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I) Le biografie e le cause dei santi: una grande grazia di Dio

Fra le molte grazie che Dio mi ha fatto c’è anche questa: dopo 41 anni di giornalismo missionario (1953-1994), tutto immerso nell’attualità, mi ha orientato verso le biografie dei missionari e le cause dei santi, la storia del Pime e delle sue missioni. E’ stata una grande grazia, che ho capito a poco a poco: all’inizio mi pareva un errore dei superiori voler impegnarmi in questi campi nuovi, mentre vivevo il mio miglior periodo di giornalismo missionario.

Giovanni Mazzucconi, beatificato nel febbraio 1984. Il Pime voleva una sua biografia: prima hanno tentato con vari scrittori e autori, poi p. Giannini mi ha incaricato di questa prima biografia di un santo nella primavera 1983.
Esperienza indimenticabile, che ha cambiato la mia vita.

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Da giornalista a biografo di santi! Leggere le lettere di Mazzucconi, le testimonianze sulla sua santità, la sofferenze sopportate…. vuol dire entrare nel personaggio, penetrarne i pensieri, gli affetti e vedere come Dio ha operato in lui purificandolo e orientandolo giorno per giorno ad un amore sempre più perfetto.
Mazzucconi era già santo prima di essere martire, il martirio è stato il dono di Dio per una vita già totalmente consacrata al suo amore.
Mentre leggevo le sue lettere di giovane missionario (ucciso a 29 anni!), mi commuovevo, piangevo spesso: erano per me più che una meditazione formale, erano una partecipazione alla sua vita, ai suoi sentimenti, alla sua santità. E non potevo non cambiare anche la mia vita.

Marcello Candia muore il 31 agosto 1983 e subito la Fondazione Cadia mi incarica di scrivere la sua biografia.

note: 1) Patrice Maheiu, “Paolo VI, Maestro spirituale”, Libreria Editrice Vaticana, 2004, pag. 178.
2 ) Parole pronunciate nell’udienza generale del 3 luglio 1968, nel libro citato alla pag. 188.
Ne ero entusiasta perché avevo conosciuto benissimo Candia per vent’anni. Ricordo la visita che gli ho fatto nel 1966 a Macapà, quando mi aveva impressionato che quel ricco industriale che avevo conosciuto a Milano nella sua bella casa, la servitù, l’autista, l’industria, la villa al mare e tutto il resto; e adesso lo vedevo in Amazzonia (nell’Amazzonia del 1966!) in un caldo umido soffocante: abitava in una stanzetta senza nessuno dei conforti a cui era abituato; al mattino si lavava con brocca e catino, mangiava le misere cose dei caboclos. viveva tutto il giorno dirigendo la costruzione del suo ospedale e poi tra lebbrosi, ammalati, poveri di ogni genere…. senza parlare bene il portoghese; i missionari non lo capivano e lo criticavano; i militari che allora comandavano in Brasile lo spiavano sospettando chissà quali trame segrete! Marello era ancora ricchissimo e faceva quella vita proprio per amore di Cristo e dei poveri!

Scrivere la biografia di Marcello Candia è stata un’avventura che non immaginavo: ricerca delle lettere e dei suoi scritti negli archivi, delle testimonianze e articoli su di lui, interviste ai testimoni, ecc. Con tutto il materiale raccolto nel “processo diocesano” abbiamo presentato alla cogregazione dei santi ben 14 volumi grosso formato (A4) per circa 5.000 pagine complessive. E poi la schedatura del materiale raccolto e la scrittura del libro “Marcello dei Lebbrosi” stampato dalla De Agostini. Sicuramente è uno dei più bei libri che ho scritto in modo appassionato, ne ho vendute circa 50.000 copie!

Candia, come Mazzucconi, ha segnato la mia vita in senso spirituale. Ho incominciato a capire tante cose dei santi, a cui prima non pensavo: entravo in un mondo nuovo che mi esaltava, mi entusiasmava, ancor più di quanto mi era capitato con Mazzucconi, perché Candia l’avevo conosciuto bene fin dal 1955-56 e poi visitato diverse volte in Amazzonia.
Dopo la pubblicazione del volume ho ricevuto tantissime lettere che chiedevano la beatificazione di Marcello. La sua fama di santità era grande, in Italia e in Brasile e della sua santità io ero già convinto.

Così incomincia l’avventura della prima causa di beatificazione che ho promosso! Iniziata il 12 gennaio 1991 a Milano e chiuso il processo diocesano l’8 febbraio 1994.
Molte resistenze, ma sono andato avanti perché mi sosteneva il card. Martini e la ferma convinzione che Candia era veramente un santo!

Terza biografia Clemente Vismara: morto il 15 giugno 1988 e la biografia esce nel 1991.
Iniziato il processo diocesano nell’ottobre 1996 e chiuso nell’ottobre 1998 ad Agrate Brianza. Anche qui tante difficoltà per iniziare, ma fortunatamente il vescovo di Kengtung, mons. Abramo Than, voleva questa causa e il gruppo missionario di Agrate la sosteneva e finanziava. Abbiamo pubblicato il bollettino che ha successo: all’inizio avevamo 3.500 indirizzi, adesso sono oltre i 7.000. Con le offerte si paga il bollettino e la causa di canonizzazione e mandiamo soldi in Birmania, specie a Kengtung!
Nel 1991 presentati sei miracoli e uno di questi è praticamente approvato: manca il decreto sulle “virtù eroiche”….

Poi sono venute le altre biografie e per alcuni la causa di beatificazione: Lorenzo Bianchi, Augusto Gianola, Felice Tantardini, Paolo Manna, Carlo Salerio, Alfredo Cremonesi, Cesare Pesce, Leopoldo Pastori, Rosetta Gheddo, Marcello Zago, Rosetta Franzi e Giovanni Gheddo…..

II) Cosa mi hanno insegnato le biografie dei santi

Il lavoro delle biografie e delle cause per la beatificazione lo faccio con passione, entusiamo, spesso pregando e meditando le vicende che sto scoprendo e vivendo. Credo di essermi formato un’idea dei santi un po’ diversa da quella che avevo prima e che in genere, ha la gente comune.

1) I santi danno l’immagine dell’uomo secondo i disegno di Dio, l’uomo pienamente realizzato nella pienezza dei doni ricevuti. La perfezione dell’uomo, anche umanamente parlando, è la santità, cioè l’imitazione del modello di uomo-Dio che è Gesù Cristo.

Ecco perché Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno semplificato molto le cause dei santi e moltiplicato beati e santi in un modo impensabile. Nei 26 anni di pontificato, Giovanni Paolo II ha beatificato e santificato più santi e beati di quanto abbiano fatto i Papi dal 1588 (cioè l’anno del decreto di Urbano VIII sulla sanittà riconosciuta dalla Chiesa) al 1978!

Oggi, ogni espressione umana trova una sua caratteristica manifestazione in qualche santo: padre e madre di famiglia, giovani e ragazze, vedove e anziani, preti e suore, professionisti e contadini, re e uomini politici, medici e industriali, giornalisti e avvocati, ecc. La Chiesa moltiplica i riconoscimenti di santità proprio per offrire sempre nuovi modelli del Vangelo vissuto oggi.

Molti pensavo che di santi e beati se ne fanno fin troppi! Sbagliano! Non capiscono che ogni nuovo beato o santo è uno stimolo nuovo e diverso che evangelizza, stimola alla vita secondo il Vangelo. E’ po’ come le apparizioni di Maria: ce ne sono a migliaia in tutto il mondo e ciascuna ha un suo significato ed è importante per un dato luogo.

Ogni nuova causa di beatificazione è un atto di evangelizzazione, perché ripropone
ai distratti uomini del nostro tempo un nuovo modello di cristiano integrale, di Vangelo vissuto.

2) I santi sono grandi ed eroici per la fede, la carità ecc. Ma rimangono uomini piccoli e poveri e peccatori e ignoranti come noi.

E’ sbagliato pensare che i santi sono perfetti come leggiamo in certe biografie; hanno anche loro debolezze, miserie, peccati, caratteri non facili.
Vismara scriveva: “Perché mi confesso spesso? Perché ho coscienza delle mie debolezze e peccati e chiedo perdono. D’altra parte, se non avessi peccati direi una bugia quando prego e dico al Signore: “Perdona le nostre colpe”. Se non avessi colpe direi una bugia”.
Noi abbiamo dei santi un’immagine disumana, cioè non umana, troppo alti e distanti da noi! Per cui ci scoraggiamo e pensiamo di non poter tendere alla santità perché troppo deboli e piccoli. Invece tutti siamo chiamati alla santità.
Il cammino verso la santità dura tutta la vita, fra alti e bassi, fra eroismi e debolezze. Dobbiamo fidarci di Dio, chiedere a Dio che guidi lui la nostra anima verso la perfezione dell’amore.

Mi ha stupito, scrivendo la biografia di Felice Tantardini e leggendo le testimonianze su di lui, il fatto, ad esempio, che non voleva leggere la Bibbia. Aveva tentato una volta perché il confessore gli diceva che era un suo dovere conoscere la Parola di Dio, ma si era scandalizzato quando leggeva che Davide aveva molte mogli, quando Dio comandava al suo popolo di sterminare tutti i nemici…. Leggeva solo libretti di devozione, qualche volta il Vangelo, ma la sua pietà era molto semplice e gli è bastata per la santità. Marcello Candia: anche lui non leggeva la Scrittura o libri di teologia, gli bastava un libretto (“Il Manuale del buon cristiano”) con alcune preghiere e meditazioni che sapeva a memoria.
Mia nonna Anna conosceva alcuni episodi e parabole di Gesù, sapeva il catechismo e le preghiere, recitava tanti Rosari e questo le bastava per essere una santa. Certo, questi non sono modelli per l’oggi: il mondo è cambiato e noi dobbiamo approfondire la conoscenza della Parola di Dio, della teologia, dei misteri cristiani. Ma è solo per dire che anche se noi abbiamo dei limiti di conoscenza o di altro genere, possiamo egualmente aspirare alla santità.

3) I santi sono diversi l’uno dall’altro

Non sono fatti in serie, ciascuno rimane se stesso e sviluppa i suoi carismi:
Esempio: contrasto fra Candia e il beato Giovanni Calabria: “Non sappia la tua destra quello che fa la tua sinistra” (Calabria) – “Vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre” (Candia).

Diversità fra Candia e Vismara:
Marcello aveva una psicologia complicata, soffriva di scrupoli e di ansia, era tormentato da pene psicologiche, era portato a strafare a voler fare sempre di più e meglio. Don Peppino Orsini, suo padre spirituale, diceva che Dio l’aveva preso al momento giusto: di più non avrebbe resistito alla pressione psicologica e allo stress.
Clemente era semplice, lineare, solare, faceva quel che poteva con sacrificio, ma senza tormenti, dormiva sereno, era sempre disteso e contento.

Personalità forti: Aristide Pirovano; e personalità più umili e sottomesse: Felice Tantardini, che tutti vorrebbero santo, mentre per Pirovano ci sono delle difficoltà, nel ricordo dei suoi contemporanei. Era un grande superiore e ha socntentato alcuni nel tempo del “sessantotto”, ma ha saputo mantenere il Pime in una linea di obbedienza alla Santa Sede e al Papa, che allora era in crisi ovunque!

Molti pensano di imitare i santi facendo come loro. No! Ho incontrato suore nelle missioni che mi dicevano: “Come vorrei essere santa come Madre Teresa!”. Io dico: no, lei deve santificarsi nel modo che Dio vuole per lei, nel posto in cui Dio l’ha messa, non come Madre Teresa. Non imiti Madre Teresa nelle cose che ha fatto, ma nello spirito che l’ha animata.

La santità, anche umanamente, è il massimo per esprimere la propria personalità: da ogni santo vengono fuori personalità autentiche.
Dio non cambia la natura dell’uomo, né le sue tendenze psicologiche e preferenze umane: cambia e purifica l’uomo, ma la grazia di Dio esalta le sue qualità naturali.
Quindi ogni santo ha la sua personalità, il suo carattere, tendenze, la sua umanità, ma nobilitata e purificata dalla Grazia di Dio. La personalità vien fuori più bella e pulita, più forte e caratteristica, più amabile.

Ciascun santo sviluppa la sua personalità, secondo l’ispirazione dello Spirito, ecco perché sono diversi l’uno dall’altro.

4) Ci sono moltissimi santi, ma solo alcuni vengono riconosciuti tali dalla Chiesa: il “carisma della santità”.

Molti sono stati i filantropi e i benefattori dei poveri, ma solo Marcello Candia diventerà beato e santo.

Vismara è invocato Il Patriarca della Birmania e Santo dei bambini. Molti altri missionari erano come lui, hanno trascorso un’intera vita in Birmania, ma non sono invocati né ricordati: eppure erano santi missionari. E’ il mistero di quello che si definisce “il carisma della santità”.
Non è facile spiegare il “carisma della santità”. Significa che la sanittà autentica la giudica solo Dio. La chiesa si limita a glorificare un credente che è riconosciuto e ricordato e pregato come santo. Questa è “la fama di santità”, indispensabile per inizuare la causa di beatificazione.

Sono convinto che nel mondo cristiano (e anche non cristiano) ci sono moltissimi santi e martiri autentici, ma solo alcuni vengono riconosciuti e gloriifcati dalla Chiesa. Perché? Appunto per il “carisma della santità”: la loro vita commuove, suscita preghiere e richieste di grazie.
Quando iniziavo la causa di Clemente Vismara, diversi missionari della Birmania mi hanno scritto e detto: “Se fai santo lui, siamo santi anche noi che abbiamo fatto la stessa vita”. E non avevano tutti i torti.
La stessa obiezione l’abbiamo fatta a mons. Than, quando ha manifestato la sua volontà di beatificare Vismara. Lui rispondeva. “E’ vero in Kengtung i missionari del Pime santi sono molti, a cominciare dal vescovo mons. Bonetta. Però solo per padre Vismara si verifica questo fatto: he la sua tomba è sempre piana di fiori, che molti lo pregano, anche buddhisti e musulmani, per ottenere grazie”.

Perché Clemente sì e altri no? Non perché Clemente fosse più santo di altri davanti a Dio! Questo lo vede solo Dio. Ma perché per Clemente si è manifestato questo “carisma di santità”.

III) Cos’è che unisce tutti i santi?

Nonostante le grandi diversità fra santo e santo, molti elementi li uniscono tutti. Questa la bellezza dei modelli di santità che la Chiesa continua a moltiplicare.
Non è possibile dire tutto quel che si potrebbe dire su questo tema, ma si possono segnare alcune caratteristiche comuni a tutti i santi che ho studiato, sulle quali dobbiamo riflettere ed esaminarci.

1) Anzitutto una grande fede: mettere Dio al primo posto nella nostra vita.

In missione, se non c’è una forte fede, non si resiste, specialmente oggi quando le difficoltà sono molto forti e il dislivello fra la vita in missione e in Italia è … abissale.
Episodio di Candia. Una volta lo portavo alla sera in auto a Piacenza per una conferenza e aveva mal di cuore, si teneva il petto con le mani. Volevo fargli dire il Rosario con me, ma era troppo stanco e sofferente. Diceva: “Ripeto solo la giaculatoria che mia mamma mi ha insegnato: Signore aumenta la mia fede!”.
Io gli dicevo: “Ma tu hai tanta fede! Hai lasciato tutto per andare a vivere tra i più poveri dell’Amazzonia, spendi la tua vita e i tuoi soldi per gli altri!”.
Lui replicava: “Piero, ricordati che la fede non basta mai!”. E aveva ragione: la fede può essere come la fiammella di una candela che si spegne con un soffio oppure come la luce del sole!

Cosa vuol dire vivere di fede? Vivere nel mondo soprannaturale come viviamo nel mondo naturale. Cioè avere la mente e il cuore in Dio, mettere Dio al primo posto nella nostra vita, mentre tutto ci porta in basso, nelle difficoltà e problemi quotidiani, trascinandoci lontani da Dio. Mamma Rosetta diceva: “L’importante è fare sempre la volont di Dio”.
La vita moderna è travolgente per tutti, c’è poco tempo per riflettere, siamo bombardati da mille notizie, problemi. La fede non è più sostenuta dall’ambiente sociale, culturale, di lavoro, di scuola, di amicizie e spesso nemmeno dall’ambiente familiare. Quindi è un dono di Dio, una conquista che bisogna chiedere come Grazia che fa rimanere fedeli al Battesimo e che porta alla gioia, alla serenità della vita.

La fede vuol dire fiducia, fidarsi di Dio, della Provvidenza. Credere veramente che se faccio il bene con retta intenzione, Dio mi aiuta. Vismara che manteneva 200-250 orfani e orfanelle, e molti altri poveri, in un paese dove era difficile anche trovare il riso! La Provvidenza arrivava sempre a tempo per aiutarlo. I confratelli gli dicevano che non doveva avere così tanti orfani e poveri da mantenere, lui rispondevano che non erano suoi ma di Dio e che Dio ci pensava Lui!
Papà Giovanni diceva spesso: “Siamo sempre nelle mani di Dio”.

2) La virtù della santa umiltà

Una caratteristica comune nei santi che ho studiato è l’umiltà, il basso concetto che avevano di sé: questo è il forte segno di una persona che è cosciente della sua piccolezza e debolezza, quindi pronta a chiedere scusa, pronta a rivedere le proprie posizioni, a non condannare ed anzi a scusare gli altri.

L’umiltà rende una persona simpatica, autentica: è una virtù veramente umana perché riporta l’uomo alla sua vera natura di creatura che non è autosufficiente ma ha bisogno degli altri e quindi, come si dice, non monta in superbia. La superbia rende antipatici, l’umiltà simpatici.
Il basso concetto di sé vuol dire ringraziare il Signore delle grazie e dei doni ricevuti, impegnarsi con sacrificio per fare tutto il proprio dovere e anche più del dovere, soprattutto ritenere gli altri migliori di sé. Di mamma Rosetta la sorella Emma ha detto: “Non parlava mai male di nessuno, anzi cercava di scusare gli altri, quando qualcuno li criticava”.

Il modello di questa umiltà è Felice Tantardini, il fratello amato e benvoluto in tutte le diocesi di Birmania dove aveva lavorato. Si definiva “il servo dei padri e delle suore”, il vescovo mons. Gobbato diceva: “Felice non solo era obbediente, ma aderiva subito al semplice desiderio del superiore. Io dovevo stare attento quando parlavo con lui, a non manifestare un mio desiderio o aspirazione, perché Felice si dava da fare per accontentarmi”.
E’ morto a 93 anni nel 1991 e in tutta la vita ha lavorato duramente come fabbro, falegname, ortolano, contadino, cuoco, sacrista, capomastro, ecc. Faceva tutto quel che gli chiedevano di fare. Il lavoro per lui era tutto, non riusciva a non lavorare.
Eppure, oltre gli ottant’anni continuava a lavorare nella sua officina di fabbro e dato che non ci vedeva bene a volte si dava martellate sulle dita. Il vescovo gli ha detto: “Felice, adesso basta lavorare. Il tuo compito adesso è pregare per tutti noi”. Felice prende sul serio queste parole del vescovo: da allora il suo tempo lo passava in chiesa, diceva un rosario dopo l’altro!

Si direbbe una umiltà esagerata. E’ vero, Felice era un semplice, aveva fatto solo le prime elementari, poi il fabbro e la grande guerra mondiale, quando entra nel Pime parte quasi subito per le missioni senza altri studi. Era un uomo di un altro tempo e ha portato avanti la sua vita nel solo modo che conosceva e gli avevano insegnato: lavorare, pregare, servire gli altri senza porsi problemi che non aveva. Era un uomo intelligente, infatti imparava facilmente le lingue, ha scritto per ordine del vescovo la sua autobiografia “il fabbro di Dio” e centinaia di lettere (ne abbiamo raccolte circa 600): testi sgrammaticati, ma vivaci, spiritualmente profondi; Felice era arguto, sapeva raccontare episodi della sua vita e teneva allegra la comunità.
Certo, oggi una umiltà così non è più possibile né consigliabile, è giusto che tutti studino almeno fino ai 15-16 anni, ma Felice rimane un modello, il santo dell’umiltà.

Umiltà vuol dire anche obbedienza ai superiori.
Nel 1956 Clemente è da 26 anni a Monglin: partendo da zero (“Per vedere un altro battezzato debbo guardarmi nello specchio”, scriveva in una delle sue prime lettere), ha fondato la missione e una cittadella cristiana e poi altre due residenze missionarie e parrocchie. A sessant’anni potrebbe anche fermarsi e godere un po’ della posizione che s’è acquistata. Invece il vescovo Guercilena lo manda a Mong Ping, dove c’è quasi da iniziare tutto da capo.
Ai confratelli pareva impossibile che Vismara accettasse quella destinazione. Invece dice al vescovo che è disponibile e se vuole parte subito pe rla nuova destinazione. In una lettera poi scrive: “Ho obbedito perché capisco che se faccio di testa mia sbaglio”. Questa è umiltà e fede in una situazione non facile!

3) I santi sono esemplari in molte virtù, ad esempio, l’amore ai poveri, ai piccoli. Vedevano veramente Gesù Cristo negli ultimi.

Marcello Candia si inginocchiava davanti ai malati, ai lebbrosi. Non era una posa, ma un’intima convinzione e un bisogno forte che sentiva. Lui, uomo ricco e importante, che perdeva tempo con i più poveri e piccoli per ascoltarli, interrogarli, sentire le loro pene e desideri.

Ricordo l’esempio di mio papà Giovanni che, tornando a casa con noi tre bambini dalla “Messa grande” della domenica, vede un povero seduto su una sedia nel cortile della nostra casa, fuori della porta della cucina, con in mano un piatto vuoto: stava aspettando che la nonna gli portasse da mangiare.
Papà lo invita ad entrare, lo porta in casa e dice alle tre donne di casa (mamma e due sorelle): “Oggi Gesù è venuto a pranzo da noi. Facciamogli posto alla nostra tavola”. Questi sono esempi che noi suoi figli ricordiamo ancora con commozione a 70 e più anni e ci hanno educato più di mille discorsi sulla carità!

Clemente Vismara accoglieva tutti nelle sua missione, dava da mangiare a tutti, il suo vanto era che “nessuno che viene a casa mia soffre la fame”.
Una sera entra nel cortile della missione una famigliola di cinque-sei membri, padre, madre e figli, affaticati e stracciati. Clemente li accoglie e chiede se hanno mangiato. Quelli rispondono di no. Li porta dalle suore ma era già dopo le otto di sera e là si mangia alle sei e si va a letto alle nove. Le suore dicono che non è avanzato più niente da mangiare. Clemente: “Su, svelte, suore, fate bollire il riso, perché se loro non mangiano, questa notte io non posso dormire”.

3) Nei santi dobbiamo soprattutto imitare lo spirito di preghiera.

La santità viene da Dio, è un dono di Dio, non una nostra conquista.
Ecco perché dobbiamo pregare molto. A me pare che i santi nutrissero un profondo spirito di preghiera, che li faceva vivere nella costante presenza di Dio.
Noi viviamo la nostra giornata su due piani:
– il piano sensibile, diciamo materiale, con tutti i problemi quotidiani e impellenti, lavoro, incontri, doveri, emergenze, chiacchiere, distrazioni, notizie, mangiare, dormire, la salute, arrabbiarci, divertirci, ecc…
– e poi c’è il piano soprannaturale, spirituale, che è quello di Dio, presenza di Dio, aiuto di Dio, comandamenti di Dio, grazia di Dio…

Lo spirito di preghiera significa preghiera individuale e comunitaria quotidiana, ma anche una mentalità orientata in tutto al piano spirituale e soprannaturale per ricevere l’aiuto di Dio, l’orientamento da Dio, la Grazia di Dio, per rivolgere preghiere a Dio, ecc.
Nei “Racconti di un pellegrino russo” (Paoline) ci sono pagine bellissime sulla “preghiera continua” durante la giornata, i viaggi, i lavori, che educa ad avere la mente e il cuore fissi in Dio. E’ un atteggiamento di fondo della persona che si conquista a poco a poco. Leopoldo Pastori aveva raggiunto questa meta. Risulta da tutte le sue lettere e dalle testimonianze raccolte su di lui.

4) Da questa mentalità fissa in Dio viene poi la gioia di vivere, la pazienza nel sopportare le sofferenze e difficoltà, l’autenticità e trasparenza di vita, la sincerità anche con se stessi, il pensare più agli altri che a se stessi.

Il cardinal Montini ha detto una volta a Milano (1): “Il cristiano ha sempre una lampada accesa sopra di sé: la gioia. Tutto deve svolgersi nel clima di una semplice ma serena pace, che parte dalla grazia di Dio e che consola le anime e le fa liete. Vorrei domandarvi: avete mai incontrato un santo? E se l’avete incontrato ditemi: qual è la nota caratteristica che avete trovato in quell’anima? Sarà una gioia, una letizia così composta, così profonda, ma così vera”.
Proprio Paolo VI pubblicò nel 1975, in anni turbolenti che toglievano la pace del cuore a molti credenti, l’esortazione apostolica “Gaudete in Domino”, dove dice che la miglior testimonianza che un cristiano può dare nel nostro tempo, quando il sentimento dominante è la paura e la tristezza, è la gioia del cuore, il sorriso, la speranza e l’ottimismo per il futuro.
Ecco, questo io ho visto nei beati e santi che ho studiato. E’ il tono unificante in personaggi molto diversi l’uno dall’altro. Il sorriso di Vismara a 86 anni! Quello di Candia nelle situazioni più difficili e dolorose in Amazzonia; Tantardini è sorridente in tutte le fotografie. Anche mio papà e mia mamma, dicevano i parenti che erano sempre contenti! Il sorriso era l’atteggiamento fondamentale delle loro personalità.

Specialmente in Marcello Candia colpiva tutti questo fatto: era un uomo importante, colto (tre lauree), che maneggiava miliardi, riceveva premi e riconoscimenti internazionali (nel 1975 venne definito “l’uomo più buono del Brasile” dal grande settimanale illustrato “O Manchete” e nel 1983 ricevette il Premio Feltrinelli dal presidente Pertini):…
Ebbene, non c’era in lui alcun compiacimento di se stesso, era sempre disponibile allo scherzo, alla battuta, si lasciava prendere in giro. Era un semplice che gioiva delle piccole cose con una naturalezza che commuoveva. Così lo vedevano anche nella sua famiglia, che pure ha contrastato la sua vocazione missionaria. La sua sorella maggiore, Linda, mi diceva: “Quando tornava in Italia dall’Amazzonia e veniva a trovarci, per noi e per i nostri figli era una festa. Portava la gioia. Anche quando i figli erano bambini, lo zio Marcello piaceva a tutti perché giocava con loro, li faceva parlare dei loro problemi, di quel che avevano imparato a scuola…”.

Concludo con una citazione di Paolo VI (2), che spiega perché la Chiesa promuove tante cause di beatificazione e di canonizzazione:

“Una generazione pervasa dallo spirito di santità dovrebbe caratterizzare il nostro tempo. Dovrebbe scomparire il cristiano inadempiente ai doveri della sua elevazione a figlio di Dio e fratello di Cristo, a membro della Chiesa. La mediocrità, l’infedeltà, l’incoerenza, l’ipocrisia dovrebbero essere tolte dalla tipologia del credente moderno. Non solo andremo alla ricerca del santo singolare ed eccezionale, ma dovremo promuovere una santità di popolo, proprio come, fin dai primi albori del cristianesimo, voleva San Pietro scrivendo le celebri parole: “Voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo redento… Voi che un tempo non eravate popolo, ma ora siete popolo di Dio”.
Ciascuno di noi deve aspirare alla santità, all’unione con Dio. Dobbiamo sempre avere grandi aspirazioni nella nostra vita. E’ un dovere della vita cristiana: poi Dio vedrà fino a che punto siamo arrivati, ma noi dobbiamo proporci di arrivare in alto, all’unione di amore e di imitazione con Gesù e Maria.

Padre Gheddo su Sacerdos (2008)

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