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Nel 1983 ho rivisto Clemente Vismara in Birmania: aveva 86 anni e come sapete è morto nel 1988 a 91. Sono stato con lui cinque giorni, abbiamo viaggiato assieme decine di volte: era entusiasta della Birmania, del suo popolo akhà, dei suoi bambini, dei suoi cristiani, del povero cibo e della sola acqua come bevanda, della vita che faceva. Si riteneva l’uomo più fortunato del mondo e non cessava di ringraziare Dio per la vocazione missionaria. Un uomo che, a 86 anni ripeto, dava serenità, gioia ed entusiasmo a tutti. Non era certamente un illuso, anzi molto intelligente e furbo nelle cose della vita; vedeva e soffriva le miserie e le malattie, le guerre e i briganti da strada, la fame e la sete, la dittatura oppressiva, la mancanza di molte cose necessarie: a 86 anni aveva il medico e l’ospedale più vicini a Kengtung, distante 120 chilometri, cioè due giorni di viaggio! Non gli mancavano le prove, le sofferenze fisiche, le incomprensioni, i fallimenti; viveva isolato fra popolazioni primitive con lingue difficili e mentalità molto diverse dalla sua. Eppure non si era lasciato indurire dalle durezze della vita: era pieno di gioia e di speranza, entusiasta di tutto quel che faceva.
Nel maggio 2006 ho tenuto a Ducenta (Caserta) una conferenza di presentazione del libro “Clemente Vismara, il santo dei bambini” (EMI 2004, pagg. 158, Euro 10,00. Non l’avete ancora letto? Chiedetelo alla redazione del nostro bollettino, non si capisce Clemente se non si leggono i suoi scritti sui bambini). Ho rilevato quel che colpiva di più nella sua vita: l’entusiasmo per tutto quel che faceva. Un signore ha chiesto: “Ammiro molto padre Clemente, ma nel nostro mondo è molto difficile mantenere questa sua gioia e speranza. Mi spieghi come faceva Clemente ad avere uno spirito così giovanile”.
Ho risposto: era entusiasta anzitutto della fede. Anche noi, cari amici, abbiamo, grazie a Dio, la fede, ma forse la viviamo come stanca abitudine, come un peso da portare e ci lascia freddi e soli con le nostre difficoltà e sofferenze. Vismara era innamorato di Gesù e della Madonna, sempre contento non perché le cose gli andassero bene, ma perché viveva in ogni momento alla presenza di Dio, vedeva in ogni persona il Signore Gesù, prendeva tutto dalle mani di Dio. Non era certamente un uomo diverso da noi, né più intelligente, né più istruito, né più forte di noi. Semplicemente pregava di più e chiedeva a Dio la grazia di fare la sua volontà perché sapeva che nell’accettazione della volontà di Dio sta la nostra gioia e la nostra pace e, naturalmente, il coraggio e l’entusiasmo col quale affrontiamo la vita.
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Una volta Clemente incontra per strada i banditi che portano via tutto a lui e alle persone che viaggiano con lui. Scrive in una lettera: “Poveretti, forse avevano fame anche loro! Debbo dire che ci hanno trattato bene”. Capite? Lo rapinano e quasi li ringrazia perché l’hanno “trattato bene”! Eppure, se ci pensiamo, se si fosse arrabbiato, se avesse imprecato e invocato vendetta, cosa sarebbe cambiato? Magari poi non dormiva di notte. Invece lui dormiva anche dopo disavventure molto peggiori di questa. Un’altra volta lo derubano mi pare di un giaccone militare portato dall’Italia, che metteva sempre quando faceva freddo. La polizia trova un uomo con quel giaccone, l’arresta e lo porta al padre dicendogli: “Ecco il ladro, lo gettiamo in prigione”. Clemente vede che è un poveraccio e replica: “No, lasciatelo libero, quel giaccone glie l’ho regalato io”. E lo tiene in casa dandogli lui da mangiare e un lavoro nella sua grande missione.
Nel volumetto “Il santo dei bambini”, i 45 racconti di Clemente su orfani e bambini richiamano spesso, con i fatti, la norma di San Giovanni Bosco: “Non si può educare se non si ama”. Clemente educava perché amava, anche i bambini più discoli, anche quelli che lo derubavano, non escludeva nessuno. Amava “senza la pretesa di essere amato”. Un testimone al suo processo di beatificazione, Francesco Aiko, catechista che è stato trent’anni con Vismara e Mongping, ha dato questa testimonianza giurata: “Padre Vismara era un uomo veramente buono, non faceva preferenze per nessuno, per lui non c’erano ricchi o poveri, ma trattava tutti allo stesso modo. Sapeva fare una carità intelligente, perché chiedeva sempre qualche soldo per educare al valore delle cose, ma a chi era veramente povero e impossibilitato anche a quel piccolo segno di rinunzia, dava senza chiedere nulla e questi riceveva tutto quello di cui aveva bisogno. Accoglieva tutti senza rimandare mai nessuno fossero anche musulmani, indù o buddhisti”.
Capite perché era sempre sereno, entusiasta ed era definito dalla gente “il prete che sorride sempre”? Perché non metteva al centro se stesso, ma l’altro, il fratello, tutti i frateli e le sorelle nei quali vedeva Gesù Cristo.
Padre Gheddo sul Bollettino di Clemente (2006)
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