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Nel 1973, a Tu Duc in Vietnam, il salesiano don Mario Acquistapace mi diceva: «Ho lavorato come prete in Italia, ma ho imparato a fare il parroco in Vietnam, perché qui c’è una Chiesa fondata sulle associazioni e i movimenti laicali, nati nei secoli delle persecuzioni. Il prete può dedicare il suo tempo soprattutto alla preghiera, alla cura delle anime, ai sacramenti, agli studi, alla direzione spirituale, alla formazione dei catechisti…». Forse don Mario esagerava, si può fare bene il prete anche in Italia. Ma le sue parole ogni tanto mi ritornano alla mente.

Scrivevo il mese scorso su queste colonne che «è bello fare il prete». Mi chiedo spesso, per verificare la mia vita: cosa vuol dire fare il prete? Sostanzialmente questo: innamorarsi di Gesù Cristo e portare gli uomini a Cristo e alla Chiesa, che continua Cristo nella storia. Il prete evangelizza, cioè annunzia agli uomini la «buona notizia» che il Salvatore è nato per tutti, anche per ciascuno di noi: è questa convinzione profonda che deve comunicare. Non si tratta anzitutto di una dottrina o di un’etica da insegnare, ma dell’annunzio che Dio si è fatto uomo per salvarci e vuole entrare in comunione con ciascuno di noi per cambiare la nostra vita e farci passare dal peccato alla grazia, dalla tristezza alla gioia, dal pessimismo all’ottimismo, dalla paura della morte alla certezza della vita eterna. Ecco l’esperienza di vita che ciascun prete deve vivere e poi testimoniare e trasmettere; questa «l’esperienza» che dà gioia e rende credibile chi parla di Gesù proponendolo come unica soluzione ai problemi della vita.

La «buona notizia» di Cristo porta l’uomo da un piano materiale ad un piano spirituale, soprannaturale. Cammino non facile, il mondo d’oggi ci fa guardare alla terra più che al Cielo. Il nostro tempo è caratterizzato da una straordinaria ricchezza di mezzi, di strumenti, di scoperte tecnico-scientifiche (pensate alle strabilianti realizzazioni dell’informatica!), ma ci sta facendo perdere (o annebbiare) il senso della vita e della morte. Sono stato amico per lunghi anni del principe dei giornalisti italiani, Indro Montanelli, che mi chiamò a collaborare al suo “Il Giornale”. Quando compì gli ottant’anni (22 aprile 1989) mi disse: «Tra me e te il fortunato sei tu perché hai ricevuto la fede. Tu sai perché vivi e sei sempre sereno, io ancora non lo so e mi capita di essere depresso. Sono arrivato a ottant’anni e vedo che tutto quello di grande e di bello che ho fatto scompare: tutti i premi ricevuti, la fama, la gloria, i soldi, le gioie e soddisfazioni scompaiono, sono dimenticati. Quando non prendo sonno mi chiedo: a che serve la vita? Perché sono vissuto?».

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Il grande laico aveva nostalgia della fede. Noi che la fede l’abbiamo ricevuta in dono, che uso ne facciamo? Anche noi preti abbiamo a volte la tentazione di fermarci agli aspetti terreni della vita e predicare il Vangelo della solidarietà, della pace, del dialogo, della giustizia, della promozione umana, dell’ecologia, ecc. Ma è possibile tutto questo senza riferirlo a Cristo? È possibile presentare il messaggio senza il messaggero? I «valori» umanizzanti del Vangelo, senza «l’Uomo nuovo» che è Cristo, nel quale si sono incarnati tutti i valori che vengono da Dio?

Perché evangelizzare vuol dire riferire tutta la vita e i problemi dell’uomo a Gesù Cristo? Perché Cristo dice a tutti: «Convertitevi e credete al Vangelo» (Marco 1, 15). Il radicale cambiamento di vita non è una proposta moralistica o un’ideologia politica e nemmeno una soluzione giuridica: è realizzare il cammino di conversione attraverso l’amore a Cristo, l’imitazione di Cristo, la preghiera e i sacramenti che la Chiesa ci propone per aiutarci. Fare il prete vuol dire anzitutto lanciare questo messaggio. Enzo Biagi ha scritto: «Per me, se è lecito dirlo, non è importante che Gesù Cristo sia Figlio di Dio: anche se i suoi genitori sono soltanto un vecchio falegname e una casalinga, nella sua umanità c’è una grandezza irraggiungibile» (L’Espresso, 22 aprile 2004). Caro Biagi, se Gesù non fosse Dio, sarebbe solo uno dei tanti profeti o saggi che la storia ci ricorda (perché «irraggiungibile» se è solo un uomo?). La sua dottrina potrebbe sopravvivere, ma lui sarebbe morto da duemila anni. Invece è vivo anche oggi e ci aiuta a «cambiare vita». Questa la differenza.

Piero Gheddo
agosto 2004

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