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Nell’ultima settimana Avvenire ha riferito di numerosi missionari italiani presenti nell’isola, in passato “la perla dei Caraibi” ed oggi uno dei paesi più poveri del mondo, al fondo negli elenchi dell’Onu per ricchezza, sicurezza e livello di vita. La situazione è peggiorata dopo l’apocalittico terremoto che ha quasi azzerato la capitale Port-au-Prince e oggi Haiti è un paese in cui sarà difficile persino sopravvivere. Eppure i missionari e le suore intervistati dicono in coro che là ci sono e là rimangono. Un fatto su cui bisogna riflettere. Perché non se ne vanno, ora che ne avrebbero il diritto e la possibilità? Un operatore dell’Onu ha dichiarato: “Me ne ritorno a casa, qui è diventato un inferno e sono troppo stressato, non potrei resistere a lungo”. E’ comprensibile. Ma perché in Haiti i missionari e i volontari che vivono e lavorano con loro rimangono?
Perchè sono persone innamorate di Gesù Cristo e del popolo al quale la Chiesa li ha mandati. Senza una forte carica di fede non si resta per anni e anni in certi paesi. La missione, prima di annunziare Cristo, è inserirsi in un popolo, impararne la lingua, condividerne i costumi e lo stile di vita, amare quei fratelli e sorelle, pronti a dare la vita per loro, come ha fatto Gesù. In passato, negli istituti missionari si partiva “per la vita”. I padri e fratelli del Pime destinati alla missione di Kengtung in Birmania, in territori pericolosi e selvaggi nel “Triangolo dell’oppio” (fra Birmania, Laos e Thailandia), quando su una zattera attraversavano col cavallo il grande fiume Salween si inginocchiavano, baciavano la terra e leggevano una preghiera che diceva: “Questa è la mia nuova patria. Signore dammi la grazia di amare questo popolo e di non tornare più in Italia”. Oggi sono ammesse vacanze di alcuni mesi per salute e per studio ogni tre-cinque anni, ma lo spirito è quello di sempre: donare la vita ad un popolo, per povero e ingrato che sia.
La catastrofe di Haiti ha messo in rilievo una realtà di cui si parla troppo poco nelle cronache quotidiane: in questa nostra Italia che ci sembra così in crisi di umanità e di vita cristiana, ci sono famiglie e parrocchie che ancora producono uomini e donne capaci di dare la vita per un popolo come quello haitiano, ridotto alla pura sopravvivenza. L’Italia è molto migliore dell’immagine negativa che ne danno stampa e televisione. Nel 1976, nella diocesi di Moundou in Ciad sono stato due giorni con padre Jean, cappuccino canadese che in moto mi ha fatto visitare i suoi villaggi. Gli ho detto che era eroico a vivere da vent’anni fra quel popolo così povero e analfabeta, in quei villaggi di fango e di paglia. Lui ride e risponde: “Ma cosa dici? Tu vedi gli aspetti esterni di questa mia gente, ma qui c’è una ricchezza di umanità e anche di fede che ti consola, ti dà gioia. In Canadà la stiamo perdendo”. Ho pensato: “Ecco un missionario autentico che trasmette la fede in Cristo con la vita!”.
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Due conclusioni: primo, missionari, suore e volontari sono i migliori rappresentanti del nostro popolo, in Haiti e in tutti i paesi del Sud del mondo. Secondo: perché stampa e televisione, scuole e famiglie, perdono il ricordo dei missionari, che sono gli “eroi positivi” di cui i nostri giovani hanno bisogno per un’educazione all’amore del prossimo e alla gioia di vivere?
Piero Gheddo
Avvenire – gennaio 2010
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