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Cari amici di Radio Maria, nel mese di maggio la Chiesa celebra la Festa della Famiglia, che diventa sempre più importante nelle nostra situazione italiana! Quante famiglie si dividono, si sfasciano e quante situazioni drammatiche lamenta la società italiana a causa di questa grave decadenza della famiglia cristiana tradizionale!
Ma questa sera non voglio ripetere quanto ormai tutti sapete, cioè cosa insegna la Chiesa sul matrimonio e l’educazione dei figli. Vi racconto invece l’esempio di una grande e bella famiglia cristiana dei nostri tempi, che ha dato al Pime un missionario eccezionale, padre Francesco Fantin morto il 12 aprile scorso a novant’anni, che merita di essere ricordato perché davvero esemplare e originale nel suo apostolato in Brasile; tra l’altro anche in una regione della frontiera brasiliana dove, quarant’anni fa, regnava ancora la cosiddetta “legge sparata” del Far West, cioè quella della pistola. La sua particolarità era di riuscire dove c’erano situazioni difficili, quasi impossibili. Lui riusciva, con l’aiuto di Dio e della sua bella personalità, a portare la pace.
La mia catechesi si svolge in tre punti:
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- Su 13 figli, quattro si consacrano a Dio.
- Parroco dei pistoleros nel Far West brasiliano.
- Come rinasce una parrocchia quasi distrutta.
I) Su 13 figli, quattro si consacrano a Dio
La famiglia Fantin ha origini contadine nel comune di Riese in Veneto, provincia di Treviso, che ha dato alla Chiesa il Papa San Pio X. Sebastiano Fantin, papà del missionario padre Francesco, nasce nel 1885 e muore nel 1981 a 96 anni! La sua famiglia era profondamente religiosa e anche sua moglie Virginia Comin (1890-1972), sposata nel 1911, viveva di fede. Questi genitori hanno lasciato ai 13 figli (quattro dei quali muoiono presto per l’epidemia della “febbre spagnola”) una preziosa eredità di fede e di vita cristiana: Narciso (1912), Ernesta (1913), Rina (1917), Emilio (1919), Francesco (1923), Gina (1925), Virginia (1928), Rita (1929) e Giuseppe (1932) .
Due figli diventano sacerdoti, don Narciso salesiano, morto nel 1999 a 87 anni, e padre Francesco missionario del Pime morto il 12 aprile 2013 in Brasile a 90 anni. Sono ancora viventi Franco sposato a Verona e le due figlie Rita salesiana, in California dal 1952 e Virginia delle Paoline di Don Alberione a Trento. Ho chiesto a suor Virginia di mandarmi qualche ricordo della sua famiglia e lei mi ha risposto con una lunga lettera, scritta in bella calligrafia e stile semplice e preciso. Poi le ho telefonato e ha precisato meglio alcuni particolari. Anche il fratello Giuseppe mi ha mandato ricordi del missionario padre Francesco. Ecco il suo racconto della vita in una famiglia che aveva in casa 22 persone negli anni trenta e quaranta del Novecento.
“Eravamo poveri ma ci volevamo bene e sempre contenti”
“Ringrazio il Signore di avermi fatto nascere in una famiglia santa. Si viveva in campagna in una grande casa con i nonni e lo zio Luigi, che aveva nove figli. I due fratelli erano contadini, coltivavano terre prese in affitto ed eravamo poveri. Nel 1946, quando la famiglia era ancora cresciuta, i due fratelli si sono divisi e Luigi ha fatto la sua famiglia in un’altra casa. Quando ero piccola in casa eravamo 22 persone, noi bambini dormivamo in sei in una stanza con due letti grandi, tre bambini in un letto e tre bambine in un altro. Altri dormivano nel solaio, che il papà e la mamma avevano messo a posto perché si potesse dormire.
“D’inverno, da ottobre a maggio, tutte le mattine, piccoli e grandi, si andava a Messa e rimaneva in casa a turno un uomo per gli animali della stalla e una donna per preparare la colazione a tutti, con latte e polenta e una patata americana con un po’ di sale a ciascuno. E poi via a scuola. Ci volevamo bene ed eravamo sempre contenti. Alla sera, tutte le sere da ottobre in avanti, si pregava assieme recitando il Rosario e le preghiere della sera nella stalla, che era l’unico salotto che avevamo. Quante volte la mamma, dopo il Rosario e le preghiere, rimaneva ancora in ginocchio a pregare per tutta la famiglia!
“La mia vocazione religiosa – continua suor Virginia – è maturata in famiglia, sostenuta dalla fede e dagli insegnamenti dei miei genitori. Quante volte la mamma, quando tornavamo da scuola, ci chiamava in camera da letto e ci esortava a fare il bene, a pregare pensando a Dio che ci vuole bene e ci ama, e poi ci faceva le sue raccomandazioni per guidarci nella vita. Papa ha fatto le due guerre mondiali e ad ogni malattia dei figli ci faceva fare delle novene alla Madonna e a Sant’Antonio. Due volte ha fatto voto che se il figlio guariva andava a piedi a Padova dal Santo. E due volte è andato a piedi e sono 40 chilometri. Quando è morto mio fratello nella guerra in Croazia, quanto ha sofferto. La mamma, vedendolo piangere, lo consolava e diceva: “Vedrai che il Signore ci aiuta e lui pregherà per noi”.
“Quando ero piccola, in casa c’era proprio miseria, eravamo in tanti, nella nostra famiglia e in quella dello zio Luigi nascevano parecchi bambini. Ma si mangiava tutti. Poi dopo le elementari, a 11 anni, noi bambini si andava tutti a lavorare in campagna, a togliere i sassi dai campi, seminare i grani di granoturco, raccogliere i frutti, l’uva, le pesche e altro. In estate, quando faceva caldo davvero, noi bambini ci alzavamo alle due di notte., Veniva il papà a svegliarci: “Presto, alzatevi, le mucche sono già pronte, svelti, bisogna andare in campagna fin che fa fresco!”. Si lavorava fino alle 7,30, quando veniva una donna di casa a portarci la colazione e poi si andava a casa perché faceva troppo caldo. Gli uomini rimanevano fino alle 10,30-11, poi venivano a casa anche loro.
“A pranzo si mangiava la minestra con verdura o pasta oppure la pasta asciutta e poi c’era l’insalata o altra verdura con l’uovo e qualche volta carne di pollo o di coniglio, con una patata americana e un pizzico di sale ciascuno. Il pane e la carne rossa si vedevano solo di domenica, altrimenti si mangiava polenta. Alla sera era ancora polenta e qualcosa d’altro. Noi bambini avevamo ciascuno il suo gruppo di conigli da nutrire e curare, andavamo a prendere l’erba per loro, pulivamo il loro recinto e portavamo da bere. Poi veniva il papà e comperava un coniglio o due da mangiare. Cioè ci dava una piccola mancia per ogni coniglio e tenevamo quei soldi guadagnati con fatica. I genitori ci insegnavano a risparmiare.
“Papà era contento e ci diceva: “Vedi quanti soldi hai risparmiato con il tuo lavoro?”. Quando sono andata ad Alba (Asti), nella Casa madre delle Paoline per farmi suora, ho comperato un paio di scarpe e un grembiule e mi sono pagata il viaggio in treno con 100 lire risparmiate dalle mance del papà per i miei conigli. Eravamo in tanti e si giocava assieme e si stava allegri anche nella miseria. Ci volevamo bene e ci aiutavamo a vicenda”.
Chiedo a suor Virginia se d’estate andavano a Messa tutti i giorni e lei risponde: “No, d’estate si andava in campagna a lavorare e si pregava da soli. Però si diceva assieme il Rosario con le preghiere alla sera, mentre a mezzogiorno e a cena il papà recitava la preghiera e poi l’Angelus Domini per salutare la Madonna, attorno al tavolo. Alla domenica sempre la Messa e d’inverno c’era la Messa tutti i giorni”.
Gli ultimi ricordi di papà Sebastiano
“La nostra famiglia è sempre rimasta unita. Emilio è morto in Croazia durante la II guerra mondiale, sono rimasti tre maschi (due preti e uno sposato) e cinque sorelle, due suore e tre sposate. Sono nate tante altre famiglie, una mia sorella che ha avuto cinque figli è andata in Australia. Non so quanti nipoti ci sono oggi nel mondo, credo una ventina! Il Signore ci ha sempre benedetti. Mamma Virginia è morta nel 1972 e papà Sebastiano nel 1981quando aveva 96 anni (mancavano alcuni mesi ai 97). Nostro padre ci ha lasciato un bel testamento scritto di suo pugno in cui si legge:
“Cari miei figli sparsi in tutto il mondo, ormai sento che vado perdendo sempre più le forze. non so se avrò la grazia di vedervi ancora tutti prima di morire. Sia fatta la volontà di Dio. Vi raccomando di fare sempre bene il vostro dovere. Io vi ricordo sempre nelle mie preghiere e vi tengo tutti nel mio cuore come una cosa sacra. Tutti i giorni, se sto bene, ascolto due Sante Messe, una al mattino e una alla sera¸ per tutti voi e faccio passare sei o sette volte la corona del Rosario durante il giorno. Alla sera vi dico una Salve Regina, una per uno, sia per i figli consacrati a Dio, sia per quelli sposati, perchè tutti possiate fare bene il vostro dovere. Vi raccomando di vivere sempre con il santo timore di Dio perché solo Dio ci aiuta e questo lo posso dire perchè ne ho passate tante nella mia vita, però il Signore mi ha sempre aiutato. Ora sono contento di aver sempre agito bene. Vogliatevi bene tutti, perdonatevi se c’è qualcosa che non va. Noi due, con vostra mamma, abbiamo superato tante difficoltà e ci siamo sempre voluti bene per questo. Quando leggerete questa mia lettera io sarò morto, ma dal Paradiso, dove spero di andare, vi sarò presente e vi aiuterò…. Vi saluto tutti e prego per voi, il vostro padre Fantin Sebastiano”.
Leggendomi per telefono questo Testamento, suor Virginia si commuove ricordando il papà e la mamma. Le chiedo notizie di com’era il missionario del Pime padre Francesco, che era nato nel 1923, cinque anni prima di lei. Virginia ricorda: “Da piccolo è sempre stato fragile. Aveva l’eczema agli occhi, poi nel 1947, prima di diventare sacerdote, si è ammalato di tubercolosi e allora, con le novene a San Pio X, abbiamo ottenuto la sua guarigione. Quando ha celebrato la prima Messa nel nostro paese, il fratello salesiano, nato 11 anni prima di lui, ha detto nella predica: “Me lo ricordo bene il nostro fratello Francesco. Quand’era piccola, quante sofferenze e preghiere di mamma e papà e di noi tutti abbiamo fatto perché guarisse da vari mali. Una volta, andando a scuola, è caduto in un fosso. Poteva morire ma un uomo l’ha salvato perchè lui doveva portare il Vangelo a chi ancora non lo conosce. Poi stava diventando cieco, ma Dio l’ha salvato perchè deve portare la Parola di Dio a tanti che non l’hanno ancora ricevuta”.
Fin qui suor Virginia. Francesco Fantin, nel 1936 dopo le elementari è entrato nel Pime a Treviso ed è stato ordinato sacerdote a Milano dal beato card. Ildefonso Schuster il 25 giugno 1950 a 27 anni, avendo perso alcuni anni di studio per varie malattie. Rimane in Italia sei anni per la prima esperienza pastorale, nel seminario minore del Pime a Treviso come insegnante e poi animatore vocazionale a Cervignano nel Friuli. Nell’ottobre 1956 parte per il Brasile Sud e qui, dopo lo studio della lingua, manifesta le sue qualità.
Un’esperienza drammatica con i ladri di strada
Il Pime è stato fondato da mons. Angelo Ramazzotti nel 1850 e per quasi un secolo e mezzo ha svolto la sua missione prima in due isole dell’Oceania (l’attuale Papua Nuova Guinea) e poi in vari paesi dell’Asia, dove ci mandava Propaganda Fide. Nel 1946, dopo la II guerra mondiale, quando le missioni dell’Oriente erano chiuse anzi rimandavano in Italia molti missionari), il nostro Istituto è andato in Brasile perché Pio XII esortava gli istituti religiosi e missionari a mandare preti e suore in America Latina e nel 1946 il Pime aveva in Italia circa 130 giovani missionari, preti e fratelli, che non erano partiti per le missioni a causa della II guerra, l’Asia era chiusa mondiale ed essi erano in maggioranza a servizio delle loro diocesi.
In poco più di sessant’anni, il Pime ha mandato in Brasile circa 400 sacerdoti e fratelli missionari, che hanno fondato due diocesi in Amazzonia, Macapà e Parintins, e una nel Mato Grosso (Jardim) ed è presente anche a Belem e Manaos (dove ha fondato 18 parrocchie) e nel Brasile del Sud in numerose diocesi e parrocchie, specialmente nelle regioni interne non ancora evangelizzate degli stati di San Paolo, Paranà e Santa Caterina, passandole poi al clero diocesano. Il Brasile è un paese sterminato, esteso circa 26 volte l’Italia ed è stato veramente evangelizzato nel 1900, con l’arrivo dall’Europa e Nord America di molti religiosi, missionari, preti fidei donum e suore. Nel 1900 le diocesi in Brasile erano 62, oggi sono 265.
Padre Francesco Fantin è partito per il Brasile nel 1956 e nel 1993, ritornando a San Paolo da una vacanza in Italia ha avuto un’esperienza drammatica. Ecco cosa scriveva in una lettera al fratello Franco:
“Arrivo alle 6 del mattino all’aeroporto di San Paolo. Ho 4 bagagli, decido di prendere un taxi per andare dai missionari. Sulla via è molto scuro: vedo 2 taxi fermi, ma senza taxista. Un signore moreno di 35-40 anni chiede se ho bisogno di auto e subito lui e un altro mi prendono i bagagli: l’auto è già pronta e si parte. Comincio a dubitare quando mi seggo e vedo che di fianco a me c’è un giovanotto e altri due sono davanti. Gridare o tentare di fuggire è peggio e poi non c’è nessuno. Faccio l’esame di coscienza , chiedo perdono a Dio (mi ero confessato 3 giorni prima, in Italia) e aiuto alla Madonna.
Partiamo a grande velocità. Allontano il pensiero di dare una forte gomitata sullo stomaco a quello vicino a me e prendere per il collo i due davanti. Penso, io sono solo, vecchio: loro giovani, in tre, abituati a queste imprese. Resto calmo e prego. Mi ricordo un’ esperienza simile del frate tedesco P. Hans anni fa. Lui ha amato quei fratelli, vedendo in loro Gesù. Chiedo a Dio di farmi amare “questi prossimi”.
All’aeroporto avevo freddo, adesso sono tutto sudato. L’auto si ferma fuori città, non c’è nessuno. Uno grida: “Siamo fuggiti dalla prigione e rubato l’auto Vogliamo danaro, dollari …”. Cerco di restare calmo. Dico: “Non ho dollari. ho cruzeiros”. Uno mi fruga addosso e trova il valore di 80 dollari, troppo pochi per loro. Mi tolgono gli occhiali. L’uomo di sinistra ha un oggetto in mano… coltello?… rivoltella?…. Gridano parolacce, frase oscene anche contro mia mamma . Dico:” La mamma è la persona più sacra , più cara per un figlio: chiedo di rispettarla. Ci ha dato la vita”. Mi guardano in faccia, in silenzio.
Ripartiamo. Rinnovo l’unione con Dio e mi sento più calmo. “Dove
sono i dollari? Ti uccidiamo!”. “Sono nelle mani
di Dio e vostre”. L’auto va veloce. Dico: “Certo voi
cercavate lavoro per vivere con la famiglia, con i bambini… Non
trovando lavoro fate così per non morire di fame”. Uno mi dice:
“E’ così, signore”!. Ho il Rosario in mano, lo
faccio vedere e dico: “E’ il Rosario della Madonna. Diciamolo
insieme?”. “Taci”, mi dicono. “La Madonna vuol bene
anche a voi”.
Uno apre la valigetta dell’altare portatile: “Ma qui ci sono libri di chiesa ” dice. Rispondo : “Si sono un sacerdote , vado a dir Messa, i fedeli mi aspettano, Adesso come faccio?”. Ripartiamo velocemente, evitando uno scontro con un camion. Ci fermiamo in un luogo isolato. Mi dicono di scendere: davanti c’è una buca scavata dalle piogge. Dico: “Adesso senza occhiali non vedo niente e senza soldi non posso prendere un bus. La gente mi aspetta per la Messa. Come faccio?”. Uno mi mette gli occhiali nel taschino. Dicono: “Scendi e guarda davanti senza muoverti”.
Obbedisco ma penso e tremo davvero: “Forse mi uccidono! Gesù mio misericordia! Maria Santissima , sono nelle tue mani”. I tre gettano fuori i pacchi e il valigione, per fortuna sull’erba, non sul fango. Sta piovendo, l’auto parte e scompare. Dico un’Ave Maria per i tre amici e per ringraziare la Madonna. … Mi metto gli occhiali e, vicino per terra ci sono i soldi per il bus. Che buono quell’amico moreno!
Dopo pochi minuti passa l’autobus, lo fermo e salgo L’autista scende e mi aiuta a caricare bagagli. Gli racconto l’accaduto e mi dice: “Ringrazi la Madonna Aparecida, là in quel posto sono scomparse varie persone “. I miei confratelli mi trovano “trasfigurato” con le gambe tremanti. Arrivo alla Messa con due ore di ritardo. I fedeli rimasti ad aspettarmi ringraziano il Signore con me.
II) Parroco dei pistoleros nel Far West brasiliano
Padre Luigi Confalonieri ha conosciuto bene per lunghi anni in Brasile padre Francesco Fantin e così lo ricorda: “Era un ottimo sacerdote, con uno spirito missionario che lo portava al contatto diretto con la gente. La sua caratteristica era proprio questa , di parlare con tutti, farseli amici, creare dei contatti che poi riusciva a mantenere. Nelle zone rurali del Brasile dove padre Francesco ha lavorato, le parrocchie sono vastissime, con decine di piccole comunità e cappelle, oltre alla chiesa nel centro più importante. Francesco aveva un bel carattere, cordiale e amico di tutti, sapeva ascoltare e parlare, amava visitare le famiglie, all’inizio a cavallo e poi in moto.
“Si adattava ad ogni ambiente e situazione – continua padre Confalonieri – perché era cresciuto in una famiglia povera con tanti fratelli e sorelle ed era abituato al sacrificio. Ovunque ha lasciato un buon ricordo perché portava la pace. Soprattutto, pregava molto ed era convincente quando parlava e predicava e faceva catechesi. Era l’uomo giusto per le situazioni che richiedevano coraggio, fiducia in Dio e senso dell’autorità e della paternità. Negli ultimi quattro anni si era ritirato nella casa di riposo del Pime a Ibiporà nel Paranà, pregando e confessando quelli che venivano da lui anche per la direzione spirituale. E’ morto il 12 aprile 2013 ed è sepolto nella tomba del Pime nel cimitero comunale di Ibiporà”.
Una parrocchia finita in mano a bande mafiose
Nel Brasile del Sud, fin dall’inizio nel 1946 il Pime ha risposto all’invito di vescovi locali, che a volte li chiamavano per mandarli in parrocchie difficili e in difficoltà. Padre Francesco era il tipo adatto ed è stato uno dei protagonisti in queste situazioni scabrose. Ne ricordo brevemente due, una nello stato di Santa Caterina e l’altra nel Minas Gerais, perché l’ho visitato in ambedue i posti e gli ho fatto lunghe interviste (rimando la seconda alla terza parte di questa catechesi).
Nel 1962 il vescovo di Lages, diocesi estesa 18.000 kmq. nello Stato di Santa Caterina, offre al Pime la parrocchia di Fraiburgo, cittadina fondata nel 1961 da coloni italiani sulle colline ai confini con l’Argentina, meta di molti immigrati in arrivo dall’Italia e dall’Algeria francese, perché con clima e paesaggio svizzeri. Il superiore del Pime in Brasile, padre Giovanni Airaghi, il 4 marzo 1963 va a Fraiburgo per presentare il giovane parroco padre Biagio Simonetti,che poi con le scuole darà grande sviluppo a tutta la regione. Un anno dopo, il vescovo, ammirato per il lavoro fatto a Fraiburgo dai due missionari del Pime, chiede un altro missionario italiano per una parrocchia vicina, quella di Lebon Regis, molto difficile e anche pericolosa, diversi parroci hanno dovuto ritirarsi perché minacciati di morte. Una cittadina e una parrocchia che, nella quasi assenza dello Stato, erano finiti in mano a capi di bande violente e mafiose. Il vescovo non sapeva più chi mandare come parroco.
Padre Airaghi pensa che padre Fantin è il tipo giusto per questa impresa: coraggioso, equilibrato, di sicura fede e cordiale con tutti, ma anche autorevole e capace di comandare. Aveva 41anni ed era nel pieno delle sue forze. Padre Francesco accetta pur conoscendo i rischi di quella parrocchia che è in una situazione simile a quelle del Far West americano: montagne, foreste, pascoli con mandrie di vacche buoi e pecore, torrenti, strade in terra battuta, case in legno, paesaggi bellissimi che richiamano alla mente quelli di tanti films western.
Quando si parla di Far West, noi istintivamente lo immaginiamo negli Stati Uniti d’America. Ma nel sud dell’America Latina, e mi riferisco ad Argentina, Paraguay, Uruguay e Brasile, paesi che ho visitato più volte, negli anni sessanta e settanta c’erano ancora immensi spazi di foresta vergine e praterie che si aprivano allora al mondo moderno, dove era facile vedere uomini che giravano a cavallo con la pistola ai fianchi e immaginare situazioni come quella in cui è vissuto padre Francesco per cinque-sei anni. Nel 1966, due anni dopo che padre Francesco era a Lebon Regis, ho fatto la prima visita ai missionari del Pime in Brasile e ho visitato le parrocchie di Santa Caterina affidate al Pime, fra le quali Fraiburgo e Lebon Regis, dove ho intervistato padre Fantin che mi diceva:
“Questa è una terra di pionieri e di avventurieri. La parrocchia conta circa 20.000 abitanti dispersi in un territorio vastissimo. Ho 75 comunità in cui c’è la cappella, le visito a cavallo. Lebon Regis è una parrocchia dove tutti sono battezzati e quasi tutti vengono in chiesa e hanno le loro devozioni. Ma è anche il centro in cui vivono i pistoleros più conosciuti da queste parti. Perché questo? Perché i cristiani che a abitano a Lebon Regis sono i discendenti dei cosìddetti “Jagunsos”, cioè briganti e rivoltosi, che alla fine dell’Ottocento fuggivano dal Paraguay, dal Paranà, dall’Argentina e persino dall’Uruguay e venivano su queste montagne per trovarvi un rifugio sicuro; gente che ha la violenza e la vendetta nel sangue. La mia parrocchia è una fetta di territorio lunga 100 e più chilometri e larga 80, situata tra due fiumi e tutta ricoperta di boschi e pascoli, una terra di briganti e avventurieri che l’esercito brasiliano ha tentato diverse volte di ripulire, ma senza mai riuscirci del tutto.
“Qui si ammazzano per nulla” dice padre Fantin
Quello che impressiona, visitando Lebon Regis nel 1966 (ma oggi tutto è cambiato in meglio) è la gente che gira con la pistola alla cintola e sentire tanti fatti di vendette, di sangue. “Qui si ammazzano per nulla”, dice padre Fantin. “Tirar fuori la pistola è un gesto abituale, anche se non sempre si sparano addosso. Nei primi tempi che ero qui, è venuto a trovarmi il mio confratello padre Biagio Simonetti, parroco nella parrocchia di Fraiburgo, che non conosceva ancora la gente del posto. Va dall’unico distributore di benzina e gli dice: “Per favore, fammi il pieno un po’ in fretta perchè sono in ritardo”. L’altro risponde: “ Guarda che non sono qui per servirti”. Il padre replica: “Ma come! Tu hai un servizio pubblico e devi servirmi!”. Il benzinaio estrae la pistola e spara due colpi in aria. Padre Biagio pianta lì la sua auto e scappa in chiesa. Io sono poi andato a parlare col benzinaio, che era ancora con la pistola in mano, aspettando che il missionario ritornasse da lui.
“Uno dei miei compiti – continuava padre Fantin – è di pacificare le famiglie e i villaggi, impedire vendette, sparatorie. Qui tutti girano armati, ma quando vengono in chiesa faccio lasciar fuori le armi. Un sabato pomeriggio stavo arrivando a cavallo da un giro nelle cappelle di vari villaggi, quando due uomini escono dal “boteco” (il “saloon” del Far West americano) di fronte alla chiesa e incominciano ad insultarsi. Non faccio a tempo ad intervenire, che uno dei due, con mossa fulminea, estrae la “faca” (coltellaccio) e la pianta nel petto dell’amico, là, davanti a me. Il figlio dell’ucciso, che sta uscendo dal “boteco”, vede il padre che crolla, estrae la pistola e ammazza l’assassino.
– Tu cosa hai fatto?, chiedo a padre Francesco.
– Cosa volevi che facessi? Il problema è venuto dopo. Il vescovo aveva proibito di fare i funerali religiosi a chi aveva ammazzato un’altra persona. Quando il mattino del giorno dopo sono venute le due famiglie per il funerale religioso con i loro morti su due carretti, io mi sono ritirato in casa e ho mandato la superiora delle suore, una polacca che valeva almeno due uomini, ad avvisarli che il funerale non si poteva fare. La superiora è tornata a dirmi: “Hanno detto: dì al prete che il vescovo è lontano, ma lui è vicino. Se non fa il funerale noi lo ammazziamo”. Le famiglie dei due morti si sono coalizzate, in piazza c’erano un centinaio di persone con pistole e fucili. Tutta gente che non scherza.
– Come te la sei cavata?
– Debbo dirti che avevo una certa paura, perchè io sono venuto a Lebon Regis a sostituire un altro prete che è scappato essendo stato minacciato di morte, perchè non voleva sposare bambine di 12 anni. Il vescovo mi aveva detto: “Tu sei straniero, a te non capiterà niente”. E invece mi son trovato nei pasticci varie volte. Quella volta mi sono presentato in piazza vestito con i paramenti della Messa e ho detto: “Va bene, portate pure i vostri morti in chiesa. Lasciate le armi fuori e disponetevi a pregare. Faremo il funerale ma dopo una lunga preghiera per chiedere perdono al Signore. Però ricordatevi, che voi comandate fuori, ma in chiesa comando io”.
“Ho affermato la mia autorità. Così, mentre le due famiglie e i loro amici entravano in chiesa con le salme dei due assassinati, io sono andato in casa, ho pranzato e sono tornato in chiesa. Erano tutti in piedi ad aspettarmi. Li ho fatti stare in ginocchio, con una predica che non finiva più: ho parlato della morte e dell’inferno, ma anche della bontà e della misericordia di Dio che perdona, mentre noi non sappiamo perdonare. Poi ho recitato il Rosario e altre preghiere . Siamo stati in chiesa da mezzogiorno alle tre del pomeriggio.
– E tutti stavano lì a pregare e ad ascoltarti?
– Per forza, in prima fila c’erano i capifamiglia che avevano dato l’ordine di obbedire al prete. Nessuno si muoveva. Alla fine ho celebrato la Messa dei defunti e ho dato la benedizione ai morti. La mia fama si è sparsa in tutta la regione: sono diventato il “Padre Chico” (Francesco) che ha fatto stare in ginocchio i più famosi pistoleri e capibanda della regione.
“Lasciate pistole e coltelli fuori della Chiesa”
– Ma questa gente così violenta è religiosa?
– Sono tutti battezzati e sposati in chiesa, ci tengono alle processione e alla benedizione delle case e ad avere in casa ilo Crocifisso, quadri e statue di Gesù, di Maria e dei santi. Hanno una religiosità popolare intensa ma anche superstiziosa. In fondo è buona gente, generosa, pronta ad aiutare chi è in difficoltà, ma vivono in posti di pionieri, di briganti, di sbandati che vengono anche dall’Argentina e dal Paraguay per sfuggire la legge. D’altra parte, dalla Chiesa hanno ricevuto poco. Non c’è mai stata vera evangelizzazione. Negli anni cinquanta, c’era un parroco che girava con due pistole ai fianchi e aveva due giovanotti grandi e grossi, buoni tiratori, che gli facevano da guardaspalle. E’ una popolazione abbandonata, per forza di cose domina la violenza. Per dirti com’è la situazione, sono venuto a sapere che in una delle mie cappelle il presidente della cappella aveva ammazzato 14 persone: era il più forte del paese ed era normale che fosse lui il presidente. C’è voluta molta diplomazia e trattative per cambiarlo senza fargli perdere la faccia.
– Cosa hai fatto per cambiare la tua gente?
– Sono riuscito a far rispettare due regole precise: chi viene in chiesa deve lasciare fuori le sue armi: c’è una capanna con un custode che le tiene, le registra e le restituisce all’uscita. Secondo: nelle feste del santo in ogni paese, all’inizio della giornata le armi personali le requisisco io e le restituisco al termine della festa. Queste feste del santo sono il momento di ritrovo, arriva gente anche da lontano, c’è la Messa solenne, la processione, danze, gare di tiro alla fune e altri giochi. Ma a questi raduni popolari ci scappa sempre il morto o i morti: all’inizio tutti vanno d’accordo, poi bevono, si sfidano, si scaldano e si sparano o si accoltellano.
– Come sei riuscito a portar via le armi?
– Mi sono messo d’accordo con i capi di ogni paese dove si svolge la festa. Ho detto: “Se non deponete le armi, non celebro la Messa e non faccio passare il santo per le vie del paese”. Così, al mattino tutti sono controllati da alcuni “vigilantes” autorizzati e non possono tenere nemmeno un coltello. Le loro armi, debitamente registrate, sono messe al sicuro. Così le feste hanno cominciato a svolgersi senza sparatorie nè accoltellamenti. In uno di questi paese un uomo mi diceva: “A memoria d’uomo non c’è mai stata la festa di San Sebastiano senza che ci fosse almeno un morto. Adesso sei venuto tu e hai fatto il miracolo”. Debbo dire che oggi tutti mi ringraziano.
- Ma a parte l’abitudine alla violenza, com’è la tua gente?
– Sono molto ospitali con chi è di passaggio. Sentono il dovere della famiglia e dell’amicizia, lavorano duramente, purtroppo sono tagliati fuori dai centri urbani e dalle grandi vie di comunicazione, quindi non hanno tante comodità moderne. Hanno il senso della giustizia e della vendetta, il senso dell’onore e di non “perdere la faccia”. Chi sbaglia paga subito.
Diverse volte sono stato minacciato di morte e non poche sere ho dormito fuori casa per paura che venissero a prendermi. La mia casa in legno su palafitte è vicina alla foresta e non ha altre case intorno. Qualche volta mi sono salvato da chi voleva farmi del male, minacciando maledizioni: sono superstiziosi e alla benedizione del prete, o alla maledizione, ci credono. Una notte sono venuti tre ladri a rubare le due vacche che hanno le suore, che danno latte per gli orfani, perchè in casa ne abbiamo una ventina: sono orfani di pistoleri ammazzati. Le suore si sono accorte e hanno cominciato a gridare. Io mi alzo, prendo la pila e vado verso la casa delle suore. C’è la luna piena, è chiaro come di giorno. Incontro i tre che scappano enza aver potuto prendere le vacche: hanno paura che accorra la gente del paese e allora li ammazzano di botte. Ci vediamo sul sentiero e ci fermiamo a pochi metri di distanza: io di fronte ai tre che hanno le pistole in mano. Allora, prima che possano spararmi, alzo le mani e grido forte: “Se mi sparate vi dò una maledizione con la mano sinistra e rimanete fulminati”. Il capo dei tre mi viene incontro con la pistola abbassata e mi dice: “Prete, lasciaci andare e non ti faremo niente”. Con tutta la fifa che ho in corpo grido: “Scappate pure nel bosco ma non tornate mai più da queste parti”.
Il padre Beppino Sedran, che ho intervistato a Milano il 30 aprile 2013, ricorda che quando, dopo il funerale ai due assassinati è andato dal vescovo di Lajes a riferire cos’era capitato, il vescovo era così contento e commosso che si è inginocchiato davanti a lui e l’ha ringraziato. E racconta che in 5-6 anni padre Francesco Fantin è riuscito ad essere accettato e diventare anche simpatico a molti di Lebon Regis. Ha lasciato al parroco brasiliano (un francescano) che ha preso il suo posto una parrocchia abbastanza pacificata. Però quel primo parroco è scappato un mese dopo che era venuto. Col secondo però è andata meglio.
Padre Fantin conclude dicendo:
“Per cambiare i costumi radicati nella tradizione ci vogliono i decenni, però ho avuto anche soddisfazioni a livello personale. Qualche famiglia ha lasciato la regione per non dover più usare le armi. Io sono sempre stato sincero con tutti e non avevo paura, dicevo quel che pensavo e quando vedevo che era impossibile ragionare, me ne andavo. Diverse volte sono riuscito, con l’aiuto di Dio, a far ragionare anche tipi violenti, quando andavo a trovarli a casa loro e parlavamo in privato. Ma in pubblico è molto più difficile perché temono di “perdere la faccia”,
III) come rinasce una parrocchia quasi distrutta
Nel Sud del Brasile, il Pime Il Pime non ha assunto solo parrocchie da fondare, in Mato Grosso, in Paranà, in Santa Caterina, nello stato e alla periferia di San Paolo. E’ stato anche invitato da vescovi per rimettere in piedi, con spirito e metodi missionari, parrocchie gravemente decadute per vari motivi. Un esempio classico per questa situazione è la bella e moderna città di Frutal, nello stato di Minas Gerais, che oggi conta circa 80.000 abitanti, ma si è sviluppata negli ultimi vent’anni con le strade, il commercio, la piccola industria; altrimenti Frutal era isolata e negli anni ottanta viveva quasi solo sull’agricoltura. Le città più vicine sono a 80 km. (Barretos, 150.000 abitanti), a 140 (Uberaba, 400.000) e a 180 km. (Uberlandia, 700.000).
“A Frutal siamo partiti da zero”
Il territorio della parrocchia affidata al Pime è esteso circa 5.000 kmq. (come la Liguria), con altri 30.000 abitanti dispersi nelle campagne circostanti alla città. La parrocchia centrale di Frutal (la città ne ha due) nel gennaio 1987 il vescovo l’ha affidata al Pime. Era stata fondata nel 1940 dai Cappuccini siciliani che avevano fatto molto bene, ma da una decina d’anni era passata ai Cappuccini brasiliani si erano divisi ed erano andati fuori strada, scandalizzando la gente e finendo per ritirarsi dalla parrocchia, consegnandola al vescovo di Uberaba. Negli ultimi 7-8 anni, tre padri avevano lasciato il sacerdozio e uno di loro, padre Mello, era l’idolo dei giovani e ha dato uno scandalo enorme. La casa parrocchiale era stata letteralmente svuotata di tutto. C’erano i muri e qualche rottame di mobile che non stava in piedi. Non c’era nemmeno una sedia, né una lampadina, né un piatto! In chiesa non ci andava quasi più nessuno.
I primi tre missionari del Pime giunti sul posto il 27 marzo 1987, p. Giorgio Pecorari, p. Graziano Rota e p. Giuseppe Negri (gli ultimi due stavano ancora studiando la lingua), hanno trovato la casa parrocchiale spoglia di tutto. Padre Pecorari racconta (intervistato a Frutal nel 1995):
– Abbiamo preso la parrocchia in una situazione difficile. Il vescovo ci ha invitati perchè la rimettessimo in piedi. E’ meglio non parlare di quel che era successo prima, tutto era nato dalla divisione, dai contrasti interni. La gente aveva perso la fiducia nella Chiesa. Le prime volte he suonavamo le campane, venivano pochi anziani. Nei primi tempi non è stato facile sopravvivere, facevamo la fame, avevamo poco denaro e le necessità erano grandi anche solo per mangiare e dormire e per celebrare Messa. Siamo partiti da zero, ma quando il popolo ha visto la nostra dedizione, allora ci ha aiutato. Ma la parrocchia l’abbiamo ricostruita soprattutto con aiuti dall’Italia e dal Pime di San Paolo. Nei primi due anni abbiamo speso circa 200.000 dollari americani.
- Che tipo di pastorale avete impostato?
– Non è stato facile, ma con pazienza e dialogo, e naturalmente con l’aiuto di Dio, siamo riusciti a conquistare la fiducia del popolo ed a porre alcuni segni che hanno fatto capire la nostra linea. Un esempio: all’inizio, data l’estrema povertà della parrocchia, la gente ci proponeva di fare dei balli per tirar su soldi, come si faceva prima. Abbiamo subito detto che il ballo per la parrocchia non si fa. Molti hanno protestato, gli organizzatori di queste feste, i musicisti, i cantanti. Allora abbiamo spiegato che noi, come modo di contribuire alle spese della parrocchia, preferiamo il “dizimo”: ogni fedele dà alla Chiesa dall’uno al 10% al mese dei suoi guadagni, compatibilmente con le responsabilità verso la sua famiglia. La vita cristiana, abbiamo detto, non vale se uno non è disposto a dare qualcosa che gli costa alla Chiesa; e non solo soldi, ma tempo, intelligenza, capacità, impegno.
Devozione a Maria e fedeltà al Papa
– La gente ha risposto?
– Qui entra il discorso dei “movimenti”, che erano presenti in parrocchia e che noi abbiamo appoggiato e fatti rinascere. Nella Chiesa del Brasile sono una grande forza di aggregazione, di formazione cristiana, che sanno suscitare l’entusiasmo della fede e la partecipazione all’evangelizzazione. Se riesci a inquadrarli per il servizio alla parrocchia, lasciando anche la varietà dei carismi che sono a servizio di tutti, ti fanno dei grandi servizi.
Grazie a Dio, siamo riusciti a incontrarli, mentre in precedenza erano stati rifiutati e combattuti. E ci hanno risolto molti problemi. Ad esempio, quello di discutere con le famiglie il “dizimo” e le altre iniziative della parrocchia, specie quelle formative e di preghiera. Ma per tornare al “dizimo”, i movimenti si sono divisi la parrocchia, hanno fatto un’azione a tappeto entrando in tutte le case, discutendo e spiegando quel che noi volevamo e le motivazioni di fede dell’aiuto alla parrocchia. Così hanno organizzato la raccolta e dopo due-tre anni la cosa ha cominciato a rendere bene: oggi la parrocchia è quasi autosufficiente.
L’altro elemento importante della nostra pastorale è stata la devozione alla Madonna, la catechesi e i gruppi biblici di istruzione e riflessione religiosa. Noi ci preoccupiamo anche che ci siano frequenti riferimenti al Papa, ai suoi viaggi: raccogliamo offerte per il Papa, commentiamo le sue encicliche (altri non ne parlano quasi mai). Abbiamo spiegato bene le encicliche sulla Madonna e quella sulle missioni (“Redemptoris Missio”), per esortare il nostro popolo a ricuperare la fede per trasmetterla agli altri, vicini e lontani. Un concetto che non è comune, ma essenziale per la Nuova Evangelizzazione.
– La devozione a Maria non è caratteristica di tutto il popolo brasiliano?
– Sì, ma spesso è una devozione poco illuminata e poi certe correnti moderne la mettono in sordina. Noi diciamo il Rosario e facciamo le processioni, ma spieghiamo anche chi è Maria e perchè dobbiamo volerle bene. Non bisogna dimenticare che la Chiesa brasiliana, come molte altre Chiese nel mondo, ha sofferto la crisi della secolarizzazione e del razionalismo nella pastorale: per cui gli elementi che toccano il cuore, come la devozione a Maria e ai Santi, erano (e a volte ancora sono) non dico aboliti, ma minimizzati come superstizioni. Noi li abbiamo potenziati, dando loro un fondamento biblico e spiegandoli teologicamente: debbono portare a Cristo.
Un’altra caratteristica della nostra pastorale è l’apertura alla Chiesa universale, alla missionarietà: noi predichiamo l’amore al Papa e la missione alle genti, che sono due elementi del carisma missionario. Il Brasile, come tutti i popoli giovani, è molto nazionalista: tutto quel che viene dall’esterno, che riguarda l’esterno, vale poco. Mentre il Vangelo ci invita ad aprirci agli altri. Così pure cerchiamo di inculcare lo spirito comunitario di parrocchia, il senso di identità e di appartenenza alla nostra parrocchia e diocesi, unite al Papa. Tutto il resto viene dopo: movimenti, carismi, vari tipi di attività e di appartenenza, tutto deve servire alla parrocchia, deve essere superato dall’unità attorno al parroco e al vescovo.
“Una parrocchia chiaramente missionaria”
Con padre Pecorari ho visitato la parrocchia di Frutal fino alla cappella Aparecida de Minas, distante una sessantina di chilometri, in cui una sera abbiamo celebrato Messa. Quella cittadina ha circa 6-7.000 abitanti, ci sono tre suore, ma il sacerdote va solo una volta la settimana per la Messa e le confessioni. La parrocchia di Frutal ha almeno cinque-sei cappelle, in città e fuori, che sono vere chiese parrocchiali, con casa parrocchiale accanto già costruita, ma senza sacerdote; e altre cappelle minori visitate una volta al mese. Un grande aiuto lo danno le suore colombiane “Missionarie di S. Teresina di Gesù”, che hanno il carisma missionario come il Pime, portate in parrocchia da p. Pecorari all’inizio degli anni novanta. Sono otto suore in due comunità, una a Frutal e una ad Aparecida de Minas, in città con una scuola cattolica e con impegni nelle altre opere sociali della parrocchia: casa per anziani, la “Casa del bambino”, l’ospedale “Santa Casa della Misericordia” e altre.
Nel 1995 ho incontrato e parlato con i tre padri della parrocchia che hanno sisgtituito i primi tre: padre Benedito Libano, parroco, p. Francesco Fantin e p. Beppino Sedran viceparroci, con le suore e alcuni collaboratori laici. Mi ripetono che fin dal primo giorno in cui i nostri missionari sono arrivati a Frutal, l’impostazione missionaria della parrocchia è evidente e ripetutamente spiegata alla gente.
“Noi siamo qui come missionari, mi dice p. Benedito, e cerchiamo di fare in modo che ogni omelia, ogni attività abbiano l’impronta del nostro essere missionari. La visita alle famiglie, il dialogo con tutti, la scelta della periferia come inizio del nostro lavoro (senza dimenticare il centro città), le opere sociali, il modo in cui amministriamo la parrocchia (tutto aperto, tutto pubblico), la preoccupazione per le pecorelle lontane più che per quelle nell’ovile, l’apertura ad ogni forza positiva nella Chiesa (come i “movimenti”): insomma, tutto dimostra che siamo missionari e che vogliamo rendere missionaria la nostra comunità cristiana.
Padre Fantin apostolo dei cristiani dispersi
Padre Beppino Sedran è stato con padre Fantin e padre Benedito Libano nella parrocchia di Frutal. L’ho incontrato a Milano il 30 aprile 2013 e gli ho chiesto di darmi notizie su come padre Francesco Fantin evangelizzava e com’era la sua testimonianza di prete. Ecco il suo ricordo:
– Sono stato a Frutal con Fantin dal gennaio 1995 al giugno 1996 quando celebrammo i 50 anni del Pime in Brasile. Padre Francesco era un prete di molta preghiera. Lui si alzava sempre molto presto, alle 5, e alla sera andava a letto presto. Aveva un rapporto affettuoso con Gesù e la Madonna, ne parlava spesso e si vedeva che ci credeva davvero. Quando eravamo in parrocchia al mattino noi tre preti celebravamo insieme il Mattutino e le Lodi e poi il Vespro alla sera. Aveva un bel carattere, cordiale con tutti, capace di contatti e di ricordarsi di tutti. Era un buono, ma sapeva anche farsi obbedire.
Quando una volta è tornato in Italia dal Brasile voleva andare a trovare i miei genitori. A quei tempi io avevo una sorella che oggi è già in Paradiso, che non le piacevano i preti, anzi forse li odiava! Fantin era a Milano e le telefona di venire a prenderlo per portarlo dai genitori. La sorella non voleva, ma lui insiste talmente con dolcezza ma anche con autorevolezza che ha costretto la sorella a venire a prenderlo in auto ed a portarlo dai genitori, che li hanno fermati a pranzo e poi la sorella ha riportato al Pime padre Francesco. Questo me l’ha raccontato la sorella, che mi diceva: “Non si poteva proprio dirgli di no!”.
- Che attività aveva in parrocchia?
– Curava due aspetti particolari, la visita ai malati a casa e in ospedale e visitava le molte comunità e cappelle fuori città. Nell’ospedale cittadino andava tre volte la settimana e poi formava le volontarie che continuavano quest’opera della parrocchia (la “pastorale della salute”), le radunava e incoraggiava. Lui non guidava l’auto e si faceva accompagnare nelle comunità fuori città, l’ho portato anch’io molte volte, altre volte aveva amici che gli facevano questo servizio.
La parrocchie di Frutal è immensa, in città aveva almeno 30.000 cattolici su 5.000 abitanti (con due parrocchie) e molti altri nelle campagne, nei villaggi e fazende agricole, con distanze di decine di chilometri dalla città. Fantin visitava questi gruppi due-tre volte e poi incominciava a celebrare la Messa o nella cappella se c’era oppure molte volte nelle case della gente o all’aperto. Si formava una comunità nuova, anche dove il prete non era mai arrivato. Francesco era proprio un pioniere, un missionario che arrivava dove non c’era ancora nulla di organizzato e avendo una grande capacità di contatti e di disponibilità con tutti, finiva per far nascere la comunità con le persone che seguivano, pregavano assieme, diffondevano la notizia del missionario ch veniva a trovarli e la volta dopo i fedeli aumentavano. Io spesso lo portavo e poi andavo a visitare altre comunità rurali, in cascine, aziende agricole nella “rossa”: in brasiliano la rossa è la campagna, la terra dove coltivano e ci sono pascoli. E tutto questo dopo gli impegni che avevamo nella parrocchia in città.
– Che città è Frutal? E voi tre missionari eravate sufficienti per tutto?
– Frutal allora era una città che viveva sull’agricoltura, allevamento di buoi e vacche, coltivazioni di ananas e canna da zucchero. Era anche una città violenta, liti e ammazzamenti non erano rari. Poi era una città massonica. All’entrata e all’uscita dalla città c’erano le insegne della massoneria. Ricordo anche che una volta un grande massone, conosciuto anche in città come tale, io l’ho accompagnato nella malattia e alla morte perché aveva chiesto lui di vedere il prete e prima di morire ha fatto l’abiura, si è confessato e comunicato e abbiamo fatto il funerale religioso. E questo ha generato problemi nella sua famiglia e anche altrove. La moglie, che incontrando i padri del Pime era entrata nei Focolarini, difendeva la scelta del marito e anch’io ho testimoniato che l’uomo era del tutto libero e cosciente.
Noi tre preti eravamo molto aiutati dai laici, c’erano volontari e volontarie che facevano grandi sacrifici per la parrocchia. Ricordo una catechista che dirigeva il gruppo dei catechisti e aveva tre bambini, che per venire al luogo di riunione si faceva due ore e mezzo di cavallo e poi alla sera tornava indietro, a volte con uno o due suoi figli. Fantin formava bene, trasmetteva l’amore per l’ideale, per Gesù.
La nostra parrocchia aveva la chiesa parrocchiale con tre cappelle in città e altre 6-7 fuori città, nella “rossa” e queste avrebbero dovuto essere parrocchie, se ci fossero stati i preti. Noi visitavamo le cappelle, ma in altre parti c’erano delle case che erano fattorie con grandi cortili o capannoni, come punto di riferimento per radunare i fedeli e celebrare la Messa. Dopo Messa c’era sempre un tempo di convivenza, si mangiava, si parlava, si faceva la formazione ai sacramenti e la visita ai malati.
Visitando quelle campagne, mi colpiva la solitudine di quella gente. La visita di due preti era un avvenimento a cui nessuno voleva mancare, quindi il momento della Messa era anche occasione di aggregazione sociale per quella gente che vivevano isolati e ci dicevano che praticamente solo la parrocchia li visitava.
Una volta padre Francesco mi dice: “Io amo stare in un posto 4-5 anni e poi mi piace cambiare”. Però in ogni posto in cui è stato, manteneva i contatti, a volte tornava e trovava sempre famiglie che lo accoglievano bene. I superiori lo usavano proprio in questo compito che gli riusciva così bene: sostituire padri ammalati, andare in comunità disastrate o difficili, aprire al Vangelo posti nuovi, come quando è andato in Amazzonia, anche, lì in un ambiente del tutto diverso dal Sud Brasile e in pochi anni, ha fondato una parrocchia a Manaus.
Ricordava spesso la sua famiglia. Aveva un tenerissimo ricordo dei genitori e fratelli e sorelle, ne ne parlava spesso e diceva che pregava per tutti loro. Sono contento di aver conosciuto bene un vero missionario di Gesù Cristo, molto più anziano di me, ma esemplare anche per noi giovani che l’abbiamo conosciuto.
Padre Gheddo su Radio Maria (2013)
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