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Padre Gheddo e Frere Roger di Taize

Il 28 giugno 2004 termina l’anno del cinquantesimo anniversario dalla mia ordinazione sacerdotale: un anno faticoso, ma pieno di gioia. Non so quante celebrazioni e conferenze sono stato invitato a fare in tutta Italia per questa ricorrenza: certamente parecchie decine! Pubblicando il libro La Missione continua – Cinquant’anni di servizio alla Chiesa e al terzo mondo (San Paolo 2003, pp. 367, due edizioni in un anno), ho pubblicizzato l’avvenimento e mi hanno chiamato in parrocchie, diocesi, seminari, associazioni anche non ecclesiali. Il titolo dell’incontro che incuriosiva era spesso questo: “È bello fare il prete! Testimonianza di padre Piero Gheddo, da cinquant’anni sacerdote e missionario del Pime”.

Ringrazio il Signore di tutto e gli amici che, invitandomi, mi hanno permesso di ripetere e documentare ogni volta che “è bello fare il prete!”. Il messaggio che ho lanciato è praticamente sintetizzato da questa spontanea espressione che mi viene dal cuore. Questa è una “buona notizia” che non si legge quasi mai sui giornali né si sente alla televisione. Bisogna dirlo perché ci sono tanti preti che, dopo cinquant’anni spesi per la Chiesa e il loro popolo, pur tra molte difficoltà, incomprensioni, sofferenze, non sono delusi ma contenti di fare i preti. Premesso che ogni vocazione data da Dio, se vissuta nella sua grazia, è buona e porta gioia, è bello fare il prete essenzialmente per due motivi. Primo, sei nella posizione migliore per innamorarti di Gesù Cristo: solo così infatti possiamo annunziare il Risorto e dare agli uomini del nostro tempo, tentati di pessimismo e anche di nichilismo, una testimonianza della gioia e della speranza che solo Cristo può suscitare nei cuori.

Il secondo motivo: dopo mezzo secolo di ministero sacerdotale sono ancora più convinto del fatto che tutti gli uomini e le donne, tutti i popoli e tutte le culture umane abbiano bisogno della salvezza che viene da Cristo: Figlio di Dio fatto uomo per liberarci dal peccato, unica fonte di ogni tristezza; ne hanno bisogno anche quelli che non lo conoscono, anche quelli che non credono o non ci pensano mai. Gesù è l’unica ricchezza che abbiamo. La conseguenza è logica: il prete ringrazia Dio di averlo chiamato a rendere all’umanità il miglior servizio che si possa immaginare e si impegna a rimanere fedele al dono ricevuto. Può aver commesso degli sbagli e dei peccati, ma la misericordia di Dio è molto più grande delle nostre miserie e nulla può oscurare il sentimento profondo di aver speso bene la propria vita. Anzi, con l’aiuto di Dio, di continuare a spenderla bene, per aiutare i fratelli e le sorelle a sperimentare l’amore e la bontà del Signore.

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Nel febbraio 2003, nell’isola di Sumatra in Indonesia un missionario saveriano mi diceva: “A volte i miei parenti e amici mi scrivono: cosa fai tra i musulmani che non vogliono sentire parlare di Gesù Cristo? Ebbene, rispondo che non è vero. Se tu dai con semplicità la tua testimonianza, anche loro capiscono di aver bisogno del Vangelo. Un alto funzionario governativo mi diceva: voi cristiani siete gli unici che parlate di perdono, di pace, di amore; quando succedono lotte fra le varie etnie, nei comitati di pacificazione governativi c’è sempre almeno un cristiano per questo motivo”.

Una riflessione per i giovani sposi: se lo Spirito getta un seme di vocazione alla vita consacrata in un vostro figlio o figlia, non ostacolateli, ma aiutateli a capire la volontà del Signore ed a maturare una risposta convinta. Non pensate che Dio vi chieda un sacrificio. No, vi fa un grande dono, perché il prete e la suora portano la sua benedizione nella vostra famiglia. Ci lamentiamo spesso che ci sono pochi preti; che è difficile trovare un prete libero che ci possa ascoltare, visitare i nostri ammalati. Abbiamo mai chiesto al Signore che getti il seme della vocazione sacerdotale e missionaria, in qualche ragazzo o giovane della nostra famiglia? L’ho già detto e scritto tante volte: la mia vocazione viene dalla preghiera che mio papà e mia mamma hanno fatto quando si sono sposati nel 1928: che almeno uno dei loro figli diventasse sacerdote o suora. L’anno dopo sono nato io e i miei parenti mi hanno detto che da quando avevo sei-sette anni, a chi mi chiedeva cosa avrei fatto da grande, rispondevo: il prete! Ero troppo piccolo per dare questa risposta, si vede che la preghiera dei miei genitori il Signore l’ha esaudita.

 Piero Gheddo
giugno 2004

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