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“Vivo da quasi cinquant’anni in questo paese e sono stato non solo rispettato, ma aiutato e ascoltato e credo che tutti i missionari possano dare questa testimonianza. Non ricordo che ci siano state azioni di persecuzione contro la Chiesa”. Così padre Angelo Canton, missionario del Pime in Bangladesh dal 1951, che aggiunge: “Tempo fa una donna musulmana è venuta da me a lamentarsi perchè il marito la batteva. Vado dal capo villaggio e denunzio il fatto. Lui musulmano ha chiamato a giudizio il marito musulmano e davanti a una giuria fatta da due cristiani e due musulmani l’uomo ha esposto i fatti e la donna anche. Il processo si è svolto in pubblico e dopo l’interrogazione dei testimoni la giuria ha riconosciuto l’uomo colpevole e gli ha dato una multa di 1000 Take (11 Euro), una grande somma per questa gente”. Nei villaggi i processi per le liti in cui non ci sono morti si svolgono sul posto. Questo non esclude che ci siano anche casi di intolleranza, ma in genere il clero locale condivide e conferma l’esperienza di padre Angelo Canton.

Questa autorevole testimonianza inquadra l’islam in Bangladesh, il secondo paese islamico come numero di abitanti dopo l’Indonesia (il terzo è il Pakistan), che conferma il giudizio sentito nel gennaio scorso da parecchi residenti stranieri: “Il tipo umano bengalese è tollerante, cordiale, lavoratore, rifiuta la violenza e si adatta ad ogni lavoro e situazione”. Giudizio confermato dalle elezioni politiche del 29 dicembre 2008, quando ha trionfato la “Awami League”, il partito moderato artefice dell’indipendenza dal Pakistan nel 1972: oggi ha 260 seggi al Parlamento nazionale e l’alleato “Partito popolare” 26 seggi. Ha vinto la Sheikh Hasina che da sola ha la maggioranza parlamentare, mentre l’altra candidata, la Khaleda Zia, è precipitata a 32 seggi e il partito alleato, la Jamat Islam, è crollato da 17 a 2 seggi! I seggi non corrispondono alla consistenza dei votanti, poichè il sistema elettorale dà tutto a chi ha un voto in più in un distretto. Comunque, l’estremismo islamico e i vari altri estremismi politici (maoisti, ecc.), hanno subìto una clamorosa sconfitta.

Negli ultimi due giorni di gennaio e il 1° febbraio scorsi dai due ai tre milioni di fedeli hanno partecipato nella capitale Dacca all’incontro annuale di preghiera del movimento Tablig (proclamazione, annunzio), il secondo pellegrinaggio islamico nel mondo dopo quello della Mecca. Uomini semplici, poveri, che per essere presenti affrontano sacrifici per noi impensabili e commoventi. Si adattano a tutto, dormono all’aperto, viaggiano anche sul tetto dei treni o dei pullman, mangiano quel che si portano dietro o digiunano. Il movimento Tablig è tradizionalista e spiritualista, ma non politicizzato quindi non estremista né contro le minoranze e i cristiani. Intende risvegliare lo spirito religioso, non parla né di conquiste, né di violenze. I partiti islamici hanno tentato in mille modi di tirarli dalla loro parte, ma loro non ci vanno. Anche l’aspetto della “guerra santa” non ce l’hanno. Alla conclusione dell’ultima preghiera – Akheri Munajat – per la pace e il benessere nel mondo, non pochi di quegli uomini rudi e rotti ad ogni avversità erano commossi e alcuni piangevano. Ho pensato: “Questi all’islam ci credono davvero”. In tre giorni di preghiera, con due-tre milioni di persone, non ci sono stati incidenti, anche se nei primi due giorni la polizia ha arrestato 80 borsaioli!

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Ma c’è un ultimo fatto che va ricordato. La Chiesa in Bangladesh è una minoranza dello 0,3%, circa 300.000 battezzati su 150 milioni! Può lavorare liberamente diffondendo il messaggio evangelico attraverso la carità, le opere educative e sanitarie, la promozione umana specialmente degli ultimi e delle donne. Le scarse conversioni vengono dalle popolazioni “adibasi” (aborigeni), tribali, animiste (garo, santal, oraon). Però ci sono anche conversioni dall’islam. Poche ma ci sono, come ci sono cristiani che passano all’islam, specie in occasione di matrimoni. Ma la notizia è questa: c’è una legge per cui chi vuol cambiare religione va con due o quattro testimoni davanti al giudice, dichiara e firma che lo fa di sua volontà senza pressione di nessuno. “Noi quando battezziamo un musulmano – mi dice un sacerdote locale – gli chiediamo che faccia prima questa dichiarazione riconosciuta dalle autorità. Le resistenze alle conversioni non vengono dalla legge, ma dalla pressione sociale che l’islam esercita su chi vuol convertirsi”. Le leggi e il governo bangladeshi confermano lo spirito moderato e tollerante del popolo bengalese, profondamente religioso e devoto all’islam.

Le reazioni negative vengono dalle famiglie dei convertiti. In genere, un musulmano che diventa cristiano rompe i rapporti con la sua famiglia e questo si verifica anche se un cristiano diventa musulmano. Ho avuto occasione di conoscere una giovane donna entrata da poco nella Chiesa dall’islam. Era scappata con il fidanzato cristiano, vivevano assieme e hanno avuto due bambini, ma erano rifiutati da tutte e due le famiglie. Dopo sei anni, le due famiglie hanno preso atto della realtà e la signora mi dice che va a volte a casa sua e la famiglia ha accettato. Un parroco a Dacca conferma: “Non abbiamo notizia di violenze su donne musulmane che sposano un cristiano e diventano cristiane, però sono radiate dalle loro famiglie. Anche le ragazze cristiane che sposano un musulmano vengono rifiutate dalle loro famiglie. Ma è molto difficile per una ragazza cristiana accettare la mentalità e i costumi islamici verso la donna, per cui dopo qualche anno vuol tornare indietro e inizia un lungo e faticoso cammino di ritorno al cristianesimo di quattro, cinque, sei anni, soprattutto perché le famiglie delle ragazze fanno difficoltà ad accoglierle. Abbiamo in parrocchia alcuni casi di cristiane che si pentono, magari sposano un cristiano, ma le loro famiglie ancora non le accolgono”.

Visito le Chiese e i paesi dell’islam da più di cinquant’anni e mi sono convinto che noi occidentali, compreso il sottoscritto, non comprendiamo l’islam. Vediamo, com’è giusto e salutare (perché dobbiamo difendere la nostra identità e civiltà cristiana), gli aspetti negativi, gli unici reclamizzati dai mass media, terrorismo, guerra santa, kamikaze, persecuzioni anti-cristiane e via dicendo. Ma non ci rendiamo conto del fatto che la grande maggioranza dell’islam non è così. Nel 2007 sono stato nel Nord Camerun, dove pure lavorano i missionari del Pime, regione a grande maggioranza islamica; nel 2006 in Guinea-Bissau, Senegal e Mali. Nell’Africa nera a sud del Sahara prevale un islam tollerante e non violento. Perché dico questo?

Perché la sfida del nostro tempo, assieme al crollo mondiale dell’economia reale, è soprattutto questa: evitare che l’incontro fra popoli, culture e religioni, inevitabile in un mondo che diventa un solo villaggio, possa diventare uno scontro, una guerra. La soluzione sta in quanto dice la Chiesa e che la storia dimostra vero. Da un lato, pur difendendoci da violenze e terrorismi, non esasperare i contrasti, non pensare che tutti i musulmani sono terroristi, e dall’altro il “dialogo” fra cristiani e credenti nel Corano, che significa: conoscenza reciproca, accoglienza, cordialità, aiuto caritatevole ai bisognosi; e poi testimonianza cristiana di preghiera, vita religiosa, famiglie unite e via dicendo. Questo aiuta a cambiare, con l’aiuto di Dio, l’islam dall’interno. Ogni altra spinta verso la contrapposizione porta un miliardo e 300 milioni di musulmani alla convinzione che, come dicono i predicatori dell’odio, la soluzione alla loro crisi di adattamento al mondo moderno sta nella violenza e nella “guerra santa per Dio”.
Padre Gheddo su Il Timone (2009)

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