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Quando tre anni fa, nel novembre 1994, l’Editrice missionaria italiana (EMI) pubblicava la biografia di padre Augusto Pianola (l), ero sicuro del suo successo editoriale (quattro edizioni con circa 16.000 copie vendute), ma non immaginavo l’ondata di consensi che il libro avrebbe suscitato (lettere, telefonate, richieste di conferenze, articoli sui giornali).
Non è comune che i lettori di un libro scrivano all’autore. Per un articolo di giornale sì, ma non per un libro. Ebbene, la biografia di padre Gianola mi ha procurato davvero tante, lunghe e commosse lettere. Che mi hanno dimostrato due cose: padre Augusto tocca il cuore anche di molti che non l’hanno conosciuto e, secondo, la sua «avventura missionaria» (scritta a partire dal suo diario) fa del bene. Ne ringraziamo il Signore.
«Di Gianola ne basta uno. Due sarebbero troppi»
Prima di scrivere la biografia di Augusto, pochi erano d’accordo. Parenti, amici, collaboratori, missionari, chi l’aveva conosciuto diceva: «È troppo presto per scrivere. Bisogna lasciar calmare le acque, la sua vita ha suscitato tanti contrasti, divisioni, giudizi negativi… ».
Allora sono andato a trovare monsignor Aristide Pirovano (2) e gli ho chiesto se facevo bene a scrivere quel libro, perché diversi confratelli e amici suoi mi dicevano: «Raccogli il materiale perché non vada perso, ma per il momento è meglio non dire nulla». Pirovano nella sua saggezza mi ha risposto: «Scrivi perché Augusto merita di essere ricordato e la sua storia può interessare soprattutto i giovani e suscitare vocazioni missionarie. Ma mi raccomando, non presentarlo come un missionario modello. Ha fatto troppo disperare il suo vescovo e anche i superiori del Pime. Come lui ne basta uno. Due sarebbero troppi».
Poi, leggendo il suo diario (3), a poco a poco mi sono convinto che questo missionario può ancora, con l’aiuto di Dio e anche da morto, fare del bene. Nient’altro. Non dò giudizi spirituali, morali, teologici, mistici o che altro su di lui. Ma da sacerdote e giornalista ho subito avvertito che questa sua «tormentata ricerca di santità» (sottotitolo di Dio viene sul fiume) è un formidabile messaggio di evangelizzazione soprattutto per i giovani di oggi. Perché Augusto è un giovane, di spirito giovanile, di sensibilità aperta, moderno, avventuroso, insofferente di fronte alle regole e alle pastoie burocratiche (per alcuni versi uno «spirito sessantottino»), amante della natura, poeta, sognatore, scrittore geniale ed efficace… insomma, ha tutte le qualità per piacere ai giovani di età e di spirito (4). E nello stesso tempo trasmette con tutta la sua vita questo messaggio di fede: solo Dio conta, il resto, in fondo, passa presto e non vale niente; ha valore solo se è orientato a Dio, se è vissuto per Dio e nella Legge di Dio.
Non è che di Augusto si possa approvare tutto. Per carità, era fuori riga in molti campi e aspetti della vita, ha fatto molti sbagli. Ma anche questo suo prepotente scoppiare, esplodere, non stare mai dentro nessuna regola, finisce per condurre a
Dio, a Gesù Cristo, al Vangelo. Lo ripete lui stesso più volte: nessun cammino può agganciare l’Infinito, nessuna teologia può rappresentare l’Assoluto, nessuna regola o modello umano può avvicinarsi a quello di Cristo. L’uomo deve sempre cercare il di più, andare oltre, allargare lo sguardo al di là delle frontiere stabilite, sapere che Dio è e rimane misterioso e si conquista solo con una fede e un amore senza limiti.
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Natura e caratteristiche di questo libro
A seguito del successo, non solo editoriale della biografia, è nata l’idea di raccogliere e pubblicare l’epistolario di padre Augusto. Impresa non facile. Parenti e amici custodiscono con comprensibile gelosia i suoi ricordi, le sue lettere hanno spesso notazioni intime, rimproveri ai destinatari, osservazioni di carattere familiare… Metterle in pubblico, a pochi anni dalla sua scomparsa, pareva a molti quasi violare un’intimità che invece va protetta. Ho fatto loro un semplice ragionamento: la biografia di padre Augusto (me l’hanno scritto anche vescovi e sacerdoti autorevoli oltre che molti lettori comuni) con l’aiuto di Dio è stata per tante persone, anche lontane dalla pratica cristiana, 1’occasione per avvicinarsi alla fede, al Vangelo, a Cristo, alla Chiesa missionaria. Lo stesso può essere delle lettere. Ringrazio perciò tutti coloro che mi hanno mandato scritti di padre Augusto (5). Spero di non aver tradito la loro fiducia.
Ho dovuto fare una selezione, pubblicando circa i due terzi delle lettere raccolte, e di queste solo quei passi che risultano originali, non ripetuti in altri documenti. Di qui anche la scelta di abolire l’intestatario, i convenevoli iniziali, i saluti conclusivi, a parte quelli che risultano interessanti per qualche motivo. Ho messo però tra parentesi, al termine di ciascuna lettera, la data e la persona o l’ente a cui era destinata; e per ogni documento ho scelto una frase che serve da titolo (fra virgolette), segnalando in tal modo il contenuto di quanto Augusto scrive o l’espressione più originale (o ambedue). È un richiamo che stimola a leggere.
Le lettere di questo volume coprono un periodo di quasi quarant’anni: dal 1951 al 1989, cioè dagli anni trascorsi nel seminario di Venegono Inferiore, fino a pochi mesi prima della morte. Il volume è diviso in otto capitoli, ordinati cronologicamente, a ciascuno dei quali ho premesso una breve introduzione che permette al lettore di comprendere quel periodo della vita di Augusto. In calce alle pagine parecchie note che spiegano fatti, episodi a cui le lettere accennano soltanto ma non raccontano.
La genialità di Augusto, nello scrivere, non è inferiore a quella del suo confratello Clemente Vismara (6). Leggendo questo epistolario dal Rio delle Amazzoni, vengono in mente le Lettere dalla Birmania di padre Clemente (7). Ogni missiva una trovata, ogni paragrafo una battuta, mai ripetitivo, sempre geniale. « Viva la comunione dei santi e anche dei non santi», dice alle Carmelitane di Sassuolo che pregano per lui. « Lei stia pure in Italia e ritorni con comodo, così staremo tranquilli anche noi», scrive al suo vescovo monsignor Arcangelo Cerqua che ha comunicato di voler tornare in Amazzonia il più presto possibile. «Ve l’immaginate un san Francesco col fucile in spalla?», scrive atteggiandosi ad una specie di san Francesco immerso nella natura, quando verso la fine della vita rinunzia al fucile: proprio lui, gran cacciatore fin da ragazzo, che butta giù pagine e pagine, anche nel diario, sulla caccia e occupa parte delle lettere al papà e al fratello Alberto parlando di pallini, pallettoni, calibri, fucili, spingarde, munizioni…
Augusto, come Vismara appunto, con la penna in mano non cade mai. Sarebbe stato un ottimo giornalista e scrittore. Il suo periodare è sostenuto, non stanca, aggancia un tema all’altro con naturalezza. Pur ritornando spesso sugli stessi temi, ha sempre qualcosa di nuovo. Quando ho avuto le sue lettere trascritte al computer (8), mi sono accorto che bisognava tagliare parecchio, per non superare le 400 pagine stabilite per il volume. Ho letto e riletto i testi, tagliando e limando qua e là. Ma è stata una sofferenza quando dovevo cassare.
Chi era padre Augusto Gianola, l’eremita dell’ Amazzonia
Padre Augusto Gianola (9) è diventato missionario del Pime dopo dieci anni di sacerdozio nella diocesi di Milano (dal 1953 al,1962). Parte per l’Amazzonia nel novembre 1963 e muore a Lecco il 24 luglio 1990. Aveva 60 anni, con 27 anni di Amazzonia così divisi:
1) due decenni di apostolato e azione sociale: 1963-1973 a Parintins; 1975-1985 a Urucara, nelle «colonie agricole» e nella « Scuola agricola» da lui fondate; pochi mesi alla fine del 1989 al Mocambo;
2) due periodi di isolamento dedicato alla preghiera e alla contemplazione: 1974 in foresta, al Panauaru e Paratucu; 1986 a Jequitiba (monastero cistercense in Brasile); 1986-1989 ancora in foresta al Paratucu;
3) quattro ritorni in Italia: 1973 (otto mesi), 1980 (cinque mesi), 1985 (sette mesi, compreso il lungo viaggio in canoa e a piedi), 1990 (dal 24 marzo al 24 luglio, data della morte).
Padre Gianola è uno dei poco meno di 200 missionari del Pime che hanno lavorato in Amazzonia, dal 1948 ad oggi (10). Certamente uno dei più originali e affascinanti. Ha lasciato un segno ovunque è andato e in tutti quelli che ha incontrato. Enzo Biagi, invitato a scrivere la Prefazione della biografia Dio viene sul fiume (dopo l’intervista televisiva che gli aveva fatto per Rai Uno nell’ottobre 1989 in Amazzonia), mi ha detto: «È stato uno dei più toccanti incontri spirituali che ho avuto nella mia vita».
Da dove viene il fascino di quest’uomo?
Certamente dalla sua vita fuori da ogni schema, che irrita, provoca, affascina. E poi dal fatto che, pur nell’apparente guazzabuglio della sua esistenza, egli mira all’essenziale. Si può dire tutto di lui: è esagerato, estremista, imprevedibile, sregolato, impossibile, complessato, incostante, geniale, insensato (secondo il «comune buon senso»), «stufatore» (come scrive lui, cioè che stufa, che stanca, con i suoi problemi, i suoi dubbi)… Insomma, parlando di lui non si finirebbe mai. Contraddittorio, non c’è dubbio, non riesci mai a dire «Augusto è così», perché una pagina dopo è già diverso, l’opposto. Ma non si può negare che il senso profondo e unico della sua vita è stato la ricerca di Dio e della santità.
Non doveva essere facile viverci assieme: mai contento, sempre alla ricerca del di più, del nuovo, con ritmi di vita impossibili… Faceva digiuni spaventosi (diminuisce di 40 chili durante il primo isolamento in foresta, da 105 a 75) e poi era capace di svuotare in una serata il frigo della casa episcopale divorando tutto quel che c’era. Se si commuoveva nel vedere una bella ragazza e (dice nel diario) faceva penitenze e chiedeva perdono a Dio, poi commetteva imprudenze che nessun missionario «normale» avrebbe commesso, mettendo così le premesse perché molte donne gli « corressero dietro» e si innamorassero di lui: era poi costretto a difendersi, non si faceva trovare, scappava…
Augusto parlava di Dio a tutti. Manda una lettera alle ragazzine di una scuola media di Lecco e parla loro di Dio; ai suoi nipoti adolescenti dice che devono aspirare alla santità; muore la mamma e lui scrive (1989) ai fratelli e sorelle che è contento, perché almeno adesso la mamma non è più soltanto a Lecco, ma anche con lui in foresta. È originale e sincero fin quasi ad essere offensivo. Alle amiche del Laboratorio missionario lecchese dice (1969) che a loro non ha mai scritto perché lui era viceparroco e ai soldi doveva pensarci il parroco; adesso che lui stesso è parroco (e si firma «parroco missionario lecchese») si affretta a riprendere i contatti: «Carissime, buonissime, generosissime… Ricordatevi di me e non solo nelle preghiere» .
Come viveva e realizzava la «teologia della liberazione»
Il materiale di queste lettere è ricchissimo, fa discutere. Non si finirebbe più di annotare, commentare, contestare quanto Augusto dice o come agisce. Ad esempio, Augusto aveva raggiunto la convinzione, ingenua ma affatto superficiale, che c’è un sistema di vita semplice, secondo natura, che libera l’uomo perché lo avvicina a Dio e lo rende più uomo. Per cui si sforza, con la fondazione delle «colonie» in foresta e la Scuola agricola di Urucani, di tenere i caboclos lontani dalla città, da Manaus. Ci sono su questo tema lettere molto belle al gruppo d’appoggio Centpe di Locate Varesino (anni 1977-1981):
«Io continuo a predicare ai caboclos di non andare ad abitare nelle città, mostrando loro che diventerebbero meno liberi, marginalizzati. E per far questo io vivo in mezzo a loro, come loro, mangiando e lavorando con loro, così da dimostrare che un bianco può vivere felice anche con la loro vita, anzi è fuggito da un ambiente di progresso perché là non era felice e qui con loro, fra le piante e gli animali e la gente semplice, si sente felice. Questo è il messaggio che io cerco di trasmettere, più con l’esempio che con le parole e con le prediche» (lettera del 10 febbraio 1979 al «Ghit», Gaetano Canavesi, dei Centpe di Locate Varesino).
Ma poi si accorge, ed è costretto a confessarlo, che i caboclos, una volta raggiunto un certo progresso economico, non lo seguono più. Diventano anche loro adoratori del dio denaro:
«Le colonie cominciano a produrre, appaiono i soldi e il cuore dell’uomo ne è accecato. È vero che io ho già da tempo iniziato la campagna contro la ricchezza, ma è quasi un controsenso. Loro mi dicono: “Tu ci hai insegnato la strada del progresso, del come venir fuori dalla miseria e adesso vuoi frenarci e dirci che siamo sulla strada sbagliata”. Non mi ascoltano più, il luccichìo dei soldi è più forte delle mie parole» (ai Centpe di Locate Varesino da Manaus, 26gennaio 1981).
«I coloni stanno finendo di essere miserabili – scrive in altra lettera ai Centpe del 23 ottobre 1981 – ma sentono fortemente la tentazione del dio denaro e quelli che si mantengono idealisti sono pochi (…). È facile per noi dire loro che l’asino è più ecologico del trattore, ma loro ti dicono: “Allora perché in Italia non usate l’asino? Andare a piedi o in bicicletta sì, è bello e sano, però perché voi andate in automobile?» .
«Io mi sforzo ancora di andare in canoa ma sono scemo perché tutti mi passano davanti col motore e mi guardano come tipo originale, poveretto. Il progresso ingoia tutto anche qua e tutto si complica, addio vita calma e serena, senza burocrazia. È triste vedere che questo mondo va scomparendo. Dovrò rifugiarmi fra gli indios per avere un po’ di semplicità?».
Commovente Augusto, in questa lotta contro i mulini a vento. E non si rende conto che mentre per lui, prete animato da grandi ideali spirituali e uomo che viene dal progresso di un paese ricco, è possibile rinunziare al benessere, alla ricchezza, alla città, alle scoperte moderne (basti pensare al cinema e alla televisione!), per i caboclos invece, che sono sempre vissuti nel fango e in capanne di paglia, è quasi impossibile! Quando crescono economicamente, èinevitabile che vogliano almeno sperimentare tutto quello che luccica e attrae…
Nel campo della fede e della preghiera era piuttosto tradizionalista, ma in politica lo si potrebbe definire un « utopista sovversivo». Però, in linea con le sue molteplici contraddizioni, non amava in nessun modo la «rivoluzione” ispirata al marxismo, cubana o cinese o quella invocata da una certa «teologia della liberazione”. Vedeva il comunismo come il fumo negli occhi (si legga cosa scrive dopo il colpo di stato dei militari in Brasile, nel 1964). Ma nella sua azione era chiaramente schierato con i poveri, gli ultimi, protestando anche per i compromessi di non pochi «uomini di Chiesa” col potere politico ed economico.
Realizzava la «teologia della liberazione” con tutto il suo lavoro per le colonie agricole e la Scuola di Urucani, ma era contro lo spirito di questa, come lo vedeva rappresentato dai missionari canadesi della Prelazia di Itacoatiara. Ai quali rimproverava di essere «rivoluzionari” a parole, mentre lui, senza odi e senza violenze, ma in spirito di amore e di dialogo col governo (militare), riesce ad ottenere molto per i caboclos.
«(.. .) il mio Vescovo e gli altri padri (canadesi) sono rivoluzionari – scrive nella lettera ai Centpe di Locate Varesino del 23 ottobre 1981 – e vogliono a tutti i costi buttare il popolo contro il governo (a quel tempo la dittatura dei militari, ndr). Ora, noi che viviamo in mezzo al popolo, sentiamo che il linguaggio del popolo non è rivoluzionario, ma che l’idea di rivolta violenta è importata. Noi parliamo come il popolo, ci lamentiamo con il governo, lo obblighiamo ad aiutarci, lo critichiamo aspramente, ma con amore, cioè senza odio. E otteniamo molte cose, più di loro. E allora ci accusano di essere col governo».
Il senso dell’avventura nella vita di padre Augusto
In queste lettere manca molto (ma c’è anche dell’altro) di quello che c’è nella biografia Dio viene sul fiume (11): ad esempio, tutto il capitolo sugli scherzi che Augusto faceva ai missionari (qualcuno diventava furioso, e buona parte dell’antipatia che Augusto si attirava era dovuta a questo!) e ai caboclos. Era un suo modo di esprimersi, di mantenere allegra la compagnia, di creare il mito dell’uomo giocherellone che ne faceva di tutti i colori.
Scherzi a volte stupidi e pericolosi. Come quella volta che, andando in canoa a visitare una famiglia che abitava in una capanna sulle palafitte in riva ad un lago, Augusto lascia la canoa in un igarapé (fiumiciattolo) vicino e si avvicina alla capanna nuotando sott’ acqua per non farsi vedere (era un nuotatore formidabile). Ma doveva di tanto in tanto venire fuori a respirare. Sfortuna volle che sulla veranda di quella capanna fosse seduto il capo famiglia con il fucile fra le gambe. Vede quel qualcosa di rossastro venire a galla, pensa che sia la testa di una onça (tigre amazzonica), imbraccia il fucile, prende la mira e spara. L’angelo custode di Augusto gli ha certo deviato il colpo, ma Augusto sente lo sparo e avverte il proiettile che si infila nell’acqua accanto a lui… Lo scherzo finisce subito. Viene fuori, agita le braccia e incomincia a gridare: «Non sparare… non sparare… sono io… » (12).
Augusto amava l’avventura, il rischio delle imprese più spericolate, come il viaggio in canoa di 1400 chilometri (in 14 giorni) sul Rio delle Amazzoni. Arrivato a Macapa, il governatore acquista la sua imbarcazione per metterla nel museo della cittadina: nessun altro pazzo ha compiuto un viaggio simile in canoa!
In un’intervista a Radio Grignetta di Lecco (1990) diceva: «Le note della missione io le ho scritte sul rigo dell’avventura. Ho fatto la missione così: avventurosamente. Io direi a tutti di fare della vita una Missione e un’Avventura. Quando questi due orientamenti stanno assieme, vie n fuori una cosa bella» .
Negli ultimi mesi di vita diceva spesso: «Le avventure di quaggiù le ho vissute tutte ed ora aspetto l’avventura più bella: faccia a faccia col Signore». Valla pena di ricordare qui un brano del discorso di addio che Augusto pronunziò nell’ottobre 1963, il giorno della consegna del crocifisso e della partenza per l’Amazzonia, nella chiesa del Pime di San Francesco Saverio in via Monterosa a Milano. Rivolto ai confratelli come lui partenti disse: «Soli, sotto il cielo stellato delle notti tropicali, con la sola compagnia di Dio, ci sembrerà di star compiendo un’Avventura, la più bella che ancor oggi valga la pena di essere vissuta, sulle orme di quei primi avventurieri di Dio: Pietro, Giovanni, Barnaba e Paolo. Soprattutto Paolo».
Ricerca di Dio e amore ai poveri
Tutta la vita di padre Augusto va letta in questa chiave: la ricerca di Dio e della santità, che lo lasciava sempre insoddisfatto, tormentato, ma anche allegro, entusiasta, pieno di fede e di speranza in tutto quel che faceva. Era orientato a Dio e non poteva condurre una vita triste. La sua allegria è un segno chiaro di retta intenzione e di una ricerca di Dio certamente tormentata, ma autentica. Non si può fare una vita come la sua ed essere sempre contento, se non c’è la motivazione pura di fare tutto per amore di Dio. E poi, le gravi e continue mortificazioni a cui s’è volontariamente sottoposto: penitenze che sembravano a tutti esagerate (fame, isolamento, mancanza e quasi rifiuto di cure mediche), fatte per tenere sotto controllo le proprie tendenze ed essere libero, leggero per trovare Dio.
Monsignor Giovanni Risatti, vescovo di Parintins quando Augusto era al Mocambo, mi ha detto:
«Caratteristica sua fondamentale era la ricerca di Dio e l’amore alla gente. Amava i caboclos che infatti lo cercavano. Per i caboclos era straordinario. Tant’è vero che è ancor oggi amato, ricordato dalla sua gente, quasi come se fosse vivo. Al Mocambo c’è un suo grande quadro dipinto dal fratello Michele De Pascale, la gente lo venera, vanno davanti al quadro e lo conservano come una reliquia.
(.. .) Ma anche a Parintins – continua monsignor Risatti – il popolo lo ricorda molto. È una grande figura di missionario, di evangelizzatore, di uomo che cerca Dio e non si siede mai. Le due caratteristiche della sua spiritualità erano la fede e il perdono. La gente lo adorava perché dava molto anche spiritualmente, come preghiera, sacramenti, catechesi. Aveva un’attenzione straordinaria alle persone, tant’è vero che nei posti in cui è stato, anche se dopo di lui sono andati buoni missionari, lo rimpiangono. Vengono a dirmi: “Noi vogliamo uno come padre Augusto…”. Quell’ amore e attenzione alla gente, ce li aveva solo lui. lo lo ricordo molto bene ed ha fatto tanto bene. Nella sua vita c’è qualche contraddizione, ma chi di noi non ce l’ha? Come figura è grandiosa, affascinante. Vale la pena di presentarlo soprattutto ai giovani d’oggi, perché aveva grandissimi valori, sia spirituali che sociali, umani, missionari. E quando andava in foresta non era per fare il turista, ma si dava a grandi penitenze e pregava davvero» (13).
Il padre Sossio Pezzella mi ha detto:
«Tutte le persone che hanno conosciuto padre Augusto ne parlano con ammirazione. Non c’è nessuno che lo ricordi in senso negativo, nonostante le sue stranezze. Era ben accetto al popolo, tutti se lo sentivano vicino. Pensa che dopo di lui, alla parrocchia San Giuseppe operaio in Parintins c’è stato padre Vittorio Giurin, un uomo di grande carità, la carità fatta persona, che è rimasto nel cuore di tutti. Ma quando si parla di padre Augusto, oh, allora veramente la gente si riscalda, si illumina. Anch~ perché stava molto, molto vicino alla gente: viveva con loro, andava nelle loro case, mangiava con loro e come loro, parlava la loro lingua fino in fondo, conosceva tutti i segreti della mentalità del cabodo e della loro vita.
(.. .) Il nostro è un popolo molto sensibile, ha più cuore che ragionamento. Quando si prende la gente dalla parte del cuore, si entra davvero in loro. Era soprattutto un uomo è}i grande affetto, di grande bontà con tutti. Un uomo di Dio e molti lo ricordano che parlava di Dio con passione, con poesia, come un innamorato di Dio. Ricordano che andava in foresta per incontrare e parlare con Dio. Impressionava tutti, entrava nel cuore di chi lo conosceva » (14).
«Abissi di felicità nel mio cuore»
Ho avuto due incontri con padre Augusto(15) ed entrambe le volte sono rimasto perplesso. In occasione di suoi ritorni in Italia, nel 1980 e nel 1985 , l’avevo avvicinato chiedendo gli di poter pubblicare qualcosa su di lui e sulla sua esperienza in Amazzonia. Aveva rifiutato: la prima volta mandando poi alcuni articoli per la rivista I.M. (Italia Missionaria, di cui allora ero direttore), ma erano episodi edificanti, graziosi e curiosi, non la sua esperienza; la seconda volta si era lasciato intervistare, ma poi erano passati due anni prima che desse il permesso (dopo vari scambi di lettere) di pubblicare il «servizio speciale» di Mondo e Missione del maggio 1987 (dal titolo «Mission ’87»): è il testo che l’ha fatto conoscere ed ha provocato l’intervista televisiva di Enzo Biagi (ottobre 1989) e quindi anche la biografia Dio viene sul fiume e questo volume di lettere.
Ma quello che mi aveva un po’ sconcertato era il motivo per cui padre Gianola rifiutava di scrivere o di lasciarsi intervistare. Continuava a ripetermi di essere indegno, peccatore, l’ultimo dei missionari, di non aver nulla da dire di positivo… insomma, una umiltà che a me sembrava esagerata, drammatizzata. Eppure in quelle conversazioni lo ammiravo perché parlava di santità, di amore di Dio e del prossimo con tutta naturalezza. Ricordo bene che a Roma, una sera d’estate del 1980, in una gelateria davanti ad un bel gelato, Augusto mi chiede: «Ma insomma, Gheddo, tu cerchi Dio? Tu aspiri alla santità?
Che immagine ti fai di Dio? Quali sono i tuoi rapporti con Gesù Cristo e la Madonna?». Un discorso per nulla abituale anche fra due preti e missionari, specie in quell’ambiente e circostanza.
Nel febbraio 1996 sono stato al Mocambo. Ho visto che il ricordo di Augusto (e questo vale anche per la città di Parintins) è molto vivo. Nella chiesa del Mocambo, un grande quadro di Augusto, opera di fratel Michele De Pascale, è esposto a fianco dell’altare ed è oggetto di venerazione e di preghiere. Non so con quanto rispetto delle norme della Chiesa, ma il Mocambo è una frazione della parrocchia della Cattedrale (lontana una giornata di viaggio con barca a motore!), visitata solo due-tre volte l’anno da un sacerdote. Là i caboclos e gli indios venerano i loro santi, fra i quali certamente anche Augusto, e bisogna chiudere un occhio (16).
Ed ho anche visto che molti suoi confratelli missionari, dopo la lettura di Dio viene sul fiume, che dà un quadro globale della vita di quest’uomo, hanno modificato il giudizio su di lui. Decantata l’irritazione per certi suoi scherzi fastidiosi e certi suoi comportamenti «<Lui era libero battitore – ho sentito spesso ripetere -, faceva quel che voleva, non stava a lungo nello stesso posto, lanciava molte iniziative e noi dovevamo portarle avanti»), oggi risulta evidente che la sua vita di missionario, pur così stravagante, eccentrica, originale, è un grande segno di evangelizzazione. In Amazzonia, ma anche nel nostro mondo secolarizzato e stanco di formalismi e di generici appelli ai «valori» su cui tutti concordano, padre Gianola annunzia Cristo e il Vangelo con forza e autenticità proprio anche col suo essere «fuori della norma», «fuori delle righe», non inquadrabile in nessuno schema giuridico o teologico.
Al termine della vita aveva raggiunto la serenità, la gioia, la certezza di aver trovato Dio. La sorella Annamaria, carmelitana del monastero di Sassuolo (Modena), mi ha detto: «Il titolo della sua biografia per me potrebbe essere: “Se non diventerete come bambini”, perché Augusto ha sempre conservato un cuore da bambino, lo diceva anche nostra mamma. Alla fine poi era proprio un fanciullo. Negli ultimi giorni, quando gli telefonavo, si esprimeva con difficoltà e mi diceva sempre: “Sono semplicissimo”. Capivo che voleva dire di aver raggiunto il massimo di semplicità nella vita spirituale. Poi aggiungeva: “Annamaria, abissi di felicità… Nel mio cuore abissi di felicità».
[1] P. Gheddo, Dio viene sul fiume. Augusto Gianola, missionario in Amazzonia: una tormentata ricerca di santità, con prefazione di Enzo Biagi, EMI, Bologna 1994, pp. 332 (con 32 p. di fotografie), £. 25.000.
[2] Aristide Pirovano (1915-1997), fondatore delle missioni del Pime in Brasile e in Amazzonia (1946-1949), prelato e vescovo di Macapà (1949-1965), superiore generale del Pime (1965-1977) e poi artefice fino alla morte della trasformazione del Lebbros~ario di Marituba in una città satellite di Belém, che oggi conta circa 80.000 abitanti. E in preparazione una biografia documentata. Si veda per il momento il volume Il Vescovo del sorriso. Dom Aristide Pirovano, Una vita per la missione di P. Gheddo e R. Guzzeloni, Pime, Milano 1997, pp. 200.
[3] Sono nove quaderni grande formato scritti a mano consegnatimi dalla famiglia, a cui Augusto li mandava man mano che li scriveva. Le lettere che pubblichiamo completano bene il diario e la biografia tratta dal diario (Dio viene sul fiume).
[4] Certe imprese di Augusto, come le esplorazioni fra gli indios e il viaggio in canoa da Urucarà, vicino a Manaus, a Macapà, sulle rive dell’Oceano (1400 chilometri in 14 giorni), meriterebbero un film, se i nostri produttori, registi e televisioni non inseguissero solo la violenza e il sesso.
[5] In particolare, oltre alle sorelle e al fratello, ringrazio i “Centpe” (cento piedi), il gruppo d’appoggio di Locate Varesino (dove Augusto aveva trascorso i primi anni di ministero saceraotale), che ha scambiato con padre Gianola lettere veramente interessanti, con molte novità rispetto a quanto già si sapeva dal diario. Il gruppo dei Centpe è stato veramente formidabile: un’amicizia durevole, forte, vera, sincera perché fondata su un amore autentico alloro don; un’amicizia che ha arricchito sia padre Gianola che i membri dei Centpe. Questo gruppo d’appoggio ha saputo portare avanti le iniziative coinvolgendo tutta la popolazione, i giovani compresi, e sostiene ancor oggi le opere iniziate da padre Augusto anche dopo la sua morte.
Da segnalare il fatto che il parroco don Battista Legramandi è stato sempre vicino al gruppo, ha saputo assisterlo e integrarlo nella parrocchia. Ha capito il valore spirituale di questo rapporto di fede col missionario lontano, intelligenza che non è di tutti. I Centpe hanno sempre accettato Augusto così com’era, anche se le sue idee erano estremiste, sballate. Gli dicevano il loro parere con sincerità e carità, senza mai giudicarlo: e anche quando pareva che lui facesse tutto il contrario, alla fine, il buon senso dei suggerimenti dei Centpe rimaneva sempre vivo in lui e lo orientava bene.
[6] Missionario del Pime di cui è in corso dal 1996 la Causa di Canonizzazione. Nato ad Agrate Brianza (Milano) nel 1897, dopo tre anni di guerra mondiale e tre medaglie al valor militare, diventa sacerdote del Pime nel 1923 e parte lo stesso anno per la Birmania, dove vive fino alla morte avvenuta il 15 giugno 1988: aveva 91 anni e 65 anni di missione. Una vita piena di fede e di avventure. E invocato come” protettore dei bambini” perché viveva con 250 orfani e orfane di guerre e di carestie, che raccoglieva nei villaggi. Si veda la sua biografia: P. Gheddo, Prima del sole, EMI, Bologna 1992; una selezione dei suoi articoli: C. Vismara, Il bosco delle perle, EMI, Bologna 1995, pp. 156; e la videocassetta prodotta dal Pime Clemente Vismara, il Santo protettore dei bambini. Chi vuole ricevere gratuitamente il bollettino della sua Causa di Canonizzazione (Padre Clemente racconta) scriva al “Gruppo Amici di Padre Vismara», Parrocchia Sant’Eusebio, 20041 Agrate Brianza (Mi).
[7] C. Vismara, Lettere dalla Birmania, San Paolo, Cinisello B. (Mi) 1995, pp. 240. Nella stessa collana ho pubblicato anche M. Candia, Lettere dall’Amazzonia, San Paolo, Cinisello B. (Mi) 1996, pp. 356.
[8] Ringrazio la mia segretaria, suor Franca Nava, missionaria dell’Immacolata: lei ha trascritto le lettere di padre Augusto al computer.
[9] Si veda infra la Cronologia di padre Augusto Gianola e l’introduzione al capitolo I per la sua vita prima di entrare nel Pime,
[10] Si veda l’elenco completo nel volume P. Gheddo, Missione Amazzonia. I50 anni del Pime nel Nord Brasile (1948-1998), EMI, Bologna 1997, pp, 400 (con 32 pagine di foto).
[11] I due volumi si completano a vicenda.
[12] Si veda Gheddo, Dio viene sul fiume, cit., p. 44. Sugli scherzi di padre Gianola si veda anche l’introduzione al capitolo II di questo libro.
[13] Intervista del 9 luglio 1993 a Milano.
[14] Intervista del 13 febbraio 1996 a Parintins.
[15] Oltre agli incontri prima della sua partenza per l’Amazzonia e in occasione del mio primo viaggio a Parintins (luglio 1966) quando mi accompagnò in visita ad alcune sue comunità dell’interno.
[16] Padre Giovanni Andena racconta che, quand’era parroco a Maués, in occasione del Natale aveva fatto in chiesa un grande presepio, facendo venire dall’Italia delle belle statue di gesso. Nella settimana prima del Natale, aveva sistemato il presepio con le varie statue, naturalmente senza san Giuseppe, la Madonna e il Bambino. Un mattino, entra in chiesa e vede inginocchiate davanti al presepio alcune pie donne che pregavano assieme. Chiede loro chi pregano, dato che non c’è la Sacra Famiglia e Gesù non è ancora nato. Rispondono: «Preghiamo l’asino e il bue perché assistano i nostri animali».
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