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Cari amici, questa sera vi parlo del dialogo fra le religioni non cristiane e col mondo moderno. Ho visitato molte missioni in ogni continente e ho visto come il concetto di “dialogo” è entrato a poco a poco a far parte della “missione alle genti” ed oggi è comunemente praticato nei paesi a maggioranza non cristiani. Racconterò alcune esperienze personali, per concludere come anche noi italiani, cattolici da duemila anno, oggi abbiamo bisogno del dialogo con i non credenti o in credenti in altre religioni o Chiese cristiane. Anche il dialogo è opera di Vangelo. Naturalmente va inteso e vissuto bene, ma è uno strumento che lo Spirito Santo usa per annunziare a tutti i popoli l’unico Messia e Salvatore dell’uomo, il Signore Gesù Cristo.
Tre punti della mia catechesi:
- Cosa è il dialogo e come è vissuto nelle missioni.
- Il “Dialogo della vita” in Vietnam e India.
- Il dialogo col mondo moderno da Paolo VI a Francesco.
- Cosa è il dialogo e come è vissuto nelle missioni
Fino al Concilio Vaticano II (1962-1965), i missionari non parlavano del dialogo con le altre religioni, anzi, consideravano le religioni come nemiche di Cristo, opera del demonio. Padre Matteo Ricci (1552-1610), pioniere dell’incontro con la cultura cinese, quattro secoli fa dava un giudizio del tutto negativo delle religioni dei cinesi: “Contro questo mostro dell’idolatria cinese – scriveva – terribile con le sue tre teste (confucianesimo, taoismo e buddhismo), che tiranneggia da migliaia di anni tanti milioni di anime trascinandole negli abissi dell’inferno, si è levata la nostra Compagnia per fargli guerra… al fine di liberare le anime disgraziate dalla dannazione eterna”.
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Le religioni: da nemiche di Cristo al dialogo
Il beato padre Clemente Vismara, missionario del Pime (1897-1988) beatificato nel 2011, aveva una visione negativa del buddismo. Era un uomo ottimista, accogliente, apprezzava il suo popolo, lo aiutava ed educava con amore, ma del buddismo dice che rende l’uomo meno uomo. Infatti scriveva (1): “La gente qui è povera proprio perchè vuol rimanere povera o meglio miserabile. Dicano pure che il buddismo è una buona religione, da rispettare, ma è una religione statica. La pigrizia è come incarnata in loro, a volte vien persino lo scrupolo ad aiutarli, spesso aiutandoli vuol dire renderli ancor più pigri. Il nostro scopo è educare i piccoli, abituarli al lavoro… La colpa è della cattiva religione che hanno, che li riduce così. Ci vuole una pazienza infinita per abituarli un po’ al lavoro, all’economia. La formazione spirituale produce da sè, come conseguenza, anche il benessere materiale”. Anche San Paolo, nel capitolo I della Lettera ai Romani descrive la situazione degli uomini senza Cristo in termini radicalmente negativi e di aperta condanna.
Il Concilio Vaticano II, nel Decreto “Nostra Aetate” (n. 2) scrive: La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini”.
Quindi c’è stato un radicale capovolgimento dalle religioni nemiche di Cristo alle religioni che sono una preparazione a Cristo. Come mai è avvenuto questo?
- Nella millenaria storia dell’uomo, dalla ricerca di Dio che ogni popolo compie, seguendo i suoi profeti carismatici, sono nate molte religioni. Ma noi crediamo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio fatto uomo per salvare tutti gli uomini e, come battezzati, abbiamo il dovere di annunziare Cristo a tutti gli uomini e tutti i popoli.
- Le grandi religioni del passato (la mitologia romana e greca, l’animismo dei popoli barbari convertiti a Cristo) sono scomparse, ma oggi sopravvivono specialmente in Asia altre religioni: induismo, buddismo, islam, shinto, confucianesimo e altre. Le missioni moderne hanno sperimentato che i blocchi umani di queste religioni non si convertono a Cristo. Le minoranze cristiane nei paesi asiatici appartengono a popoli tribali e animisti (“culto degli spiriti”).
Questo cambiamento radicale del nostro atteggiamento di fronte alle grandi religioni è maturato nei secoli per un teologico profondo. Gesù ha detto: “Ho ancora molte cose da dirvi, ma ora non potreste comprenderle; quando però verrà lo Spirito della verità, vi guiderà verso tutta la verità… Lo Spirito riprenderà quanto ho insegnato e ve lo farà capire meglio” (Giov. 16, 12-15). L’ultima rivelazione di Dio è quella di Gesù Cristo, ma noi uomini non possiamo mai comprendere il pensiero di Dio, la volontà di Dio. Ecco perchè dalla Parola di Dio autenticata dalla Chiesa, nei duemila anni di cristianesimo lo Spirito ha rivelato, ha fatto capire tante cose contenute nel Vangelo. Questa è la grande “Tradizione della Chiesa”, che è fonte di rivelazione come la Parola di Dio scritta, l’Antico e il Nuovo Testamento.
La Chiesa ha compreso a poco a poco più profondamente il Vangelo ed è cambiata nei secoli in tante cose. Ad esempio, in l’Inquisizione durata alcuni secoli portava a violenze contro l’uomo, condanne a morte, torture, carcere duro per le idee che gli eretici sostenevano. Come mai questo? Perché prevaleva il principio che la fede andava difesa con tutti i mezzi. Poi la storia e la riflessione teologica hanno portato a far capire il valore sommo della singola persona e che il Vangelo condanna ogni violenza contro l’uomo, non solo condanna a morte, ma anche la tortura e io penso che in futuro arriveremo a capire che anche la prigione è una punizione molto spesso disumana. Chi viola la legge andrà punito in altro modo. Non riusciremo mai a capire del tutto la Parola di Dio. Per questo il cristianesimo è una religione dinamica, che si adatta ai tempi, pur rimanendo ben ferme e immutabili le verità di fede.
Così pure il principio della libertà di religione o di non religione. Il Decreto del Vaticano II “Dignitatis humanae” riconosce ad ogni singola persona il diritto a non subire alcuna coercizione nel professare un credo religioso. Nel corso dei secoli la Chiesa ha cambiato pensiero e modo di agire: in passato si ritenevano giuste le conversioni forzate, le guerre di religione, le persecuzioni degli eretici e dei gruppi di eretici. Nel mondo cristiano era prevalso il principio “cuius regio, illius et religio”, cioè chi viveva in una regione, in un paese, avevano tutti la stessa religione, che era quella del re, del principe. Con il “Sillabo” del 1864 Pio IX (che prossimamente verrà beatificato) aveva condannato la tesi sulla libertà religiosa, che il Vaticano II ha considerato giusta, cioè secondo l’insegnamento di Gesù.
Il riconoscimento della libertà religiosa apre la strada per un dialogo fra i membri delle varie religioni, per un comune sviluppo al bene comune dell’umanità.
Con Giovanni Paolo II il “Dialogo della vita”
Come si pratica il dialogo inter-religioso nelle missioni? L’enciclica di Paolo VI “Ecclesiam suam” (6 agosto 1964) e l’istituzione del “Segretariato per i non cristiani” (oggi Pontificio Consiglio per il dialogo inter-religioso) hanno avuto un fortissimo impatto soprattutto in Asia e Africa, non subito positivo, ma negativo. Nel dicembre 1964 Paolo VI era a Bombay per il Congresso Eucaristico internazionale e io ero andato come giornalista. Il Papa ha incontrato in modo solenne numerosi rappresentanti delle religioni presenti in India, con discorsi importanti.
Dopo il suo ritorno in Vaticano, ho visitato con padre Augusto Colombo una dozzina di diocesi indiane, comprese le tre che avevano ancora un vescovo italiano del Pime e posso dire che missionari e vescovi erano dubbiosi o nettamente contrari al dialogo con l’induismo. Dicevano: a Roma si illudono perché leggono i libri sull’induismo, ma noi che ci viviamo in mezzo sappiamo che il dialogo è inutile e poi il nostro popolo che si è convertito a Cristo, liberandosi con molta fatica da tutte quelle superstizioni, non lo capirebbe. Eppure il Pime aveva già mandato un anno prima padre Giorgio Bonazzoli a Benares, capitale religiosa dell’induismo, a tentare un dialogo con i monaci indù.
Oggi, mezzo secolo dopo, in India il dialogo con l’induismo è avviato in diocesi e parrocchie, anche perché Giovanni Paolo II ha stimolato le Chiese locali sulla via del dialogo, ad esempio nel viaggio febbraio 1986, ricchissimo di aperture ai non cristiani e di gesti che hanno convinto le comunità cattoliche sulla via del dialogo. Soprattutto poi con la giornata di Assisi (26 ottobre 1986), che ha fatto nascere “lo spirito di Assisi”, di pace, fraternità e collaborazione fra le religioni. Il 24 gennaio 2002, il Papa ha nuovamente convocato i rappresentanti delle religioni ad Assisi per un’altra giornata di preghiera e di riflessione. Si noti che Giovanni Paolo II prima dice che le religioni sono unite per la pace e per un mondo più giusto e solidale; poi afferma che questo dono lo chiediamo a Dio; ma aggiunge: “Unico è lo scopo e medesima è l’intenzione, ma pregheremo secondo forme diverse, rispettando le altrui tradizioni religiose. Anche in questo c’è un messaggio: vogliamo mostrare al mondo che lo slancio sincero della preghiera non spinge alla contrapposizione e meno ancora al disprezzo dell’altro, ma piuttosto ad un costruttivo dialogo, nel quale ciascuno, senza indulgere in alcun modo al relativismo né al sincretismo, prende anzi più viva coscienza del dovere della testimonianza e dell’annunzio”.
Ecco il grande cambiamento che è avvenuto negli anni di Giovani Paolo II:
1) Negli anni del Concilio e di Paolo VI il dialogo avveniva con incontri ad alto livello (vescovi, teologi, monaci) per parlare e confrontarsi su temi religiosi: i libri sacri, le verità rivelate, la preghiera, la vita religiosa, che non ha avuto un grande sviluppo, soprattutto perchè i non cristiani non sentono l’esigenza di discutere i contenuti delle varie religioni. E’ una posizione comune che ho sentito spesso.
Padre Adriano Pelosin del Pime ha studiato il buddismo in una università americana e poi, in Thailandia, quando ha imparato bene la lingua thai è stato alcuni mesi in un monastero buddhista a Chieng-Mai, ma non è riuscito a stabilire il “dialogo” che sognava e per il quale si era preparato in modo scientifico studiando le scritture e le tradizioni buddhiste. Mi diceva: “Le mie attese, dopo dieci anni di studi sul buddhismo, erano infinite. La realtà era molto più povera e triste… Anche con l’abate del monastero – col quale avevo colloqui privati – il discorso non era mai sulla nostra esperienza religiosa, sulla meditazione, ma sulle migliaia di regolette che ogni buddista deve osservare per essere perfetto… Vedevo il disinteresse totale dei monaci nei miei confronti. I bonzi buddhisti, avendo abbandonato il mondo si sentono sicuri della loro salvezza e inattaccabili… e questo ha creato un grande spirito di tolleranza. I thailandesi dicono: “Tutte le religioni insegnano all’uomo ad essere buono”. Per questo lodano il buddismo, praticano l’animismo, rispettano il cristianesimo”.
I tentativi di dialogo sui contenuti delle varie fedi religiose, fatti da missionari o dalle giovani Chiese, non hanno portato a risultati di rilievo: ci sono ancora troppi pregiudizi (ad esempio, che si miri alla loro “conversione”). C’è stato invece un crescendo nelle visite di capi religiosi al Papa e negli incontri fra esponenti religiosi, come quelli ad Assisi, compreso l’ultimo di Papa Francesco, per testimoniare assieme la volontà di pace dei popoli e lo spirito di fraternità e di collaborazione fra i seguaci delle religioni. In molti paesi d’Oriente, l’esempio del Papa ha fatto scuola: vi è rispetto e collaborazione fra i capi delle religioni.
2) La seconda via, che vale per tutti i cattolici, è il “dialogo della vita”, che coinvolge i popoli nel vivere assieme e collaborare in spirito di fraternità. Ha portato una rivoluzione benefica nelle comunità cristiane e anche nei non cristiani: non più chiusi in se stessi, ma aperti agli altri. Oggi, nei paesi asiatici, è più difficile trovare i “villaggi cristiani” che erano comuni mezzo secolo fa; col risultato di unire i membri delle religioni per azioni comuni di carattere caritativo, sociale, culturale e anche in campo politico. Come vedremo nella seconda parte.
II) Il “Dialogo della vita” in Vietnam e India
Giovanni Paolo II ha dato una svolta al dialogo interreligioso, orientandolo verso il coinvolgimento della gente comune, per aprire diocesi, parrocchie e singoli battezzati al dialogo con i non cristiani e realizzare la collaborazione per il bene comune e promuovere iniziative su temi come la pace, la libertà, la promozione dei diritti umani, la verità e la giustizia nei rapporti sociali, l’abolizione della violenza e, ad Assisi nel gennaio 2002, la lotta al terrorismo, la salvaguardia dell’ambiente e la sobrietà della vita. Le espressioni usate nell’incontro di Assisi (26 ottobre 1986) e nella “Sollicitudo rei socialis” (1987, n. 47) con le quali Giovanni Paolo II invita ebrei, musulmani e “tutti i seguaci delle grandi religioni del mondo” a pregare e operare assieme per la pace e la solidarietà tra gli uomini, hanno avuto un buon influsso nelle missioni.
Ho visitato molte Chiese dell’Asia e mi sono reso conto, ad esempio, che alcuni testi e discorsi di Giovanni Paolo II sul dialogo sono stati tradotti nelle lingue locali e inviati a tutti i responsabili del mondo religioso locale, come dichiarazione d’intenti della Chiesa cattolica. In Sri Lanka, il vescovo di Kandy mi diceva (nel 1990) che il discorso che Giovanni Paolo II aveva tenuto nell’ottobre 1986 ad Assisi era stato tradotto in singalese, tamil e inglese e mandato a centinaia di capi delle religioni dell’isola, buddismo, induismo, islam e varie Chiese cristiane. Quel discorso è diventato il manifesto per il dialogo fra i membri delle varie religioni a tutti i livelli.
Il dialogo con i buddisti in Vietnam (1967-1974)
Ecco la mia esperienza in Vietnam, durante la guerra durata dodici anni (1963-1975). Nel 1965 ho intervistato a Roma, durante il Concilio Vaticano II come giornalista de “L’Osservatore Romano”, l’arcivescovo di Saigon, mons. NguyenVan Binh, che mi ha invitato ad andare in Vietnam, assicurandomi l’assistenza della Chiesa vietnamita per visitare tutto il Sud in guerra. Sono poi andato nell’autunno 1967 e ho potuto visitare il Vietnam del Sud in guerra da quattro anni.
Nella lunga storia della nazione vietnamita, c’erano sempre forti contrasti fra buddisti e cattolici. Nel 1627, quando il Vietnam era già buddista, i gesuiti francesi entrano nel paese e in pochi anni fondano la Chiesa e trent’anni dopo (1658) i battezzati erano 300.000 su circa 2-3 milioni di vietnamiti. Il fondatore della missione, padre Alessandro De Rhodes, aveva romanizzato (cioè scritta nell’alfabeto latino) la lingua vietnamita che era scritta in caratteri cinesi. Poi i cristiani sono perseguitati nei due regni del Tonchino e della Cocincina (con circa 130.000 martiri!) fin verso il 1885, quando la colonizzazione francese si estende a tutto il Vietnam. La scuola moderna, che insegnava francese, matematica, geometria, geografia, scienze e medicina moderne, tecniche agricole e meccaniche, sostituisce la scuola delle pagode e monasteri buddisti, che trasmetteva una cultura millenaria: i “Quattro Libri della sapienza confuciana”, i Classici della lingua vietnamita, la bella calligrafia in caratteri cinesi, suscitando la protesta e la violenza contro il colonialismo. E quindi contro i francesi e i missionari cattolici francesi! Ha inizio la lotta fra cattolici e buddisti. Il governo coloniale sosteneva apertamente la religione locale, il buddismo. Ma la missione cattolica, con la piena libertà religiosa, si imponeva soprattutto con le sue scuole anche tecniche e universitarie, l’assistenza sanitaria e la carità verso i poveri e gli ultimi, i tribali “montagnards” (che si convertono a Cristo).
Con l’indipendenza del Vietnam dopo la II guerra mondiale, nel 1953 il paese si divide in due, al Nord il governo comunista di Ho Chi Minh, al Sud quello paternalista e autoritario del cattolico Ngo Dinh Diem. Nel Nord si scatena la persecuzione contro tutte le religioni e contro ogni opposizione al potere; nel Sud, con l’aiuto di francesi e americani, fino al 1959 il paese si sviluppa bene e c’è la libertà di stampa e di opposizione al governo. Nel 1959 inizia la guerriglia condotta dai vietcong (partigiani locali) e dai militari nord-vietnamiti (aiutati da russi e cinesi), che entrano clandestinamente nel Sud Vietnam dal Laos. Nell’ottobre 1953 John Kennedy manda le truppe americane a difendere il Sud, come già gli USA avevano combattuto la guerra in Corea (1950-1953) per difendere il Sud dall’invasione del Nord e ancor oggi abbiamo due Coree: quella del Nord comunista e alla fame, quella del Sud democratica, che è una delle “tigri asiatiche” dello sviluppo.
In Vietnam succede il contrario. Nel 1973 a Parigi si firmano gli accordi di pace, che assicurano al Vietnam un governo democratico e nel marzo dello stesso anno gli americani si ritirano e la guerriglia diventa guerra totale di eserciti. Nell’aprile 1975, l’esercito nord-vietnamita entra trionfante in Saigon, la capitale del Sud e inizia il grande esodo di circa due milioni di vietnamiti che fuggono dal loro paese ormai entrato, come diceva Solgenitsin “nell’eternità comunista”.
Durante il governo di Ngo Dinh Diem, finito nel 1963, la Chiesa cattolica aveva beneficiato di aiuti economici e di vari privilegi e sosteneva il regime autoritario perché difendeva dal comunismo staliniano del Nord. Alcune sette e pagode buddiste si univano alle proteste popolari e sei bonzi, in tempi diversi, si rovesciano addosso una bottiglia di benzina e si danno fuoco nella piazza centrale di Saigon. Le foto di quei “martiri”, rilanciate da agenzie fotografiche occidentali, riaccendono i contrasti e le vicendevoli accuse fra cattolici e buddisti. Anche ad Hanoi, capitale del Nord Vietnam, alcuni bonzi si danno fuoco nelle piazze per protestare contro la persecuzione religiosa, ma non essendo presenti né giornalisti né fotografi occidentali, la notizia e le foto le pubblicano solo i giornali del Sud Vietnam, il mondo esterno non ne sa nulla!
Nel 1964 inizia il dialogo cattolici-buddisti, per iniziativa del Nunzio apostolico mons. Palmas e dei vescovi che avevano partecipato al Concilio e letto l’enciclica “Ecclesiam suam. Nasce il “Consiglio delle Religioni”, con l’adesione dei capi e delle sei religioni nazionali (buddhismo, cattolici, protestanti, islam, cao-dai, hoa-hao), con lo scopo primario di evitare gli scontri anche sanguinosi tra i fedeli delle due maggiori religioni e creare un clima di comprensione e di collaborazione. In pochi anni il Consiglio riporta la pace nel settembre 1966 Paolo VI manda in Vietnam mons. Sergio Pignedoli, segretario di Propaganda Fide, che parla ai vescovi e ai capi buddisti riuniti, consegnando un messaggio del Papa e augurandosi che si stabilisca fra i credenti una collaborazione fattiva per il bene del loro popolo.
Sono andato in Vietnam un anno dopo e mi dicevano che il messaggio di Paolo VI aveva prodotto buoni frutti: il Consiglio delle Religioni stava diventando un ente che prendeva iniziative comuni in vari campi. Cito solo due esempi:
1) la Costituzione del Vietnam del Sud, votata dal Parlamento democraticamente eletto e promulgata il 1° aprile 1967, proprio per la richiesta del Consiglio delle Religioni, porta questo articolo: “La Costituzione si basa sulla fede religiosa, rispetta la libertà di religione e si oppone al comunismo ateo. L’Assemblea Nazionale proclama profonda fiducia nell’Essere Divino di tutte le religioni”.
2) In seguito ad una manifestazione programmata a Bruxelles per il 4 marzo 1967 che aveva lo scopo di chiedere il ritiro delle forze americane dal Vietnam del Sud, il Consiglio delle Religioni manda questo messaggio: “La vera natura della guerra in Vietnam è l’aggressione condotta dai comunisti, che obbliga il Sud Vietnam a difendersi. Tutti coloro che amano la pace, dovrebbero essere onesti e imparziali e promuovere la pace nella libertà e nella giustizia. Pere questo, il Consiglio delle Religioni condanna severamente tutti i movimenti pacifisti contrari alla libertà e all’autodeterminazione del popolo del Sud Vietnam”.
Sono poi tornato in Vietnam nell’autunno 1973 e ho partecipato a varie riunioni del “Consiglio delle religioni” a Saigon e visitato sul terreno le opere realizzate in collaborazione fra le religioni nazionali: assistenza dei profughi dalle zone di guerra e da quelle “liberate”, “scuole religiose” nelle campagne (ad es. alfabetizzazione degli adulti, asili), comitati per la difesa dei diritti dell’uomo, manifestazioni per la pace, pubblicazione di giornali, ecc. Dagli incontri fra le religioni è nata la “terza forza” politica del Vietnam del sud, formata da cooperative, sindacati, partiti, gruppi per i diritti dell’uomo, associazioni studentesche, ecc. La terza forza ha avuto un peso notevole nel far cessare la guerra: tanto che venne riconosciuta dagli “accordi di Parigi” del 27 gennaio 1973, che determinarono la partenza degli americani, il decadimento del regime di Thieu, il dilagare delle armate nord-vietnamite e la conquista di Saigon nell’aprile 1975. Gli accordi di Parigi riconoscevano alla “terza forza”: libertà di stampa e di religione, elezioni libere e pluraliste, ecc. Nessuno di questi patti, dopo la vittoria del Nord Vietnam, venne mantenuto. I mass media occidentali non hanno più parlato della “terza forza”; i bonzi buddhisti che anche dopo il 1975 si sono immolati dandosi fuoco per protestare contro la dittatura comunista, non hanno più avuto fotografi e televisioni a riprenderli: il Vietnam era ormai tutto “liberato”! Con l’aprile 1975 inizia per buddhisti e cattolici una vera persecuzione, che continua ancor oggi.
Il Vietnam non è un caso unico. Anche nella Corea del Sud, dal 1964 sotto la dittatura dei militari, si è realizzata una stretta collaborazione fra cristiani e buddisti, che ha portato, attraverso manifestazioni non volente e pacifiche, alla democrazia nel 1984. In Malesia, Indonesia, Hong Kong, Sri Lanka, Bangladesh, Giappone e India, esistono incontri regolari fra i capi delle religioni, comitati di studio e di collaborazione in difesa della pace e dei diritti dell’uomo. Sono fatti del tutto nuovi, che portano le religioni a collaborare per difendere l’uomo e per custodire il senso religioso della vita nei loro popoli.
Cosa l’India può dare alla Chiesa?
Il dialogo inter-religioso deve sfociare in uno scambio di valori, che già sta avvenendo nei paesi non cristiani: i valori cristiani stanno cambiando dall’interno le culture e le religioni dei popoli e la Chiesa diventa sempre più cattolica,cioè universale, assumendo i valori delle altre culture e religioni, come nei primi secoli ha assunto i valori della civiltà graco-romana.
In Asia la Chiesa che in questo campo ha una più lunga tradizione di studi e di esperienze e quella dell’India. Quali doni l’India può portare alla Chiesa? Domanda che spalanca orizzonti nuovi. Viviamo (tutti!) troppo rinchiusi in uno spazio geografico ristretto, la nostra attenzione è rivolta ai fatti vicini e trascura quelli lontani. Ma nel nostro mondo globalizzato (“che diventa un solo villaggio”), questo non è più possibile. Bisogna avvicinare gli altri popoli con lo spirito di umiltà e del dialogo, che significa condivisione ed educazione vicendevole: Gandhi diceva: “Non ho mai incontrato un uomo dal quale non abbia imparato qualcosa”.
Il pensiero indiano è dominato dallo spirito, contrariamente al pensiero occidentale che parte dalle realtà materiali per giungere a quelle spirituali (e a volte non ci arriva!). L’India parte dallo spirito e a volte non si posa nemmeno sulla terra ferma. Però la filosofia indiana, “spirito-centrica”, è un valore che deve interessare la Chiesa e che, è pensabile, cambierà la Chiesa stessa e le filosofie-teologie occidentali. L’India, non avendo ricevuto la rivelazione biblica, non ha un’idea precisa di Dio e cade nel panteismo indù o nell’agnosticismo buddhista; come non ha una vera nozione di creazione, e quindi dell’uomo, che solo la rivelazione può darci. Ma la sua saggezza plurimillenaria, in un popolo portato alla speculazione filosofica e al misticismo religioso, ha portato a una profonda ricerca di Dio e della via che l’uomo deve percorrere per salvarsi. Basta leggere gli autori moderni di questa saggezza umana per rendersi conto della loro ricchezza spirituale: Vivekananda, Tagore, Aurobindo, Gandhi, Vinoba Bhave, Radhakrishnan, ecc.
Per la filosofia occidentale l’uomo è un “animale razionale”, al quale poi mettiamo come cappello che l’uomo ha anche le facoltà spirituali (artistiche, morali, religiose). L’India considera l’uomo uno “spirito incorporato”, cioè la parte più importante dell’uomo è lo spirito, la vita spirituale, da cui poi discende tutto il resto. Per la filosofia indiana il cosmo, la natura, le cose materiali sono “maya”, cioè apparenza che non esiste, che passa; per noi occidentali sono il fondamento della vita anche spirituale, che non esisterebbe se non ci fosse il corpo, il mondo (Romano Guardini diceva che il cristianesimo è l’unica religione “materialista”, cioè che riconosce l’importanza della materia, del corpo).
Naturalmente questi sono solo piccoli flash di luce su un universo – le filosofie e le religioni dell’India – che ci rimane in buona parte sconosciuto, non esplorato.
Nel 1977 ho visitato il monaco benedettino inglese Beda Griffiths, nel suo “ashram” in sud India (nel Tamil Nadu), lo “Shantivanam” (luogo della pace), un villaggio di capanne per gli ospiti (pavimento e muri di cemento, tetto di paglia), con cappella, luoghi comunitari, biblioteca, campi coltivati, lungo il fiume sacro Kavery. Padre Griffiths si è dedicato all’incontro con i saggi indù, che ospitava nel monastero aperto a tutti coloro che volevano fare qualche giorno di preghiera e di ricerca religiosa. Alla mia domanda su cosa l’India può dare alla Chiesa, rispondeva (2):
“L’esperienza di Dio nell’induismo è autentica e profonda e può essere paragonata all’esperienza che ha avuto il popolo ebreo, con questa differenza: gli ebrei hanno sperimentato Yahwé come il Signore trascendente, gli indù come una realtà immanente nelle profondità dell’anima. All’indù non interessa apprendere qualcosa su Dio, ma fare l’esperienza di Lui nella propria vita. In tutta la storia indiana troviamo questa aspirazione di saggi, poeti, scrittori, monaci, guru: sperimentare, sentire vivente la presenza dell’Assoluto in sè. Le persone più stimate e ascoltate nell’induismo sono quelle che hanno fatto questo cammino di interiorizzazione e vivono non superficialmente, non attaccati alle cose mutevoli della vita, ma in modo profondo le realtà ultime.
“Questo può insegnare molto a noi cristiani. Nelle Chiese occidentali, noi siamo attenti alla scienza, alla conoscenza, alla prudenza umana, piuttosto che all’esperienza di Dio. E’ più facile che diventi vescovo (o superiore di un ordine religioso) un uomo capace di comandare, un buon amministratore, un teologo che un santo, cioè uno che abbia una profonda esperienza di Dio nella sua vita. E’ certo possibile che le due qualità siano unite, ma dovendo scegliere, si guarda più alla prima che alla seconda. Allo stesso modo, i nostri criteri di giudizio, anche nella Chiesa, tengono più in considerazione l’efficienza, l’intelligenza, la capacità amministrativa o organizzativa o giuridica, che non l’esperienza di Dio.
“C’è una spiegazione psicologica per questo ed è qui che l’induismo può insegnarci qualcosa. Noi cristiani ci preoccupiamo meno degli indù di ricercare e sperimentare Dio, perchè crediamo già di possederlo. Attraverso il Vangelo, la fede, i sacramenti, l’appartenenza alla comunità dei credenti, noi cresciamo con la convinzione di avere Dio con noi e non ci preoccupiamo molto di cercarlo e approfondire il legame fra noi e Lui. L’incontro più vero con l’induismo deve avvenire a livello spirituale. E’ facile e anche utile incontrarsi per fare qualcosa assieme (es. un’azione sociale), oppure a livello di scambi culturali, di discussioni filosofiche e teologiche, ma si rimane sempre alla superficie. La Chiesa deve incontrare l’India a livello profondo, spirituale, di ricerca ed esperienza del divino. E’ a questo livello profondo che noi possiamo e dobbiamo annunziare Cristo: ecco l’evangelizzazione, la missione….
“Com’è possibile, conclude padre Griffiths, annunziare Cristo Signore, manifestazione del Dio trinitario nella vita dell’uomo, se chi annunzia non ha un’esperienza profonda di Lui nella sua vita? E’ facile comprendere come questo filone di riflessioni può portare ad un vero rinnovamento della Chiesa e del tipo di missione oggi praticato nella Chiesa indiana… In India la Chiesa è vista come un’organizzazione sociale, educativa assai efficiente e potente a servizio del popolo, non come comunità che diffonde anzitutto un messaggio spirituale, di fede religiosa”.
III) Il Dialogo col mondo moderno da Paolo VI a Francesco
Paolo VI e il Concilio hanno lanciato il dialogo interreligioso, con il Decreto “Nostra Aetate” e l’enciclica “Ecclesiam suam” (1964), due documenti da riprendere per leggerli e studiarli in riferimento non più solo alla missioni (dove la Chiesa dialoga con le grandi religioni dell’uomo), ma al nostro Occidente cristiano, alla ricerca di metodi per la Nuova evangelizzazione, per riportare alla fede in Cristo e alla vita cristiana i moltissimi battezzati che in chiesa non ci vengono più. Oggi sentiamo forte il bisogno di “imparare dalle giovani Chiese”, come scrivono spesso i vescovi italiani3. Lo Spirito Santo ci ha mandato Papa Francesco, animato da un autentico spirito missionario, per trasmettere alle nostre Chiese antiche e fatte in maggioranza da anziani, l’approccio all’annunzio di Cristo attraverso il dialogo.
La missione è un dare e un ricevere
Nella “Ecclesiam Suam” Paolo VI presenta la Chiesa e la missione in una luce diversa da quanto comunemente noi immaginiamo e bisogna capire bene questo, per apprezzare la rivoluzione del Concilio Vaticano II e di Paolo VI:
1) Nella visione tradizionale, la Chiesa ha il pieno possesso della Verità di Dio e la missione sono i missionari mandati a tutti gli uomini per annunziare e convertire a Cristo. Noi possediamo la verità e la trasmettiamo: è una visione giusta ma statica, non dinamica.
2) Nella visione del Concilio e di Paolo VI, la Chiesa è in cammino per raggiungere la pienezza della Verità di Dio, che noi uomini non possiamo mai conoscere fino in fondo, perché Dio supera infinitamente la nostra mente e il nostro cuore. Lo Spirito Santo assiste la Chiesa e lungo il corso dei secoli la porta a fare passi in avanti verso la piena comprensione del Vangelo e della Parola di Dio, fino all’eternità beata del Paradiso.
3) Ecco il significato profondo della “missione alle genti”e dell’annunzio, che non è una imposizione e una proclamazione, ma un dialogo con l’altro, per capirlo e farsi capire, per testimoniargli con la nostra vita e trasmettergli con la nostra povera parola le Verità che viviamo; ma, nel tempo stesso, ascoltarlo per conoscere i “semi del Verbo” che Dio ha messo in tutti gli uomini e conoscere i suoi valori religiosi e umani che il suo popolo e la sua civiltà hanno maturato nella loro storia, quando ancora non conoscevano la Rivelazione di Gesù Cristo. La missione non è solo un dare, ma un dare e un ricevere nel dialogo fraterno e nella vita vissuta da fratelli.
L’enciclica “Ecclesiam suam” è divisa in tre parti, in una rigorosa successione, che inquadra bene i passaggi per entrare nella “cultura (o mentalità) del dialogo” e poter vivere la vita cristiana in modo dialogante con chi ha una fede vacillante che conta poco nella vita o addirittura non ha più fede :
1) La Chiesa deve riprendere coscienza che è nata per annunziare Cristo a tutti gli uomini; e ritornare all’identità e alla vita cristiana che tutti noi battezzati siamo chiamati a compiere. Il ritorno a Cristo dei singoli credenti e delle comunità cristiane è condizione irrinunciabile per entrare in dialogo con chi la pensa diversamente.
2) A partire da questa coscienza, la Chiesa opera il suo rinnovamento, le necessarie riforme, sia nella condotta personale di ogni credente, sia nelle strutture della Chiesa stessa. Le riforme vanno fatte proprio allo scopo di rendere la Chiesa più credibile ed efficiente nel dialogo-annunzio della Verità di Cristo.
3) Queste le due premesse per poter evangelizzare tutti gli uomini. Il dialogo ha origine nella Trinità stessa, che salva l’umanità attraverso il “dialogo della salvezza” (“colloquium salutis”). Per Paolo VI il dialogo è un sinonimo di missione. Nel confronto e dialogo con i membri delle religioni non cristiane la Ecclesiam suam afferma: “Noi non possiamo evidentemente condividere queste varie espressioni religiose”, tuttavia non si può non riconoscere loro il “rispettoso riconoscimento ai valori spirituali e morali” che posseggono e occorre collaborare con esse “negli ideali che possono essere comuni nel campo della libertà religiosa, della fratellanza umana, della buona cultura”.
Nell’enciclica il dialogo non è una tecnica per convertire l’altro, ma è visto come uno strumento attraverso il quale giungere insieme tra i dialoganti ad una più profonda comprensione della Verità. Per Paolo VI, il dialogo della Chiesa significa una totale e continua apertura a chiunque sia disposto ad ascoltare il messaggio di Cristo; è la natura stessa della Chiesa, nata per evangelizzare tutti gli uomini e le culture e quindi deve entrare in dialogo, cioè nel “colloquium salutis” (dialogo della salvezza) con tutti gli uomini e tutte le culture dell’uomo.
L’enciclica profetica e dimenticata di Paolo VI
Ho riletto l’Ecclesiam suam con crescente ammirazione per Paolo VI. L’enciclica è stata ingiustamente dimenticata, perché il Decreto conciliare “Nostra Aetate” si pensava la sostituisse. Ma non è vero. Il Decreto prende in esame il dialogo fra missione e religioni non cristiane, ma l’enciclica parla soprattutto de “il problema, così detto, del dialogo fra la Chiesa ed il mondo moderno” (n. 15), cioè con i non credenti, gli agnostici, gli atei, che sono soprattutto nell’Occidente un tempo “cristiano”; e poi delinea coraggiosamente le virtù necessarie, le modalità , lo spirito del dialogo su temi religiosi. Leggendo l’Ecclesiam suam, mi veniva in mente un grande missionario e beato del Pime, il padre Paolo Manna, che nel suo testo profetico “Osservazioni sul metodo moderno di evangelizzazione” (4) sembra quasi che abbia letto in anticipo di 34 anni (1929-1964) l’enciclica di Paolo VI, applicandola alla vita delle missioni cattoliche in Cina appena visitate; e pensavo a Papa Francesco, che sta realizzando l’insegnamento di PaoloVI. Non posso approfondire questo discorso, ma vi accennerò per spiegare ai fratelli e sorelle che mi ascoltano la provvidenziale novità del Papa che viene “quasi dalla fine del mondo”.
Paolo VI parte dal principio che ogni uomo è creato “a immagine di Dio” e amato da Dio; “la religione è dialogo fra Dio e l’uomo”, espresso nella Rivelazione e nella preghiera, e questo dialogo deve raggiungere tutti gli uomini.
“La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio” (n. 67). E il mondo, “ancor prima di convertirlo, anzi per convertirlo, bisogna accostarlo e parlargli. Dio non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma affinché sia salvato per mezzo di lui (Giov. 3, 17) (nn. 70, 71).
“La Chiesa può rapportarsi col mondo rilevando i suoi mali, anatematizzandoli e muovendo crociate contro di essi” (n. 80); ma oggi ci vuole il dialogo, “suggerito dall’abitudine ormai diffusa di così concepire le relazioni fra il sacro e il profano, dal dinamismo trasformatore della società moderna, dal pluralismo delle sue manifestazioni, nonché dalla maturità dell’uomo, sia religioso che non religioso, fatto abile dall’educazione civile a pensare, a parlare, a trattare con dignità di dialogo” (n. 80).
“Questa forma di rapporto indica un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva ed abituale” (n. 81)… “Nel dialogo si scopre come diverse sono le vie che conducono alla luce della fede, e come sia possibile farle convergere allo stesso fine. Anche se divergenti, possono diventare complementari, spingendo il nostro ragionamento fuori dei sentieri comuni e obbligandolo ad approfondire le sue ricerche, a rinnovare le sue espressioni. La dialettica di questo esercizio di pensiero e di pazienza ci farà scoprire elementi di verità anche nelle opinioni altrui, ci obbligherà ad esprimere con grande lealtà il nostro insegnamento e ci darà merito per la fatica d’averlo esposto all’altrui obiezione, all’altrui lenta assimilazione”. (n. 86).
L’enciclica di Paolo VI è profonda e profetica. Non posso seguirla in modo sistematico, ma ci sono passaggi molto significativi: “Non si salva il mondo dal di fuori” dice il Papa e cita Gesù che si è fatto uomo per salvarci, partecipando alla vita degli uomini del suo tempo; così chi evangelizza deve “condividere, senza porre distanza di privilegi o diaframma di linguaggio incomprensibile… Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi il servizio. Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo l’esempio e il precetto che Cristo ci lasciò” (n. 59).
E poi parla dei rischi del dialogo… “L’arte dell’apostolato è rischiosa. La sollecitudine di accostare i fratelli non deve tradursi in una attenuazione, in una diminuzione della verità. Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede. L’apostolato non può transigere con un compromesso ambiguo rispetto ai principi di pensiero e di azione che devono qualificare la nostra professione cristiana. L’irenismo e il sincretismo sono in fondo forme di scetticismo rispetto alla forza e al contenuto della Parola di Dio, che vogliamo predicare. Solo chi è pienamente fedele alla dottrina di Cristo può essere efficacemente apostolo” (n. 91). “E solo chi vive in pienezza la vocazione cristiana può essere immunizzato dal contagio di errori con cui viene a contatto” (n. 92).
Con Papa Francesco “la Chiesa si fa dialogo”
Questo il punto di partenza di Paolo VI e del Concilio. Oggi è del tutto tramontata “l’epoca della cristianità”, cioè il tempo in cui fede e civiltà, Chiesa e Stato, mondo religioso e mondo laico erano strettamente collegati e collaboravano. Oggi la Chiesa, cioè tutti noi, deve essere dialogante perché la missione in Occidente non è più solo proclamazione e insegnamento della Verità di Cristo, ma dev’essere soprattutto testimonianza della vita in Cristo e apertura, dialogo con tutti i cristiani la cui fede è vacillante e quelli che si dichiarano senza religione, atei o agnostici; questi ultimi in Polonia sono il 9,3%, in Italia il 14-15% (circa 10 milioni!), in Spagna il 19,5%, in Germania il 21%, in Francia il 27%, in Inghilterra il 31%! Anch’essi sono creati da Dio e Cristo li ha salvati con la sua morte e Risurrezione; anch’essi hanno dei valori morali o spirituali. La Nuova Evangelizzazione riguarda questa parte del popolo italiano che spesso consideriamo nemica della Chiesa, esclusa dal gregge di Cristo.
La pista per la Nuova Evangelizzazione è già aperta, ma il cammino per una “Chiesa dialogante” è ancora lungo, per giungere a quanto si augurava Giovanni Paolo II (“Redemptoris Missio”, n. 56): “Tutti i fedeli e le comunità cristiane sono chiamati a praticare il dialogo, anche se non nello stesso grado e forma”. E’ un orientamento che vale per tutta la Chiesa e per le Chiese locali in ogni parte del mondo. Ma finora, in Italia, la Chiesa va avanti col tran-tran tradizionale di scarsa apertura e dialogo con chi la pensa diversamente in campo religioso. I credenti e praticanti della nostra Italia debbono diventare missionari, nel senso di sentire la responsabilità di testimoniare la propria fede e avere il coraggio di dire una parola di fede, quando è necessario, nel nostro mondo secolarizzato che di Dio non parla più.
Papa Francesco è un Papa missionario, perché viene da una Chiesa fondata dai missionari, ma che è stata evangelizzata in profondità e in tutto il territorio (7 volte più esteso dell’Italia) solo dopo la II guerra mondiale, quando sono giunti migliaia di missionari e suore dall’Europa e dal Nord America, per rispondere all’appello di Pio XII che esortava a mandare personale apostolico in America Latina. Ma soprattutto Papa Francesco ha spirito missionario e ha detto più volte che vuole “una Chiesa missionaria”. I nostri vescovi italiani hanno detto e scritto molte volte che “abbiamo molto da imparare dalla Chiesa missionaria”, però sono dichiarazioni che non trovano applicazioni concrete nella pastorale ordinaria di diocesi e parrocchie.
Adesso ti arriva Papa Francesco che in modo del tutto imprevisto spiazza tutti col suo modo di agire e di parlare. Sono stato quattro volte in Argentina e ho sentito tanto parlare di lui, era già quello che è adesso, un vescovo, arcivescovo e cardinale “fuori dalle righe”, cioè proiettato verso “le periferie dell’umanità”, cioè gli ultimi, i più poveri e quelli che non hanno fede o l’hanno persa. Eppure i 115 cardinali elettori (età media sopra i 75 anni) l’hanno votato a grande maggioranza. Anche questo penso sia uno di quei colpi da maestro che lo Spirito Santo usa. Papa Francesco sta portando con la sua persona tutte quelle novità “missionarie” che nella missione alle genti sono normalmente vissute nel primo annunzio ai non cristiani. E’ un Papa provvidenziale, che ci voleva, non c’è nessuna rottura con gli altri Papi prima di lui, ma la sua parola e i suoi gesti attualizzano lo “spirito missionario” di cui tutti noi abbiamo bisogno.
Io dico sempre che non c’è alcuna rottura fra Francesco, Benedetto, Giovanni Paolo I e II, Paolo VI, ecc., ma Francesco porta un metodo nuovo di annunzio e testimonianza del Vangelo, il metodo missionario, che riguarda tutti noi battezzati, perché viene da una Chiesa fondata dai missionari, dove l’evangelizzazione è praticamente iniziata circa un secolo fa, non duemila anni fa come da noi!
Nel nostro mondo post-cristiano dove, mi dicono parroci e viceparroci, che circa la metà dei giovani non sanno più nemmeno il Padre Nostro e l’Ave Maria, Papa Francesco arriva come un soffio dello Spirito Santo come leggiamo negli Atti degli Apostoli e porta la Chiesa a livello della gente comune, dichiara che la Chiesa è la casa di tutti, che non esclude nessuno, che la Chiesa non vuole convertire nessuno (infatti èp lo Spirito che converte, la Chiesa annunzia, propone), che il Padre è misericordioso e perdona tutti, parla a braccio e provoca gli ascoltatori, dice che vuole “una Chiesa povera per i poveri”, spariglia le carte e conquista i cuori. Insomma a me pare che sia all’inizio di un cammino che cambierà il volto della Chiesa, rendendola davvero casa di tutti e per tutti. Non sappiamo come, non sappiamo dove va a finire, non sappiamo niente. Noi ci fidiamo dello Spirito Santo.
Lo Spirito Santo ha preso Jorge Mario Bergoglio “dalla fine del mondo” e l’ha mandato nelle nostre antiche Chiese d’Europa quasi come una sfida al nostro modo di concepire la parrocchia, la pastorale e la vita cristiana. Papa Francesco è davvero provvidenziale. ho avuto grandi esperienze missionarie in ogni parte del mondo e ho toccato con mano quanto le vie di Dio sono diverse dalle nostre! A noi credenti spetta pregare, dare buon esempio, seguire con amore Papa Francesco e fidarci dello Spirito Santo. Certamente anche facendo le nostre osservazioni, ma senza accanimento critico, senza dividere il “Corpo mistico di Cristo”, senza diminuire l’ondata benefica di Papa Francesco che sta seminando anche nel mondo non cristiano una generale simpatia per Cristo e i semi del Vangelo che umanizza popoli e culture.
Papa Francesco è il vento nuovo dello Spirito che soffia forte, perché viene da Chiese giovani che noi visitiamo ma non comprendiamo. Ad esempio, quando Francesco parla di una “Chiesa povera tra i poveri”, noi pensiamo ai nostri poveri, lui pensa a quelli del suo mondo: l’Argentina (estesa sette volte l’Italia con 40 milioni di abitanti) ha un Pil medio pro-capite di 11.000 dollari, l’Italia 37.000. In Africa e Asia, le differenze con noi diventano abissali. Quando parlo alla gente, dico sempre che noi siamo i privilegiati dell’umanità, perché abbiamo ricevuto il dono della fede e siamo nati in Italia dopo duemila anni di cristianesimo! Gran parte dell’umanità vive ancora nell’Antico Testamento, come il popolo ebraico prima di conoscere Gesù!
1. P. Gheddo, “Prima del sole, L’avventura missionaria di padre Clemente Vismara”, Emi 1998 (II ediz.), pagg. 113-117.
2. Gheddo P., “Beda Griffiths, Un guru cristiano in India”, “Mondo e Missione”, aprile 1978, pagg. 231-253.
3 Si vedano i testi preparatori all’Assemblea generale della Cei in Vaticano del maggio 2007 sul tema: “La missione alle genti là e qui da noi”, alla quale sono stato invitato come “perito” del mondo missionario.
4 G. Butturini, “Le missioni cattoliche in Cina tra le due guerre mondiali”, Emi 1998, pagg.334, con il testo di padre Manna, con note e commenti dello storico delle missioni prof. Giuseppe Butturini.
Padre Gheddo su Radio Maria (2013)
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