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FILIPPINE_(f)_1110_-_P__TentorioIl 17 ottobre 2011 alle ore 8, davanti alla chiesa di Arakan padre Fausto Tentorio è assassinato con due colpi di pistola alla testa da un uomo mascherato, fuggito su una motocicletta con un complice. Con lui sono 19 i missionari del Pime uccisi nelle missioni, tre dei quali nelle Filippine. Padre Fausto, 59 anni, era da 32 anni nell’isola di Mindanao, “il Far West delle Filippine”, che negli anni 60-90 è stata invasa da immigrati dal nord del paese.
Scoppia la “guerre delle terre” che coinvolge i tribali delle regioni montagnose e forestali. La Chiesa filippina ha sviluppato una «pastorale di educazione alla giustizia e alla pace», attraverso le Gkk, le piccole comunità di cui i missionari del Pime sono stati tra i fondatori e animatori più impegnati nella diocesi di Kidapawan. Dalle Gkk sono nati gli agenti di pastorale e i capi cristiani che hanno cambiato il volto della Chiesa locale con il loro impegno in difesa dell’uomo. Davano fastidio e venivano accusati di essere contigui ai guerriglieri maoisti. Ecco il martirio di padre Tullio Favali (11 aprile 1985), il simbolo della resistenza popolare non violenta al dittatore Marcos, che il 26 febbraio 1986 è sbalzato dal potere senza spargimento di sangue. Se si fosse fatta la Causa di beatificazione, Tullio sarebbe già Beato! Il terzo martire del Pime nelle Filippine è p. Salvatore Carzedda impegnato nel dialogo coin l’islam, ucciso il 20 maggio 1992 da un estremista islamico.
Dal 1979 Padre Tentorio lavorava con gli indigeni “manobo”. Con l’aiuto della CEI, di alcune Ong e anche di agenzie governative, aveva promosso cooperative agricole, educazione sanitaria e alfabetizzazione ed era riuscito a far riconoscere dal governo che le terre ancestrali rimaste appartengono ai tribali. Senza terre infatti, le tribù originarie dell’isola di Mindanao non possono sopravvivere. A Kidapawan il vescovo l’aveva nominato coordinatore dell’assistenza alle popolazioni Indigene. Negli ultimi tempi era anche impegnato per fermare l’industria mineraria, altro elemento di distruzione delle popolazioni indigene e del territorio.
«Padre Fausto – racconta padre Luciano Benedetti, missionario del Pime nelle Filippine – era minacciato per il lavoro che svolgeva in difesa delle terre dei “manobo”, che fanno gola, in una zona ricca di risorse minerarie. Già anni fa fu oggetto di serie minacce, da parte di un gruppo armato, ma fu protetto dalla popolazione locale».
“Non abbiamo bisogno di mitizzare la vita di padre Fausto per dare un senso alla sua morte – ha detto il vescovo Romulo de la Cruz -. Basta ricordarlo come un bravo e fedele prete che amava la sua gente e cercava di servirla nel modo migliore, anche sapendo di mettere in pericolo la propria vita. Cercava giustizia per loro quando venivano spogliati delle proprie terre ed erano minacciati da uomini con le armi. Facendo solo questo, e anche in una maniera molto umile e tranquilla, perché padre Fausto non era affatto un incendiario, ci si può fare dei nemici, che perseguitano anche il più pacifico degli uomini».
Sono andato a trovare padre Fausto ad Arakan nel 1985, viveva in una capanna dalle pareti di bambù e il tetto di lamiera. Gli dicevo: “In questa capanna ti guardano dentro e possono entrare quando vogliono”. Mi faceva vedere i bambù e i legni scheggiati nella stanza da letto dalle pallottole sparate dall’esterno. Rispondeva: “Ho dato la mia vita per Cristo e per questo popolo e sono pronto a darla di nuovo, anche se prendo tutte le misure di difesa necessarie”.
In un documento inviato ai superiori Fausto scriveva: “Riconoscente a Dio per il grande dono della vocazione missionaria, sono cosciente che essa comporta la possibilità di trovarmi coinvolto in situazioni di grave rischio per la mia salute ed incolumità personale, a causa di epidemie, rapimenti, assalti e guerre, fino all’eventualità di una morte violenta. Tutto accetto con fiducia dalle mani di Dio, e offro la mia vita per Cristo e la diffusione del suo Regno”.
Piero Gheddo
Avvenire – gennaio 2012

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