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Galli della Loggia afferma (Corriere della Sera, 18 giugno 2006) che il catto-comunismo è morto. Personalmente non ne sono convinto. Ho visto nascere e affermarsi questo surrogato della fede cristiana e ricordo molto bene quanto la Chiesa ha sofferto in quegli anni. Paolo VI è stato il Papa martire del secolo XX per quella ventata di follia ideologica che lo contestava aspramente, quando, per citare un fatto simbolico, il Papa fu costretto a ritirare l’assistente ecclesiastico da associazioni nate nell’ambito cattolico e approdate nell’adesione a ideologie e modelli di società condannati dalla Chiesa. Dopo il crollo del muro di Berlino (1989) e di quasi tutti i 31 paesi a regime comunista nel mondo, è scomparso il sogno di una “rivoluzione mondiale”, sono sfioriti i miti della Cina di Mao, la Cuba di Fidel Castro, il Vietnam di Ho Chi Minh e le molte “guerriglie di liberazione”. In questo senso il catto-comunismo è morto, ma temo che la mentalità profonda generata da quella follia ideologica è ancora ben viva in alcune stampe e gruppi e associazioni di radice cristiana.
Per “cattocomunismo” non
s’intende quello storico di Franco Rodano e Claudio Napoleoni, nato durante la
Resistenza e nel dopoguerra confluito nel PCI con il “Partito della sinistra
cristiana”; ma quello popolare e movimentista, nato dal dissenso cattolico nel
“sessantotto” del post-Concilio e poi in Cile nel 1972 con “i cristiani
per il socialismo”, quando era comune sentir dire in ambienti cattolici che
“il socialismo è l’unica speranza dei poveri”. Vedo nel
“catto-comunismo” tre elementi che penso sussistano tutt’oggi, ripeto,
come mentalità di fondo.
1) Anzitutto
il complesso d’inferiorità dei cattolici per quanto riguarda la capacità di
leggere la società e la storia: si pensava che, in campo sociale e politico, i
comunisti avessero dei criteri di giudizio più corretti, storicamente più
efficaci. A quel tempo si leggeva sulla stampa cattolica (anche di studio) che
“la Chiesa non ha elementi per dare giudizi sulle realtà
politico-economico-sociale del nostro tempo… Bisogna ricorrere all’analisi
scientifica della società condotta da Marx e dai suoi discendenti”. Era
politicamente corretto non parlare della “Dottrina sociale della Chiesa”;
Paolo VI aveva usato questa terminologia nel Sinodo episcopale sulla giustizia
nel mondo nell’ottobre 1971, ma in seguito preferì usare altre parole per non
essere definito reazionario. Chi ha rilanciato con forza la “Dottrina sociale
della Chiesa” è stato Giovanni Paolo II nel suo primo viaggio internazionale
a Puebla (Messico, gennaio 1979), parlando dei problemi sociali dell’America
Latina.
2)
L’ideologia cattocomunista diceva che per una buona convivenza civile nella
società italiana dominata da una “cultura” sempre meno cristiana, il
primato era da dare alla dimensione orizzontale della vita, ai problemi sociali;
il che poi portava con sé il primato dello stato, del “servizio pubblico”,
con la demonizzazione di scuole cattoliche e ospedali cattolici (definiti “per
i ricchi”). Era già chiaro a quel tempo che per “servire i poveri” la
statalizzazione di tutti i servizi e le attività sociali ed economiche non solo
non è positiva, ma diventa facilmente e quasi inevitabilmente negativa dei
poveri stessi; anche qui, è un giudizio che non tiene conto dei fattori
spirituali e culturali, ma solo di quelli materiali, economici, politici. Quando
il cattocomunismo si affermava, i modelli esaltati di liberazione dei poveri
erano appunto la Cina di Mao, il Vietnam di Ho Chi Minh, il Mozambico di Samora
Machel e via dicendo; insomma i paesi a regime comunista, che hanno schiavizzato
i loro popoli, peggiorando le loro condizioni di vita. Ma poteva venire qualcosa
di buono da ideologie e regimi che combattevano Dio e perseguitavano la Chiesa?
3) Il terzo aspetto negativo
del cattocomunismo, conseguenza di quanto sopra, è secondo me una diminuzione
dell’affetto per la Chiesa cattolica e, in ultima analisi, un appannamento
della fede e dell’appartenenza alla comunità di Cristo che ci trasmette la
fede, il dono più grande che Dio ci ha fatto dopo la vita. Certamente solo Dio
vede la fede nel cuore e nei pensieri di ciascuno, ma noi tutti sperimentiamo
che la fede non è solo un fatto di intelletto, ma anche di cuore, di passione;
e questo vale anche per la preghiera, cibo indispensabile e quotidiano per
mantenere la fede: si prega bene quando ci si sente a casa propria, quando tutta
la persona è contenta e ringrazia Dio di averle dato la fede e la Chiesa. Se
invece viene meno per vari motivi l’amore, la passione e la gioia di
appartenere alla Chiesa, tutto il resto è in pericolo.
Dico questo non per un
preconcetto aprioristico, ma per concrete esperienze fatte in quegli anni. Il
comunismo non era (e non è, per quel che ancora sussiste) un semplice partito e
progetto politico, ma un’ideologia sostitutiva della religione e tutti i suoi
principi e processi storici sono stati condannati più e più volte dalla Chiesa
universale e dalle Chiese locali che l’hanno sperimentato. Possibile che la
Chiesa abbia sempre sbagliato nel giudicare un movimento durato più d’un
secolo? Personalmente ho conosciuto sacerdoti e laici credenti che negli anni
settanta erano conquistati da questa ideologia con barbagli messianici,
religiosi. Erano talmente convinti del pensiero e delle soluzioni che erano
quelle del comunismo e dei partiti comunisti, da allontanarsi a poco a poco
dalla Chiesa, da cui finivano per trovarsi fuori quasi senza volerlo. Ma tutta
la loro vita era cambiata, mentalità, giudizi, compagnie, discorsi, letture.
Debbo anche dire che a volte questi amici erano i più generosi, ricchi di
umanità. Paolo VI diceva, nel discorso della Pasqua 1970 (mi pare) che “i più
grandi valori umani senza Cristo diventano facilmente disumani”. Frase
fortissima su cui bisognerebbe riflettere.
La domanda che dobbiamo farci
è questa: cosa verrà dopo il catto-comunismo? Galli della Loggia prevede che
il movimento finisca in un’ideologia libertaria, radicale e consumista,
dominante anche nella sinistra italiana. Come credente e missionario prego e
spero che ci sia invece uno sbocco positivo di un’esperienza che aveva
certamente una grande carica morale ed ideale, come tutto il “sessantotto”
del resto, quando personalmente facevo conferenze intitolate: “Vogliamo tutti
un mondo nuovo, ma a partire da Cristo”; il catto-comunismo partiva invece
dall’”analisi scientifica della società”, che era quella
marxista-leninista-maoista. Credo si debba tornare all’unità d’intenti e di
azione del movimento cattolico italiano e alla “missione alle genti” secondo
il Vaticano II e la “Evangelii Nuntiandi” di Paolo VI (1975) e la
“Redemptoris Missio” di Giovanni Paolo II (1990).
In altre parole, specialmente
oggi, nel tempo della globalizzazione e della sfida dell’islam ai cristiani,
per noi missionari la priorità dev’essere molto chiara e condivisa: tornare
ad annunziare Cristo. Ad esempio, se invece di una lettura economicista e
ideologica della povertà del terzo mondo a cui non crede più nessuno (“Loro
sono poveri perché noi siamo ricchi”), ci impegnassimo tutti assieme a
trasmettere l’esperienza delle giovani Chiese, che tutti i popoli e le culture
hanno anzitutto bisogno di Gesù Cristo e che i missionari sono inviati ai
popoli soprattutto per questo scopo? Madre Teresa diceva: “La più grande
disgrazia dell’India è di non conoscere Gesù Cristo”. La lotta contro la
fame nel mondo ha bisogno di ricuperare questa verità, necessaria anche in
Italia per sollevarci dal nostro disumano modello di sviluppo e ridare al nostro
popolo l’unico orizzonte autentico di speranza in un futuro migliore.
Padre Gheddo su Il Timone (2006)
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