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Mi permetto di intervenire sul tema trattato da Daniele Ciravegna: “Come uscire dalla morsa della fame” (LVP, 6 novembre 2005). A dicembre ritorno in Africa (Senegal, Mali e Guinea Bissau): la stessa domanda vedo che là se la pongono in molti, come pure in Italia. Ciravegna riassume bene la situazione del mondo attuale, che bisogna continuamente richiamare perché è assolutamente scandalosa, intollerabile: “30 milioni di persone muoiono di fame ogni anno, 800 milioni soffrono di denutrizione grave e permanente”; d’altra parte, noi, mondo ricco, abbiamo tutto e più di tutto! Quindi la domanda: “Come uscire dalla morsa della fame”.

La risposta di Ciravegna non convince: “Si tratta ovviamente di una questione di distribuzione di ciò che si produce fra chi ha bisogno di consumare per sopravvivere, cioè tutti. Ora si sa che il 20% della popolazione mondiale consuma l’80% dei beni disponibili … e lo stesso 20% produce l’80% dei beni disponibili. A ciascuno il suo, dunque, ma ciò comporta inevitabilmente che l’80% della popolazione mondiale non potrà utilizzare che il 20% dei beni disponibili e ciò porta alla fame”.

Non capisco: perché l‘80% della popolazione mondiale, una volta educata a produrre, non può produrre il suo cibo e tutto quello di cui necessita? L’India nel 1966 ebbe l’ultima grande carestia, oggi esporta cibo perché il governo s’è impegato nell’agricoltura e nelle regioni rurali,cosa che assolutamente non succede in Africa. Cito esempi che ho portato molte volte, per far capire che la causa radicale della fame non è la mancata distribuzione del cibo prodotto, ma l’educazione che permetta ai popoli poveri di produrre anch’essi il necessario e il superfluo alla vita. A Vercelli produciamo 75 quintali di riso all’ettaro, nell’Africa nera rurale (cioè escluse le fattorie modello e moderne) solo 4-5 quintali all’ettaro. Nella pianura padana le vacche lattifere producono 25 litri di latte al giorno, in Africa non producono latte, eccetto uno o due litri al giorno quando hanno il vitello. E potrei continuare con tanti altri esempi concreti. Anche sul piano della produzione industriale.

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Non si tratta quindi di “distribuire” il cibo o la ricchezza prodotti, ma di insegnare a produrre. Lo stesso si può dire della pesca: Ciravegna dice che ai pescatori che pescano troppo poco bisogna dare una rete o altri strumenti per pescare di più. Giusto, ma non basta dare gli strumenti, bisogna insegnare ad usarli, aiutarli, anche attraverso la scuola, ad inserirli con pazienza nel loro mondo culturale, farli accettare dalla cultura tradizionale, che in genere non tollera novità. In Guinea Bissau un missionario del Pime, padre Luigi Scantamburlo, ha fondato nelle isole Bijagos decine di piccole cooperative di pesca di villaggio, portando strumenti moderni: dove prima, con un mare pescosissimo, si moriva di fame, oggi si è elevato il livello di vita. Ho chiesto a padre Gigi: “Qual è la maggior difficoltà che hai incontrato in quest’opera?”. Risponde: “Convincere i capi villaggio e i capi tribù ad accettare le nuove forme di pesca comunitaria, barche, reti, ecc, Per la mentalità tradizionale africana il futuro non sta nel cambiare e migliorare i sistemi di produzione e di vita, ma mantenere il villaggio così come l’hanno lasciato gli antenati”.

Dieci anni fa ho visitato il padre della Consolata Camillo Calliari in Tanzania. Sull’altopiano di Kipengere ha creato un “polo di sviluppo” lodato anche dal governo, che coinvolge migliaia di persone: scuole ovunque e assistenza sanitaria, acqua corrente nei villaggi, produzione agricola moderna (per la prima volta si produce frumento a 2.000 metri), produzione di formaggi e di vino, piscicoltura in laghetti artificiali, allevamenti di bestiame, rimboschimento della regione (ogni anno vengono piantati con l’aiuto dei ragazzi delle scuole, 70 mila pini, cipressi, eucaliptus), ecc. Baba Camillo mi diceva: “La mia gente sono i Wabena, un tempo abili pastori e guerrieri, di grandi valori umani, ma ancora ai primi passi nell’agricoltura moderna. Vedono le realizzazioni della missione e dei villaggi vicini e vengono anche da lontano a dirmi: insegnaci a fare lo stesso. Io faccio quel che posso, ma cos’è questo di fronte all’immensità della sola Tanzania?” (estesa quasi tre volte l’Italia).

Fin che non si capisce che la radice del sottosviluppo è “culturale” (cioè culture non ancora adattate al mondo moderno), non si capisce nemmeno com’è il modo migliore per aiutarli a vincere la fame; e si illudono gli africani: più facile protestare contro gli stranieri che impegnarsi a “tirar su” le loro popoazionei poverissime e marginali. Per un continente, in cui circa il 50% degli abitanti sono analfabeti, non si parla mai di educazione e di cultura, ma la radice della povertà sta qui. Quando l’Africa aveva 280 milioni di abitanti all’inizio degli anni sessanta, 4-5 quintali di riso all’ettaro bastavano. Non bastano più oggi che il continente ha superato gli 800 milioni e l’Africa nera importa o riceve in dono circa il 30% del cibo che consuma. E poi, diciamoci la verità, è più facile protestare contro i popoli ricchi, le multinazionali, i nostri governi e i nostri popoli, che non aiutare davvero i popoli poveri, specie africani, a svilupparsi in modo autonomo. Naturalmente noi popoli ricchi e cristiani abbiamo i nostri gravi crimini e colpe di cui dobbiamo pentirci e correggerci, ma la radice del sottosviluppo non è questa! Se fosse questa, i popoli non colonizzati (Etiopia, Liberia, certi regioni interne come il Karamoja in Uganda, in passato proibito ai bianchi) dovrebbero essere più sviluppati di altri colonizzati. Invece è vero il contrario, infatti oggi il motore economico dell’Africa nera è il Sud Africa, da poco uscito da un regime criminale e odioso come l’apartheid razziale, ma che educava i neri!

La domanda da farsi è questa: chi va ad educare nelle campagne africane, come fanno i missionari e i volontari laici? I governi locali, per tanti motivi, lo fanno poco e gli africani educati nel modo moderno (ad esempio, gli studenti che vengono a laurearsi in Europa), se trovano una sistemazione da noi non tornano più nei loro paesi o, se tornano, si fermano facilmente nelle città dove trovano comunque da vivere. Il problema che non si affronta è questo: noi mandiamo in Africa, soldi, macchine, commerci, multinazionali, politici ricchi di promesse, ma non giovani disposti a spendere la vita o almeno alcuni anni della vita per fare un cammino di crescita umana e di sviluppo economico a fianco degli africani. Nel 1975 i missionari italiani in Africa erano circa 8.000, oggi sono 6.000. Nel 1985 i volontari laici italiani in Africa erano 1750,oggi meno di 500!

Padre Gheddo su La Voce del Popolo (2005)

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