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“Giovanni Paolo II, il centravanti della missione”

 Così mi diceva padre Schiavone, un anziano missionario domenicano toscano, che nel 1982 era in Pakistan da una quarantina d’anni. L’ho incontrato a Faisalabad e mi raccontava la visita che il Papa aveva fatto l’anno precedente a Karachi, allora capitale del Pakistan, e dell’entusiasmo che aveva suscitato nello stadio cittadino pieno di giovani musulmani ad applaudirlo. Diceva: “Noi missionari che siamo in questo paese da decine d’anni, tollerati e a volte perseguitati, non avevamo mai nemmeno immaginato di poter essere testimoni di una scena simile: una folla di musulmani che applaudiva il nostro Papa! Abbiamo pianto di gioia”. E concludeva dicendo: “Noi missionari abbiamo trovato il nostro centravanti!”.

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Nell’ottobre 1978 entra in scena il secondo Santo Pontefice, Giovanni Paolo II, che veniva dalla Polonia, una Chiesa del tutto diversa da quelle dell’Europa occidentale, Il Sessantotto l’aveva vissuto col popolo polacco come uno stimolo per la liberazione dal comunismo, l’opposto da quanto avveniva in Italia, dove esistevano addirittura i “Cristiani per il Socialismo”. Infatti, fin dall’inizio, grazie anche alla carica vitale dei suoi 58 anni, dimostra una forza e un coraggio che spiazza tutti.

L’esempio più eclatante è quello di cui sono stato testimone a Puebla in Messico nel gennaio 1978, quando ha aperto l’Assemblea del Celam (dei vescovi latino-americani). Il documento di preparazione era impostato sul tema “Vedere, Giudicare, Agire”, che portava attenzione ai temi economico- politico-sociali: vedere la situazione dei popoli d’America Latina, giudicare di chi è la colpa, poi agire per liberare i popoli da ogni oppressione. Il Papa, nel discorso iniziale dice che lo schema di preparazione va cambiato: “Per liberare i popoli latino-americani, ripartiamo da Cristo”.

Riaffermava chiaramente che la missione della Chiesa è di natura religiosa, portare la salvezza in Cristo, liberando l’uomo prima dal peccato personale e poi cambiando la società oppressiva attraverso l’azione e la testimonianza dei credenti in Cristo. Era una forte critica alla prima “Teologia della Liberazione” che politicizzava l’azione sociale della Chiesa e aveva diviso le Chiese e i credenti d’America Latina. Ma il Papa polacco non negava affatto l’aspetto positivo di quel movimento teologico; la Parola di Dio è strumento di liberazione dell’uomo da ogni male, il peccato personale e sociale. E’ stata l’impostazione di fondo dei molti viaggi nei paesi non cristiani: “I miei viaggi in America Latina, in Asia ed in Africa – ha scritto nel messaggio per la giornata missionaria del 1981 – hanno una finalità eminentemente missionaria. Ho voluto annunziare io stesso il Vangelo, facendomi in qualche modo catechista itinerante e incoraggiare tutti coloro che sono al suo servizio“. Giovanni Paolo II era profondamente innamorato di Gesù Cristo, di cui parlava come una persona viva che egli aveva incontrato e di cui si era innamorato. Diceva: “Tu sei veramente uomo nella misura in cui ti lasci penetrare, coinvolgere, illuminare e cambiare dall’amore di Cristo”.

Il Presidente americano Jimmy Carter, ricevendolo alla Casa Bianca nel 1979, gli diceva: “Lei ci ha costretti a riesaminare noi stessi. Ci ha ricordato il valore della vita umana e che la forza spirituale è la risorsa più vitale delle persone e delle nazioni”. E aggiungeva: “L’aver cura degli altri ci rende più forti e ci dà coraggio, mentre la cieca corsa dietro fini egoistici – avere di più anzichè essere di più – ci lascia vuoti, pessimisti, solitari, timorosi”. Il “New York Times” scriveva: “Quest’uomo ha un potere carismatico sconosciuto a tutti gli altri capi del mondo. E’ come se Cristo fosse tornato fra noi“. E’ il più bell’elogio che si possa fare del successore di Pietro.

Giovanni Paolo II viaggiava per dare un messaggio, oltre che di fede e di conversione a Cristo, di fraternità e di solidarietà a livello universale; per portare alla ribalta tutti i popoli e tutte le sofferenze e le ingiustizie del mondo. Questa la vera attenzione all’uomo: non una semplice parola consolatoria o di protesta, ma la forza e il carisma di farsi carico di tutti i problemi dell’uomo, dando ad essi risonanza universale. Quando il Papa parlava ai “favelados” di Rio de Janeiro, ai lebbrosi di Marituba in Amazzonia, agli indios di Oaxaca in Messico o ai pescatori di Baguio nelle Filippine; quando condannava con forza ogni violazione dei diritti dell’uomo davanti a dittatori come Marcos (Filippine), Pinochet (Cile), Stroessner (Paraguay), Mobutu (Zaire), Fidel Castro (a Cuba), i Sandinisti (in Nicaragua); quando parlava del valore della cultura africana (in Benin) e dello “sviluppo dal volto umano” (in Gabon), egli incideva fortemente sulle coscienze dei popoli, ben al di là di quanti stavano ad ascoltarlo in quel momento. Quante volte un popolo sofferente e umiliato (penso alla Guinea Equatoriale appena uscita dalla spaventosa dittatura di Macias Nguema) ha ricevuto dalla visita del Papa il provvidenziale stimolo a riprendere con coraggio la via della riconciliazione e della ricostruzione.

In Messico Giovanni Paolo II ha preso solennemente le difese degli indios. A Oaxaca un indio gli dice: “Santità, noi viviamo peggio delle vacche e dei porci. Abbiamo perso le nostre terre, noi che eravamo liberi, ora siamo schiavi”. Giovanni Paolo II si stringe la testa fra le mani e rispondendo dice: “Il Papa sta con queste masse di indios e di contadini, abbandonate ad un indegno livello di vita, a volte sfruttate duramente. Ancora una volta gridiamo forte: rispettate l’uomo! Egli è l’immagine di Dio! Evangelizzate perchè questo diventi realtà, affinchè il Signore trasformi i cuori ed umanizzi i sistemi politici ed economici, partendo dall’impegno responsabile dell’uomo”. Il massimo quotidiano messicano, “Excelsior”, esponente del laicismo della massoneria messicana, che si era opposto alla visita del Papa, commentava: “Dopo cinque secoli di oppressione dei nostri indios e contadini, doveva venire il Papa da Roma a dirci queste cose. Ci ha fatto vergognare di appartenere alle classi dirigenti messicane”.

 L’avventura dell’enciclca missionaria

 Nel settembre 1989, mentre ero nella redazione di Mondo e Missione a Milano, squilla il telefono: «Sono il segretario del Papa. Guardi la sua agenda: lei è libero il 3 ottobre prossimo?». «Sì, sono libero, perchè?». «Il Papa la invita a un incontro con lui e a pranzo, per discutere della nuova enciclica missionaria che ha programmato».

La telefonata mi sembra improbabile, penso che sia uno scherzo. Invece, fatti i necessari controlli, è proprio vero. Così è nata la mia collaborazione alla “Redemptoris Missio”, come redattore della stessa. Abitavo nella casa generalizia degli Oblati di Maria Immacolata (OMI) col superiore generale padre Marcello Zago. Avevo ricevuto diversi schemi dell’enciclica e le note preparate da una commissione che aveva interrogato Conferenze episcopali, facoltà teologiche, istituti missionari, altri enti interessati e personalità delle missioni; e alcune pagine di Giovanni Paolo II su cosa intendeva dire.

Così, dal 3 ottobre al 7 dicembre 1989 ho lavorato 12-13 ore al giorno alla macchina da scrivere. Non leggevo nemmeno i giornali né vedevo il telegiornale per non distrarmi. Un lavoro appassionante anche se faticoso, una corsa contro il tempo interrotta solo dalla preghiera e da una passeggiata alla sera dopo cena nel vasto parco con padre Zago. Quando finivo di scrivere un capitolo, Zago lo leggeva, mi suggeriva alcune correzioni o aggiunte e poi lo portava in Segreteria di Stato e al Papa; alcuni giorni dopo ricevevo le osservazioni del Papa, scritte a matita o con la biro: qui aggiungi questo, spiega meglio il concetto, cita questo passo del Vangelo…

Due volte trovo scritto: «Si legge bene, vai avanti così». E ancora: «Bravo, è scritto veramente bene». Ci mettevo tanta passione e impegno che il lavoro non mi pesava affatto, anzi quel servizio diretto al Papa e alla missione alle genti mi esaltava: non sono mai riuscito ad andare in missione per fare il giornalista e finalmente questa obbedienza ai superiori mi ricompensa. Il lavoro era così tanto, che dopo una decina di giorni abbiamo convocato anche padre Domenico Colombo del Pime, specialista di teologia missionaria ed esperto di ecumenismo e di dialogo con le religioni non cristiane: ha dato un contributo notevole, inventando anche nuove impostazioni di alcuni temi.

Consegnata al Papa la prima stesura dell’enciclica il 7 dicembre 1989, sono stato richiamato a Roma un mese per la seconda stesura (marzo 1990) e una ventina di giorni per la terza (luglio 1990): il primo e il secondo testo, infatti, sono stati mandati alle persone ed enti consultati. Ciascuno mandava le sue osservazioni, il Papa poi dava direttive per procedere alla seconda e terza stesura del documento. La Redemptoris Missio porta la data del 7 dicembre 1990, venticinquesimo anniversario del decreto conciliare Ad Gentes, ma è stata presentata il 22 gennaio 1991, per il tempo richiesto dalle traduzioni e stampa in varie lingue.

 La Redemptoris Missio è stata giudicata l’enciclica rappresentativa del pontificato di Giovanni Paolo II, diversi ne hanno lodato lo stile semplice e immediato. Il card. Godfried Daneels di Bruxelles ha scritto che è «il programma di lavoro per il prossimo millennio». Va ricordata l’opera del cardinal JosephTomko, prefetto di Propaganda Fide, che aveva ottenuto un’enciclica per il XXV dell’Ad gentes, l’unico fra i 16 documenti del Concilio Vaticano II commemorato e aggiornato da Giovanni Paolo II con un’enciclica. L’idea ricorrente a quel tempo, anche nelle alte sfere della Curia romana, era che un’enciclica per le missioni era troppo: non è più il momento di porre in risalto il valore specifico della missione alle genti, dato che tutta la Chiesa è missionaria e tutti i popoli hanno bisogno di missione…

Il fatto che il Papa abbia voluto fare un’enciclica specifica sul primo annunzio del Vangelo ai non cristiani, ha un significato importante che va richiamato! Anzi nell’enciclica dice: «Proprio il contatto diretto con i popoli che ignorano Cristo, mi ha convinto ancor più dell’urgenza di tale attività (missionaria)» (n. 1); e aggiunge diverse volte con varie espressioni questi concetti: «Vogliamo nuovamente confermare che il mandato di evangelizzare tutte le genti costituisce la missione essenziale della Chiesa» (n. 14); «La missione ad gentes… (è) un’attività primaria della Chiesa, essenziale e mai conclusa» (n. 31); «L’attività missionaria rappresenta ancor oggi la massima sfida per la Chiesa… La missione alle genti è ancora agli inizi» (n. 40).

Il card. Tomko, in una cena con me e padre Colombo, diceva che Giovanni Paolo II aveva scelto di scrivere l’enciclica “per chiarire la confusione teologica sorta intorno alla missione alle genti, al dialogo con le religioni non cristiane e al rapporto fra l’annunzio di Cristo e lo sviluppo dell’uomo e dei popoli”. Infatti la Redemptoris Missio sviluppa questi e altri punti, riportando la missione al suo valore primario, annunziare la salvezza in Cristo a tutti i popoli, con tutte le conseguenze positive per l’uomo e la storia umana che ne discendono. Impossibile sintetizzare l’enciclica, un libretto di 82 pagine, in poche battute. Mi limito a dire che sono rimasto ammirato del lavoro che si svolge per anni (tre per la Redemptoris Missio), attorno ad un’enciclica. Il documento è opera del Papa perchè decide lui, dice quel che lui vuol dire e come lo vuol dire. Però passa attraverso la mediazione, il consiglio e la scrittura di molti che leggono i vari schemi e stesure. Nella prima, ma anche nella seconda e terza stesura del documento, ho esaminato il materiale giunto in risposta agli interrogativi del Papa e ai testi già preparati. Materiale ricco e interessante, che Giovanni Paolo II ha letto, valutato e giudicato meritevole o no di passare nell’enciclica. È un fatto notevole, di cui credo pochi hanno notizia. Il che indica che l’organizzazione creata per i documenti pontifici dalla Santa Sede, attraverso la Segreteria di Stato e le Nunziature, è incredibilmente attenta e precisa.

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