conseguenze negative:
- l’analfabetismo che colpisce ancora il 45% delle popolazioni africane;
- la graduale diminuzione della produzione di cibo rispetto all’aumento della popolazione, che porta l’Africa nera a non essere più autosufficiente nella produzione di riso, grano, mais, miglio. Nel 1960 l’Africa nera aveva 250 milioni di abitanti, oggi 750, ma le tecniche di produzione a livello popolare sono rimaste più o meno quelle del passato;
- la catastrofica immigrazione di massa verso le città, oggi circondate da decine di baraccopoli e da masse di giovani che non trovano lavoro nei settori moderni della società e sono disposti a fare qualsiasi cosa per sopravvivere;
- la generale corruzione comunemente praticata da chiunque ha un potere verso il popolo che dovrebbe servire;
- tutto questo ha fatto sì che in genere gli aiuti internazionali all’Africa non servono allo sviluppo del popolo, ma ad arricchire le classi dirigenti, come denunziava un giornale francese progressista4: “L’assistenza dei paesi ricchi all’Africa povera, degli stati o degli organismi internazionali, segue un itinerario complesso, che si può così definire: il trasferimento del denaro dei poveri dei paesi ricchi verso i ricchi dei paesi poveri”.
Le scelte errate della politica africana erano già state denunziate a metà degli anni sessanta da René Dumont, agronomo francese a servizio dei giovani paesi indipendenti, che nel 1965 aveva denunziato5 l’abbandono delle campagne da parte dei governi e prevedeva che “continuando in questa politica suicida che trascura le campagne, fra qualche tempo l’Africa nera incomincerà a soffrire la fame e dovrà importare dall’estero parte del suo cibo di base”. Vent’anni dopo, Dumont racconta le sue conversazioni con gli studenti dell’Università di Dar Es Salaam (capitale della Tanzania)6: “Imbevuti di marxismo mal digerito, attribuiscono tutti i fallimenti africani all’imperialismo, al capitalismo, alle forze straniere, ma si compiacciono di vivere in un ambiente più privilegiato di quello dei numerosi studenti dei paesi ricchi… Rifiutano di riconoscere la gravità delle sofferenze dei contadini, il cui lavoro garantiscono i loro privilegi. Si preparano a diventare dei privilegiati”.
Dumont aggiunge che “le élites africane non rappresentano i loro popoli… esiste una lunga tradizione di sfruttamento dell’africano sull’africano. Il commercio degli schiavi esisteva prima che gli europei venissero ad acquistarne sulle coste: senza venditori, non vi sarebbero stati compratori” (pag. 236 del libro citato).
Il problema fondamentale dell’Africa nera è politico, sono le politiche interne ai singoli paesi, che spesso sembrano fatte apposta non per far avanzare, ma per far arretrare i rispettivi popoli. Il dramma africano è l’impreparazione degli uomini politici, delle classi dirigenti e dei rispettivi popoli al senso del bene pubblico, dell’autorità come servizio al popolo, della democrazia parlamentare. Nell’Africa nera c’è una emergenza educativa, di cui non si parla mai.
Il presidente americano Barack Obama, visitando il Ghana nel luglio 2009, al Parlamento della capitale Accra ha detto che in Africa le promesse di sviluppo fatte al momento dell’indipendenza “devono ancora essere mantenute”. Ha citato la Corea del Sud, che nel 1960, dopo la lunga e sanguinosa guerra civile con il Nord era distrutta,la gente viveva in miseria. E ha aggiunto: “Il Kenya nel 1960 aveva un reddito pro capite maggiore di quello della Corea del Sud, oggi è rimasto drammaticamente indietro”. Infatti la Corea del Sud ha un reddito medio pro capite di 20.000 dollari l’anno, il Kenya 847 dollari l’anno! Ma la Corea del sud ha solo il 2% di analfabeti, il Kenya il 27%.
“Africa, senza strade non c’è crescita”
Per descrivere compiutamente i vari aspetti dell’insufficiente guida politica dell’Africa nera non basterebbe un libro7. Ma di questo tema ho già parlato a
lungo a Radio Maria nel 20098. Il fatto fondamentale del sottoviluppo africano è che l’Africa rurale è quasi ovunque abbandonata a se stessa, anche per mancanza di strade. Ecco cosa scrive Kanayo F. Nwanze,il Presidente africano del “Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo”9:
“Spesso in Africa le poche strade lastricate esistenti sono disseminate di buche e finiscono in sterrati quasi impossibili da percorrere senza un veicolo adatto. Più vicino alle comunità agricole le strade spariscono del tutto. Questo lascia completamente tagliate fuori e isolate zone rurali che hanno il potenziale per alimentare oltre un miliardo di persone affamate. Nell’Africa sub-sahariana quasi il 70% di tutte le persone che vivono in zone rurali si trovano a oltre mezz’ora a piedi dalla più vicina strada praticabile.
Kofi Annan ha riconosciuto questo isolamento: «In Africa l’imprenditrice agricola con un’azienda medio piccola nuota da sola. Non ha assicurazione contro il maltempo, non riceve sovvenzioni, e non ha accesso al credito. Dico “lei”, perché la maggioranza dei piccoli agricoltori in Africa sono donne». In effetti la metà dei piccoli agricoltori del mondo sono donne e noi dobbiamo avere presente che tocca loro camminare lunghi tratti per portare sulla testa i loro prodotti al mercato.
“Questi piccoli agricoltori e le loro comunità rurali possono risolvere l’ insicurezza alimentare e la povertà – ma solo se dispongono del necessario per svolgere il loro lavoro. La Rivoluzione Verde del secolo scorso ha avuto un impatto enorme sulla produzione agricola e su quella alimentare, trasformando la vita di milioni di persone. Molto di questo successo è dovuto a infrastrutture già esistenti. All’inizio della sua rivoluzione verde nel 1970, in India la densità di strade era di 388 km di strade su 1000 chilometri quadrati. Oggi, 40 anni dopo, l’Etiopia ha 39 chilometri di strade per 1000 chilometri quadrati e il Senegal 71.
“Nuove strade portano altri servizi essenziali alle comunità rurali. In Etiopia solo il 2% della popolazione rurale ha accesso all’elettricità e la comunicazione telefonica è più o meno assente. I ricercatori ritengono che questo avvenga perché solo il 17% delle comunità rurali del Paese vivono a meno di due chilometri da una strada asfaltata. Molti piccoli agricoltori in Africa hanno un accesso insufficiente alle risorse produttive, come la terra, l’acqua e le nuove tecnologie. Di conseguenza le rese sono troppo basse per permettere a milioni di famiglie rurali di generare eccedenze di mercato. Anche se i piccoli agricoltori sono in grado di produrre un surplus, la mancanza di accesso ai mercati impedisce loro di vendere facilmente i loro prodotti. La situazione in Africa è il vergognoso abbandono del settore agricolo negli ultimi due decenni.
“Per dare ai piccoli agricoltori la possibilità di diventare imprese redditizie è essenziale che siano collegati ai mercati. Infatti, il sostegno alle infrastrutture rurali – strade di collegamento, elettrificazione, strutture per immagazzinare il raccolto, sostegno alle associazioni e alle cooperative agricole e accesso alla terra e agli impianti di irrigazione – è un elemento cruciale nella lotta per l’autosufficienza alimentare e per creare sviluppo”.
In Guinea Bissau mi dicevano che quando nei villaggi i manghi maturano, si potrebbero vendere bene in città, ma vengono lasciati marcire sulle piante, non ci sono strade. Per percorrere in auto la strada di 35 km fra Sào Domingo e Suzana ci vuole circa un’ora e mezzo, per le buche che si aprono ovunque. Nel Nord Camerun, così fratel Ottorino Zanatta mi descrive la “Strada nazionale numero 1” fra Garoua e Maroua (le due principali città del Nord) che lui percorre spesso in moto: “La strada nazionale è lunga 200 km. Ma per percorrerla in pullman ci si mette una giornata intera, tante sono le buche per quella strada! In moto me la cavo in 5-6 ore. Sono anni che debbono rifarla e non si muove nulla. Quanti camion, auto e pullman sono fermi per quella strada perché si rompono le balestre o le gomme!”.
Cosa possiamo fare noi Europei?
1) L’Africa è la maggior sfida dell’Europa, per le nostre responsabilità storiche e attuali. Il primo dovere dei popoli e dei paesi europei è di eliminare dal cammino dell’Africa nera ogni ostacolo che viene dal nostro egoismo: prezzi giusti per le materie prime, azzeramento del debito estero dei più poveri paesi africani, commercio e vendita delle armi, deforestazione selvaggia e tante altre forme di rapina e sfruttamento economico, corruzione dei governanti africani per strumentalizzarli, ecc. L’aiuto andrebbe usato per il bene dei popoli, non delle sole élites politiche.
2) Oggi l’Europa abbandona l’Africa ai cinesi che non educano e non portano sviluppo. Vengono con loro navi, loro lavoratori e materiali da costruzioni, realizzano progetti ma senza integrarsi con i locali, senza insegnare nulla; portano via materie prime e comperano terreni. E’ una nuova colonizzazione e occupazione del continente, contro la quale il movimento “No global” non protesta.
3) Gli aiuti da stato a stato funzionano poco. Producono sviluppo dove c’è un popolo preparato ad usarli, altrimenti producono corruzione e una classe dirigente che pensa anzitutto a se stessa. Costruiscono cattedrali nel deserto e favoriscono la corruzione dei politici. Il “Piano Marshall”, che con 17 miliardi di Dollari ha permesso all’Europa di ricostruirsi dopo la II guerra mondiale, è impossibile in Africa. Il popolo non è educato a produrre nell’economia di libero mercato come quella della globalizzazione, perché vive ancora in gran parte dell’economia di sussistenza e nella mentalità magica.
4) Il maggior aiuto che possiamo dare è l’educazione del popolo e la sanità di base, soprattutto nelle regioni rurali, in accordo con governi e autorità locali. I volontari laici possono fare molto, se vanno per restare alcuni anni e con la mentalità di condividere con i fratelli africani: insegnare e imparare, come fanno i missionari. L’Italia dovrebbe proporre ai giovani un “servizio civile” di alcuni anni in Africa, sostenendo gli organismi di volontariato internazionale e proponendo corsi di formazione per chi desidera dare qualche anno all’Africa.
5) Il cristianesimo in Africa è fattore d sviluppo perché educa le menti, i cuori. Il Vangelo cambia il cuore dell’uomo: rivoluziona l’uomo dall’interno, in modo non violento e lasciando l’uomo libero. Tra il Vangelo e l’umanesimo esiste una mirabile consonanza, cioè il Vangelo è il “manuale” che insegna all’uomo ad essere più uomo ed a trovare il senso autentico della vita, che lo porta ad essere fratello degli altri e alla pace del cuore. La storia di duemila anni dimostra ampiamente questa verità.
6) I missionari rimangono tutta la vita tra un popolo, imparano la o le lingue locali, si adattano ai loro modi di vita, studiano le loro culture e religioni, danno tutto per amore del prossimo, diventano amici, fratelli e possono educare con iniziative di promozione umana e col Vangelo, che crea, con la grazia di Dio, uno spirito di collaborazione, impegno nel lavoro e per la famiglia e altre virtù personali e civiche di cui tutti abbiamo bisogno. “Oggi, più che in passato, i missionari sono riconosciuti anche come promotori di sviluppo da governi ed esperti internazionali, i quali restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi” (“Redemptoris Missio”, 58).
Parte terza – Il contributo dei missionari e delle Chiese
allo sviluppo dell’Africa
Il “Pew Research Center”, un’istituzione di ricerche sociologiche con sede a Washington, il 15 aprile 2010 ha pubblicato questa statistica: nell’Africa sotto il deserto del Sahara, nel 1900 i musulmani erano 11 milioni e i cristiani 7; oggi i musulmani sono 234 milioni, i cristiani 470 (i cattolici sono circa 172 milioni10).
“Nel 1900”, rileva lo studio che fonda le sue affermazioni su una seria indagine, “musulmani e cristiani erano minoranze relativamente piccole in una regione dove la stragrande maggioranza delle persone praticava la religione tradizionale. All’inizio del 1900 cristiani e musulmani arrivavano a malapena a un quarto della popolazione complessiva, oggi sono la quasi totalità”. Guardando a tutto il continente africano (cioè compreso il Nord Africa), le due grandi religioni si attestano entrambe fra i 400 e i 500 milioni di credenti. I cristiani si dividono più o meno a metà fra cattolici e protestanti delle tante e molto diversificate Chiese nate nel solco della Riforma luterana cinquecento anni fa.
Lo sviluppo dalla cultura e dalla religione
Non c’è dubbio che, nell’Africa nera, il cristianesimo è oggi la religione e l’ispirazione culturale-morale che più influisce sul cammino di quei popoli verso il mondo moderno. Dopo il fallimento della tante “vie rivoluzionarie allo sviluppo” e di tanti progetti tecnocratici, si può sperare che gli accademici e il mondo intellettuale-giornalistico si accorgano del peso culturale ed esemplare che le Chiese cristiane hanno acquistato nella vita dei popoli neri e incomincino a studiare ed a discutere del tema che dovrebbe essere al centro delle riflessioni sull’Africa nera: i soldi da soli non producono sviluppo, occorre una conversione culturale e religiosa.
Quando si scrive e si discute sul futuro dell’Africa e di come possiamo, noi europei, aiutare i nostri fratelli africani, il discorso è sempre centrato sui soldi, sui finanziamenti per lo sviluppo, sui rapporti economici fra ricchi e poveri, sul debito estero dell’Africa e su altri temi di carattere materiale. Nessuno o quasi si preoccupa di studiare e interrogarsi su come la cultura e la religione tradizionali dell’Africa nera possano accettare il progresso moderno, integrandolo nella loro vita senza perdere la propria identità. E’ un punto cruciale nell’Africa d’oggi, che è chiamata a sviluppare gli elementi già presenti nella tradizione e accettare i nuovi valori, le nuove idee, i nuovi ritmi e sistemi di vita, anche a prezzo di una certa rottura dell’equilibrio socio-culturale esistente. Il processo dello sviluppo di un popolo è dialettico fra rottura e continuità culturale. Questo si manifesta oggi in modo violento (la persecuzione anti-cristiana) nell’India ancora divisa in caste, 60 anni dopo che la Costituzione indiana le ha abolite!
Il discorso culturale era sviluppato e approfondito nei primi tempi della preparazione e dei primi passi dell’Africa indipendente. Si parlava di una democrazia simile a quella che esiste nei villaggi africani, di una società che riproducesse i valori della solidarietà e della socialità africana (la “Jamaa” di Nyerere, la “Négritude” di Senghor). Insomma si progettava uno sviluppo dei paesi africani che non fosse ad imitazione del capitalismo e nemmeno del “socialismo reale” dei paesi comunisti, ma una “via africana allo sviluppo”.
Il tema culturale del “ritorno all’autenticità africana” ha rappresentato, dagli anni cinquanta agli ottanta, un fiore all’occhiello di parecchi capi di stato, che avevano impostato la loro azione per realizzare questo ideale. Ho segnalato Nyerere e Senghor, ma anche Mobutu dello Zaire, dittatore nefasto per il suo popolo, che all’inizio degli anni settanta aveva lanciato il suo “Movimento popolare rivoluzionario” per la riscoperta e valorizzazione dell’”autenticità africana”. Una specie di “Kultukampf” di bismarkiana memoria che si proponeva di abolire ogni influsso culturale e religioso straniero. Mobutu combatteva il colonialismo culturale e anche la Chiesa cattolica, che nel Congo ex-belga aveva una forte e ben radicata presenza. Il cardinal Malula, arcivescovo di Kinshasa, venne costretto all’esilio perché si opponeva ad un movimento che giungeva ad eccessi assurdi, come legalizzare i sacrifici di animali agli spiriti e agli antenati, abolire le feste e i nomi cristiani sostituendoli con cerimonie e riti del passato.
Per Mobutu questa ideologia era uno strumento di potere, per dare al suo popolo un senso di fierezza e di unità, superando le diversità locali e il complesso d’inferiorità rispetto ai bianchi colonizzatori. Quando sono andato la seconda volta in Zaire nel 1974, parlando con vescovi e sacerdoti locali, mi dicevano che dovevano stare ben attenti a pronunziarsi troppo apertamente contro questo movimento, perché la maggioranza del loro popolo sosteneva con entusiasmo l’iniziativa del governo, che aveva nominato un comitato centrale e comitati locali di studio (con la presenza di sacerdoti e teologi cattolici) per approfondire la cultura tradizionale e integrarla, fin dove era possibile, col mondo moderno e con la fede cristiana, allora praticata da circa il 40% dei congolesi (Mobutu stesso era battezzato nella Chiesa cattolica).
Oggi, cinquant’anni dopo l’indipendenza, di tutto questo fermento culturale non si parla più, non solo in Zaire (Congo), ma in molti altri paesi africani che si erano messi sulla via dell’ “autenticità africana” (Ciad, Togo, Nigeria, Ghana, Zambia, Tanzania, ecc.), spesso sull’esempio della celebrata (in Occidente) “Rivoluzione culturale” di Mao Tze Tung. Ma dopo la morte di Mao (1976) e il radicale capovolgimento delle sue teorie socialiste e sviluppiste, è iniziata idealmente anche in Cina (e nei paesi che ancora si definiscono “comunisti”) l’epoca della globalizzazione, nella quale è evidente a tutti che lo sviluppo economico e umano dei singoli paesi dipende dal partecipare al mercato globale, che riguarda non solo l’economia, ma anche cultura, politica, scienze, tecniche, agricoltura, ecc.
Ecco perchè nell’Africa nera si aprono grandi prospettive per il cristianesimo. Il continente che a breve scadenza offre maggiori possibilità di primo annunzio e di conversione a Cristo è senza dubbio l’Africa nera, che sta ancora cercando la sua via, costruendo faticosamente il suo futuro, sia in senso politico che sociale ed economico, ma anche culturale e religioso. I popoli africani sono profondamente religiosi, ma sperimentano concretamente che nel mondo moderno la loro religione tradizionale, l’animismo, non ha futuro: ha dei valori da salvare, ma come religione organizzata e istituzionalizzata non ha futuro. Gli africani si trovano a dover fare, in tempi brevi, una scelta precisa: cristianesimo o islam, due religioni del Libro molto diffuse, con un Fondatore, una tradizione, una spiritualità, una comunità. L’alternativa alla scelta di una delle due religioni è l’ateismo pratico che porta inevitabilmente al nichilismo è all’autodistruzione delle culture e dei popoli stessi. Come purtroppo sperimentiamo nella nostra Europa, che addirittura ignora o rifiuta le sue radici cristiane.
La Chiesa cattolica non vuole distruggere le tradizioni culturali e religiose africane, anzi fin dall’inizio i missionari sono stati i primi e quasi sempre gli unici che hanno lavorato per alfabetizzare le lingue, conservare le culture, l’arte, i proverbi africani. Oggi, specialmente dopo il Vaticano II, l’inculturazione della fede nelle tradizioni dei popoli, e il dialogo con le religioni non cristiane è diventata uno dei temi fondamentali della missione alle genti.
“Prima la scuola e poi la Chiesa”
Nell’Africa sub-sahariana, la Chiesa è stata fondata dai missionari, che fin dall’inizio hanno annunziato Cristo con le opere di carità, di sanità, di educazione. Nel tempo della colonizzazione africana, cioè fino al 1960, la scuola era quasi tutta in mano alle Chiese cristiane, per decisione degli stessi governi, che finanziavano l’educazione attraverso le missioni. Tant’è vero che i primi capi dell’Africa nera, che l’hanno guidata all’indipendenza venivano tutti o quasi dalle scuole missionarie.
L’evangelizzazione attraverso la scuola è sempre stata prassi costante nel mondo missionario. Uno slogan spesso usato dai missionari diceva: “Prima costruiamo la scuola e poi la chiesa”. E questo perché la scuola apre le menti e i cuori e poi la Chiesa, il Vangelo e il catechismo spiegano e diffondono i contenuti della fede. In tutti i paesi dell’Africa nera, la scuola era sconosciuta. Le prime scuole le hanno aperte i missionari cristiani.
Kwame Nkrumah, il padre della patria e primo presidente del Ghana, allievo dei missionari e poi insegnante nelle loro scuole, diceva in una conferenza agli studenti in Svizzera nel 1957: “La persona che mi ha presentato ha ricordato che io sono il responsabile del ridestarsi di questo grande continente. Credo che non sia vero. Se vogliamo considerare la situazione in modo più esatto, debbo dire che i responsabili della presa di coscienza di noi africani sono stati i missionari cristiani con le loro scuole”11.
Oggi in Africa le scuole sono del tutto insufficienti ad ospitare tutti i bambini e i ragazzi che vorrebbero studiare.Per molti il diritto all’istruzione è ancora un miraggio. I dati forniti dall’Unesco mostrano un quadro inquietante. L’Africa subsahariana è la zona dove l’emergenza scolastica assume i tratti peggiori. La scolarizzazione raggiunge circa il 70% di tutti i bambini, ma visitando l’Africa rurale si vede come una parte non piccola dei locali usati per l’insegnamento non hanno la dignità di essere definiti “scuole”, mancano i banchi, i quaderni, i libri, il materiale didattico. La carenza di maestri della scuola primaria è diventata cronica. La maggior parte dei paesi sono stati costretti a tagliare le spese per il reclutamento degli insegnanti sotto la pressione dei finanziatori e delle banche che esigono l’attuazione di economie di bilancio. Non pochi insegnanti rimangono in città e non vanno in villaggi dove mancano l’elettricità, la Tv e altre comodità. Nelle campagne,le scuole hanno una media di 60-80 e più alunni per classe (in Italia 25-30).
La Chiesa cattolica in Africa gestisce 67.848 scuole materne frequentate da 6.383.910 alunni; 93.315 scuole primarie per 30.520.238 alunni; 42.234 istituti secondari per 17.758.405 alunni. Inoltre segue 1.968.828 giovani delle scuole superiori e 3.088.208 studenti universitari, mentre gli studenti delle scuole superiori cattoliche sono 68.782 e delle università cattoliche 88.82212.
I numeri possono anche dire poco, ma visitando numerosi paesi africani ho visto che anche in Africa si ripete (come in India e altrove del resto) quello che sperimentiamo in Italia: le richieste di frequentare le scuole della Chiesa sono di molto superiori alle possibilità concrete di ospitare quei giovani, perché danno più affidamento per una buona educazione.
Lo stesso si può dire per il reparto sanità e assistenza. In Africa la Chiesa cattolica gestisce: 1.137 ospedali, 5.375 dispensari, 184 lebbrosari, 184 case per anziani, ammalati cronici, handicappati, 1.285 orfanotrofi, 2.037 giardini per l’infanzia, 1.673 consultori matrimoniali, 2.882 centri di educazione sanitaria, 1.364 altre istituzioni di assistenza per i poveri. Anche qui i numeri non dicono molto, ma per capire l’importanza di questa presenza cristiana nella sanità, bisogna vedere sul posto alcuni ospedali civili e altri gestiti da istituzioni cattoliche (o protestanti). Il padre Ermanno Battisti, che ha costruito e diretto l’ospedale cattolico di Bissau, capitale della Guinea-Bissau, mi dice: “Nell’ospedale nazionale cittadino si paga tutto e ci va solo chi ha i soldi necessari, nel nostro chi non ha niente non paga nulla, gli altri danno qualcosa, spesso proprio il minimo, secondo quel che possono dare. Ma la vera differenza sta nel fatto che i nostri medici, infermiere e personale sono motivati perché pagati bene e perché scelti e preparati dalla missione con studi all’estero; il personale dell’ospedale civile non è motivato: sono pagati poco e si fanno pagare tutto, le prestazioni, i medicinali, ecc.
La Chiesa in difesa dei diritti umani
In tutto il continente africano i cattolici sono circa il 17,7% dei 972 milioni di africani, ma nell’Africa sotto il deserto del Sahara arrivano a circa il 23% dei neri e con gli altri cristiani sono più del 40%. La crescita delle comunità cristiane ha avuto effetti benefici sul piano politico ed economico. In diversi paesi i partiti politici si sono rivolti alla Chiesa per avere un sostegno ed hanno chiamato un vescovo a dirigere la “Conferenza nazionale” che ha preparato una nuova Costituzione. E’ successo in Benin, Congo-Kinshasa, Togo, Gabon. In altri paesi sono stati i vescovi che hanno iniziato o guidato i colloqui di pace (Mozambico, Madagascar, Angola, Liberia); in altri ancora l’opposizione della Chiesa a regimi non democratici ha affrettato la loro fine: Sud Africa (per il regime di apartheid), Burundi, Burkina Faso, Zambia, Congo-Kinsasha, Guinea equatoriale e Guinea Bissau, Angola, Mozambico e oggi in Zimbabwe col dittatore Mugabe.
Le comunità cristiane (cattolici e protestanti) si sono affermate in Africa come soggetti che raccolgono ed esprimono, in paesi quasi privi di opinione pubblica e di organizzazioni popolari, l’anelito dei popoli verso la democrazia, la pace, la giustizia sociale, lo sviluppo economico.
I due Sinodi delle Chiese africane a Roma (1994 e 2009) hanno trattato, oltre a problemi più strettamente ecclesiali, temi di grande significato per lo sviluppo dell’Africa: la pace nella giustizia, la democrazia, il rispetto dei diritti umani, l’educazione e la crisi dell’educazione in Africa, la necessità di una catechesi che influisca sulla vita dei cristiani: “Formare ad una vita cristiana adulta che possa affrontare le difficoltà della loro vita sociale, politica, economica e culturale” dice una delle “proposizioni” nel messaggio finale dell’ultimo Sinodo.
Perché queste decisioni sono importanti? I vescovi sono convinti che lo sviluppo dei popoli africani viene dall’educazione al Vangelo, alla vita cristiana. In altre parole, il Vangelo vissuto favorisce lo sviluppo perché porta il cristiano e il popolo a correggere le tendenze negative del peccato originale che c’è in tutti, cioè sostanzialmente a passare dall’individualismo al senso comunitario della vita, dall’egoismo all’altruismo e all’amore per tutto il prossimo, dalla violenza alla non violenza, dal tribalismo al senso del bene comune della nazione. E’ evidente che molti cattolici sono battezzati però non si lasciano educare dal Vangelo e dalla grazia di Dio. Ma l’azione della Parola di Dio è molto più profonda e incisiva nella cultura generale di un popolo, di quello che possa essere in un singolo battezzato, sempre libero di comportarsi in modo, diciamo, peccaminoso.
Papa Giovanni XXIII diceva che la politica deve farsi guidare “dalla centralità dell’uomo, non dalle ideologie e dai particolarismi”. Ecco, il cristianesimo educa all’amore del prossimo e al bene pubblico, al perdono e non alla vendetta, ad una cultura fondata sul rispetto di ogni uomo, sull’uguaglianza e sull’amore. La resistenza al messaggio cristiano viene anche dalla cultura africana tradizionale fondata su altri principi. Il cosiddetto “ritorno all’autenticità africana” è un discorso ambiguo e non porta certo allo sviluppo dell’Africa nel mondo moderno.
Perché la Parola di Dio sviluppa l’uomo
A padre Ermanno Battisti, 40 anni in Guinea Bissau, ho chiesto perchè la Bibbia e il Vangelo sviluppano l’uomo e un popolo. Ecco la sua testimonianza:
“Il primo contributo è la diffusione dei Dieci Comandamenti, che esprimono la volontà di Dio per la vita di ogni uomo, la religione tradizionale non dà questi indirizzi morali, perché non ha una morale, che è fatta caso per caso dagli anziani del villaggio, secondo quel che si è fatto in passato ed è utile al villaggio. Giudicano il bene e il male secondo la tradizione. Per esempio, se un bambino nasce con qualche deformità è male tenerlo nel villaggio, perché lui è uno spirito cattivo che poi fa del male a tutti, lo abbandonano in riva al mare o lo portano in foresta, dove muore.
C’era una bambina che è stata portata in foreste e lasciata morire. Il nostro cane di casa, chissà come, ha preso tra i denti questo fagotto e l’ha portato alla nostra missione. Le suore l’hanno accolta, lavata, allevata, nutrita, educata. Adesso è una donna meravigliosa, una delle grandi cristiane del paese, non solo come cristiana e come mamma, ma anche come persona istruita capace di diffondere il Vangelo.
I dieci Comandamenti hanno pervaso la società guineana, anche i musulmani li prendono. La religione tradizionale non conosce i dieci Comandamenti. Onora il padre e la madre ce l’hanno anche loro, ma ad esempio non rubare o non dire il falso non li hanno. Per i balanta il furto non solo non è male, ma è bene, dimostra l’abilità di un uomo, è una grandezza per un uomo. L’importante è non farsi prendere. I giornali e le radio locali ci intervistano quando succede qualcosa e la gente ascolta cosa diciamo, che orientamento morale diamo. L’autorità del vescovo e dei preti è grande presso tutti, sanno che noi diciamo cose oneste.
La Guinea ha avuto un grande vescovo, il francescano veronese mons. Settimio Ferrazzetta (1924-1999), che aveva una fama enorme, come padre della patria. Aveva costruito il lebbrosario di Comura, tenuto dai padre e dalle suore Francescane, il lebbrosario più grande e meglio funzionante dell’Africa occidentale, che prende anche gli ammalati di Aids. Durante la guerra civile del 1998 lui era ammalato di cuore in Italia, ma capiva che poteva ancora influire sul presidente Nino e su Ansumane Mané. Io stesso ho influito sul Nino. Diversi missionari hanno questa possibilità di influire sui politici, come preti siamo molto stimati da tutti. Il vescovo Settimio è tornato in Guinea Bissau ed è riuscito ad incontrare i due contendenti attraversando anche un fiume pieno di melma, facendo grandi fatiche che il suo cuore non sopportava più ed è poi morto in Guinea per queste fatiche, di notte, trovato morto al mattino. Questo fatto ha impressionato tutti, il presidente Nino ha dato una medaglia d’oro a suo fratello in memoria di mons. Ferrazzetta.
L’influsso della Chiesa è molto superiore al 10% dei cattolici. Quando i due vescovi scrivono le lettere pastorali su temi da tutti sentiti, sono letti, commentati, discussi. La Chiesa dei Presbiteriani scozzesi (come origine) e anche altri che sono americani, lavorano molto bene e diffondono il messaggio di Cristo. Poi c’è Radio “Sol Mansi” (“Il sole è sorto” in criolo). Padre Davide Sciocco è il direttore di questa radio molto sentita perché dà notizie oneste, commenti sui fatti quotidiani”.
1 P. Gheddo, “Costa d’Avorio, l’alba dello sviluppo”, “Mondo e Missione”, giugno-luglio 1985, pagg. 365-386.
2 Kouadio Komenan Ferdinand, “Costa d’Avorio, politica afrocratica” Editice Emil, Bologna 2010, pagg. 174. Kouadio è un cattolico ivoriano che desidera diventare missionario del Pime e studia teologia nel nostro seminario di Monza.
3 Gianpaolo Romanato, “Daniele Comboni, l’Africa degli esploratori e dei missionari”, Rusconi 1998, pagg. 368.
4 “Le Monde Diplomatique”, novembre 1981, pag. 10.
5 R. Dumont, “LAfrique noire est mal partie”, Seuil, Paris 1965.
6 R. Dumont, M.F. Mottin, “L’Africa strangolata”, Sei, Torino 1985, pag. 220.
7 Anna Bono, “La nuova Africa – Una catastrofe annunziata”, “Il Segnalibro Editore”, Torino 1995, pagg. 210. Si veda pure il cammino verso lo sviluppo di un paese africano: P. Gheddo, “Missione Bissau – I 50 anni del Pime in Guinea Bissau (1946-1996)”, Emi 1999, pagg. 460.
8 Si veda nel Sito: www.gheddopiero.it il testo completo della conversazione tenuta a Radio Maria nel settembre 2009: “20 – Radio Maria – settembre 2009 – L’Africa non si sviluppa – Educazione e sviluppo”, pagg. 15.
9 Articolo riportato da “La Stampa” di Torino il 9 settembre 2010.
10 Agenzia Fides, 24 ottobre 2010.
11 Vedi in “Africa, A Christian Continent”, Fribourg 1958, pag. 2.
12 «Annuario Statistico della Chiesa» pubblicato nel 2010 (aggiornato al 31 dicembre 2008).
Padre Gheddo su Radio Maria (2010)
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