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Nel settembre 1989 a Milano ricevo una telefonata: “Sono il segretario di Giovanni Paolo II, il Papa la invita a un incontro con lui e a pranzo, vuol sentire il suo parere su una enciclica missionaria in preparazione». La telefonata mi sembra improbabile, penso che sia uno scherzo. Invece è vero. Poi ricevo vari schemi per l’enciclica progettata. Il 3 ottobre presento al Papa un promemoria scritto, nell’incontro al quale partecipano due cardinali, due vescovi, due docenti universitari, il segretario del Papa e l’amico padre Marcello Zago. Dalle 11 all’una si discute dell’enciclica: da più di due anni la commissione preparatoria aveva consultato conferenze episcopali, facoltà teologiche, istituti missionari.
Il Papa pone molte domande, il dibattito è vivace, partecipo attivamente ma continuo a chiedermi: chissà perchè il Papa ha invitato anche me! Sono un semplice missionario-giornalista, niente di più e niente di meno. In quei giorni Giovanni Paolo II doveva andare in Corea e mi faceva domande: «Tu sei già stato in Corea? Che città hai visitato? Cosa hai visto? Cosa pensi delle molte conversioni in quella Chiesa?…». Rispondevo incoraggiato da tanta confidenza, ma continuavo a cascare dalle nuvole e pregavo il buon Dio di farmi tornare alla realtà. Poi il Papa chiede notizie della causa di canonizzazione di Marcello Candia, parlando dell’incontro che aveva avuto con lui l’8 luglio 1980 nel lebbrosario di Marituba (Amazzonia brasiliana). Lo informo che il processo diocesano sarebbe presto iniziato a Milano e il Papa commenta: «Fate in fretta, fate in fretta!».
All’una andiamo in cappella e poi a pranzo nell’appartamento privato del Papa. Alcuni si erano già defilati, eravamo rimasti in sei ed ero seduto al suo fianco. Alla fine del pranzo, Giovanni Paolo II dice: «Allora, chi mi scrive questa enciclica?». Un lampo: adesso capisco perchè sono qui! «Voglio un’enciclica di stile giornalistico, scritta soprattutto per le giovani Chiese e che si faccia leggere anche dai giovani. Dicono che io scrivo difficile…». Poi rivolto a me aggiunge: «Ma tu sei giornalista e scrivi facile e bene. Ti leggo su Avvenire e su Mondo e Missione… (mandavamo la rivista al cardinal Wojtyla quando era in Polonia, come a molti altri vescovi). Ti incarico di preparare il testo della Redemptoris Missio, ma i tempi sono stretti”. Poi la botta finale: “Consegnami la prima stesura entro l’8 dicembre prossimo».
Due mesi di tempo, con tutti gli impegni che già avevo? Impossibile! Mi faccio coraggio e rispondo: «Santità, farò il possibile, ma ad ottobre ho già tanti impegni per la giornata missionaria mondiale». Mi guarda severo e dice: «Ma ricordati, che il Papa viene prima di tutto!». Così ho iniziato a lavorare 12-13 ore al giorno (non esagero) alla macchina da scrivere, nella casa degli Oblati di Maria Immacolata, di cui padre Zago era superiore generale, vicino al Vaticano. Per due mesi non leggevo i giornali né vedevo il telegiornale per non distrarmi. Un lavoro appassionante anche se faticoso, una corsa contro il tempo interrotta. Quando finivo un capitolo, Zago lo leggeva, faceva alcune correzioni e poi lo portava in Segreteria di Stato e al Papa; alcuni giorni dopo ricevevo le osservazioni del Papa, scritte con la biro: qui aggiungi questo, spiega meglio il concetto, cita questo passo del Vangelo… Due volte trovo scritto: «Si legge bene, va avanti così». E ancora: «Bravo, è scritto veramente bene». Ci mettevo tanta passione e impegno che il lavoro non mi pesava affatto. Zago a volte mi diceva: basta, oggi pomeriggio vieni fuori con me, andiamo a fare una passeggiata… Andavo volentieri con lui, grande amico da quando eravamo giovani. Il lavoro era così tanto, che abbiamo quasi subito convocato padre Domenico Colombo del Pime, specialista di ecumenismo e di dialogo con le religioni non cristiane perchè ci aiutasse (ha dato un notevole contributo) e ci consultavamo col card. Joseph Tomko, prefetto di Propaganda Fide.
Consegnata al Papa la prima stesura dell’enciclica il 7 dicembre 1989, sono stato richiamato a Roma un mese per la seconda (marzo 1990) e una ventina di giorni per la terza (luglio 1990), in base alle osservazioni venute da vescovi e teologi di tutto il mondo. L’enciclica porta la data del 7 dicembre 1990, XXV° anniversario del decreto Ad Gentes, ma è stata presentata il 22 gennaio 1991, per il tempo richiesto dalle traduzioni e stampa in varie lingue. E’ stata giudicata l’enciclica più rappresentativa del pontificato di Giovanni Paolo II, ne hanno lodato lo stile semplice e immediato. Il card. Godfried Daneels di Bruxelles ha scritto che è «il programma di lavoro della Chiesa per il prossimo millennio».
Il Papa ha voluto fare un’enciclica sul primo annunzio del Vangelo ai non cristiani. Questo indica il forte spirito missionario di Giovanni Paolo II, che mi ha impressionato nei miei incontri con lui. Fra i 16 documenti del Vaticano II, solo il decreto missionario è stato commemorato e aggiornato da Giovanni Paolo II con un’enciclica, mentre altri avrebbero preferito un documento di minor importanza. Un’enciclica per le missioni, dicevano, è troppo: tutta la Chiesa è missionaria e tutti i popoli hanno bisogno di missione! Il Papa ha scelto l’enciclica, nella quale ha scritto frasi significative: «Proprio il contatto diretto con i popoli che ignorano Cristo, mi ha convinto ancor più dell’urgenza di tale attività (missionaria)» (n. 1); e aggiunge diverse volte con varie espressioni questi concetti: «Vogliamo nuovamente confermare che il mandato di evangelizzare tutte le genti costituisce la missione essenziale della Chiesa» (n. 14); «La missione ad gentes… (è) un’attività primaria della Chiesa, essenziale e mai conclusa» (n. 31); «L’attività missionaria rappresenta ancor oggi la massima sfida per la Chiesa… La missione alle genti è ancora agli inizi» (n. 40). Geniale e chiarificatrice la distinzione tra “la missione alle genti” (verso i non cristiani), ”l’attività pastorale” (verso le comunità cristiane), la “nuova evangelizzazione specie nei paesi di antica cristianità… dove interi interi gruppi di battezzati hanno perso il senso vivo della fede o addirittura non si sentono più come membri della Chiesa, conducendo un’esistenza lontana da Cristo e dal suo Vangelo” (n. 33).
Il mio lavoro è stato modesto, ma esaltante: trascrivere i concetti e le indicazioni del Papa in uno stile facile e giornalistico. Ad esempio sono rimasti alcuni slogan spesso citati, che sono piaciuti al Papa: “La fede si rafforza donandola» (n. 2); «La missione è un problema di fede” (n. 11); “La missione alle genti è ancora agli inizi” (n. 40); “Dio sta preparando una nuova primavera cristiana” (n. 86); “Il vero missionario è il santo” (n. 90).
Un amico mi ha chiesto: scrivendo l’enciclica, non hai messo dentro qualcosa che volevi metterci? Una sola cosa: la citazione di un libro di padre Paolo Manna, allora ancora lontano dalla beatificazione (nota 169). L’enciclica è di Giovanni Paolo II e di nessun altro; ma indubbiamente Marcello Zago, Domenico Colombo e io un certo influsso l’abbiamo avuto (come del resto tutti gli altri consultati). Sono rimasto ammirato del lavoro di 4-5 anni che prepara un’enciclica, che è opera del Papa perchè decide lui quel che vuol dire. Però c’è anche la mediazione di molti che leggono le varie stesure. Ho esaminato il materiale giunto in risposta agli interrogativi del Papa e ai testi già preparati. Materiale ricco e interessante, che Giovanni Paolo II ha valutato e giudicato meritevole o no di passare nell’enciclica. E’ un fatto notevole, di cui credo pochi hanno notizia: l’organizzazione creata per i documenti pontifici attraverso la Segreteria di Stato e le Nunziature, è incredibilmente vasta, attenta e precisa.
Quale compenso per il mio lavoro? Quando ho celebrato i 50 anni di Messa (2003), mi è arrivata la benedizione del Papa, firmata personalmente da lui!
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