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Nel corso dell’ultimo anno ho tenuto decine di conferenze sul tema del volume “La Missione continua – Cinquant’anni a servizio della Chiesa e del terzo mondo” (San Paolo, pagg. 364), pubblicato nel 2003 in occasione dei miei 50 anni di sacerdozio. Ho raccontato perché mi sono fatto prete e missionario e cos’è la “missione alle genti” della Chiesa: testimoniare e annunziare Gesù Cristo a tutti i popoli e fondare la Chiesa dove ancora non esiste. E’ stato per me gratificante parlare del tema che è lo scopo della mia vita a tanti amici, non solo in ambienti cattolici, ma anche in circoli laici, centri culturali, biblioteche, università; e ringrazio tutti coloro che mi hanno invitato. La domanda più frequente che mi sono sentito rivolgere è stata questa, espressa in varie forme: perché esportare la nostra religione a popoli che già hanno una loro tradizione di credenze e di metodi di preghiera? Le varie religioni non sono in fondo molte vie che conducono allo stesso Dio? Un docente universitario ha “dimostrato” che le missioni cristiane sono nate nel tempo della colonizzazione e avevano un senso in quei secoli, ma non ce l’hanno più oggi, quando tutti i popoli vogliono ricuperare la loro identità culturale e anche religiosa (è stato facile rispondere che San Paolo e gli altri apostoli hanno annunziato Cristo ai non cristiani 1.500 anni prima dell’epoca coloniale!).
I missionari sono ammirati: curano i malati, istruiscono gli analfabeti, danno una coscienza ai più poveri e oppressi, aiutano lo sviluppo dei popoli. Ma perché “esportare” la nostra religione? S’è instaurato, a volte, un dibattito interessante, che andrebbe ripreso anche in ambienti ecclesiali: rifiutare o non capire la missione ai non cristiani significa non credere, o per lo meno dubitare, che Gesù Cristo è venuto a salvare tutti gli uomini. Non esiste una spiegazione razionale della “missione ad gentes”. La risposta vera e unica è fondata sulla fede in Cristo, unico Salvatore dell’uomo e dell’umanità; e quanto più la fede in Cristo è forte e viva e tanto più si comprende il dovere della Chiesa di annunziare ai popoli che Gesù è venuto a rivelarci “il volto di Dio”. Tutti i popoli cercano Dio, che però si è manifestato pienamente (nella misura in cui noi piccoli uomini possiamo comprenderLo) solo nel Figlio, il Messia, Cristo Salvatore.
Mi sono però reso conto che questa affermazione di fede convince solo i credenti. Occorre farla, ma è necessario insistere sul fatto che proprio la storia dimostra la verità della rivelazione cristiana. La Carta dei Diritti dell’Uomo approvata dall’ONU (dicembre 1948) ha evidenti radici cristiane ed è oggi punto di riferimento per tutti i popoli. Non perché imposta da qualcuno, ma perché quando i popoli crescono, aspirano inevitabilmente a quei valori e istituzioni che caratterizzano l’Occidente cristiano (libertà, diritti dell’uomo e della donna, democrazia, giustizia sociale, ecc.). Tant’è vero che il segretario dell’ONU il buddista birmano U Thant (1962-1972) aveva dato vita a comitati di studio buddisti e islamici per giungere ad una “Carta” di radici diverse da quella del 1948 (cioè ispirata ai principi dell’islam e del buddismo): ma senza giungere ad alcuna conclusione.
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Il grande filosofo Sarvepally Radhakrishnan, Presidente dell’India negli anni sessanta, diceva ad un congresso dell’Unesco a Manila (21 gennaio 1960): “Tutti i mali attuali dell’Asia vengono dallo scontro con le potenze occidentali, ma da qui vengono anche tutti gli impulsi positivi che abbiamo ricevuto per far camminare avanti la nostra storia” (In “Orient-Occident”, Unesco, Parigi, aprile 1960, pagg. 3-4). Lo stesso si può ripetere per i popoli africani e americani prima dell’incontro con l’Occidente.
Nel popolo cristiano spesso non si capisce più la differenza tra cristianesimo e altre religioni: si pensa che ciascuno ha il suo modo di intendere e pregare Dio, per cui più o meno tutte le religioni si equivalgono. I missionari testimoniano che questo non è vero: le differenze fra ambiente cristiano o cristianizzato e ambiente pagano sono abissali. Penso che il dibattere sulla missione “ad gentes”, nel tempo della globalizzazione, ha un valore molto importante per la “nuova evangelizzazione”: farci prendere coscienza delle radici da cui veniamo e renderci responsabili di aver ricevuto il dono della fede, di fronte ai popoli che ancora non l’hanno ricevuto. Per concludere, dobbiamo ripartire da Cristo, dalla fede e dall’esperienza di Cristo nella nostra vita e nella vita dei popoli. Il mese di ottobre, tradizionalmente consacrato alla “giornata missionaria mondiale” (24 ottobre 2004), ha soprattutto questo significato.
Piero Gheddo
marzo 2004
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