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Nei miei studi e letture e nei miei viaggi mi ha sempre appassionato l’India e anche l’induismo, per un preciso motivo: penso che il popolo indiano, la cultura e la religione dell’India abbiano conservato un profondo spirito religioso, un richiamo a Dio costante nella vita, che noi in Occidente abbiamo perso o stiamo perdendo. La nostra cultura moderna è bacata dall’ateismo (basta pensare a illuminismo, idealismo, liberalismo, marxismo, socialismo, comunismo, nazismo). In India e nelle cultura indiana l’ateismo non esiste. Di più, il rinnovamento dell’induismo nei tempi moderni (dalla seconda metà del 1800) ha avvicinato molto la religione e la cultura indiana a Cristo.
Leggendo testi di Ramakrishna, Vivekananda e Gandhi, mi sono chiesto: perchè gli indù non si convertono a Cristo, quando ammirano il Vangelo e le Beatitudini e ammettono che sono una risposta molto precisa e vera ai problemi dell’uomo? Non parlo di masse di popolo, ma di intellettuali, filosofi, uomini religiosi che riflettono e vedono, non solo nei testi cristiani, ma nelle missioni, nella Chiesa e nelle comunità cristiane dell’India, la testimonianza molto concreta del fatto che dalla fede in Cristo viene un autentico umanesimo?
Parlo a Roma con un giovane confratello del Pime, padre Lokhande Rupak Yashwant, sacerdote dal 2004 e oggi a Roma per studi di specializzazione in una Università ecclesiastica. Ecco la breve ma significativa intervista:
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Secondo te, gli indù ammirano i cristiani? E perché non si convertono a Cristo?
Il popolo cristiano dà in India una bella testimonianza di amore, di pace, di impegno per lo sviluppo. Molti indiani ci ammirano, Madre Teresa è un po’ l’icona del cristianesimo, ammirata, amata e venerata da tutti. Gli ostacoli per la conversione a Cristo sono tre:
1) L’induismo è panteismo e per loro è molto facile venerare e amare Gesù come un profeta, uno dei tanti grandi santi e profeti, una delle tante manifestazioni di Dio che ha anche la storia dell’India. Ma Dio è altro dall’uomo. L’induismo ingloba tutto e inserisce Cristo e i suoi valori nel proprio pantheon. La Chiesa cattolica e le Chiese cristiane sono ammirate per il contributo che hanno dato e danno all’istruzione, alla sanità, all’assistenza sociale dei poveri, ma il popolo indù non capisce perché ci debbano essere degli enti religiosi staccati da quella che è la tradizione indiana. Tutte le religioni sono vie diverse che portano allo stesso Dio. Perché dunque dividerci e combatterci se abbiamo la stessa meta?
2) Il secondo motivo è la nascita dei partiti indù estremisti, che strumentalizzano a scopo politico lo spirito religioso del popolo e hanno creato lo stereotipo che il vero indiano è solo chi è indù. Gli altri sono stranieri alla nazione indiana, non rappresentano l’identità profonda dell’India. Se uno si converte al cristianesimo è come se diventasse uno straniero, non è visto bene. Convertirsi a Cristo è inteso come un tradimento della patria e questo pensa anche il popolo più semplice.
3) Il terzo motivo è anche molto importante, ma più difficile da spiegare e da capire. Il pensiero indiano ha una logica diversa da quella dell’Occidente. Quando noi parliamo di fede e di ragione, come spesso fa Papa Benedetto XVI, l’India pensa che la ragione può arrivare fino ad un certo punto, ma la religione supera tutto, persino la ragione umana perché Dio Creatore e Giudice è infinitamente più grande dell’uomo. La cultura indiana, l’induismo hanno grandi filosofi, tutti con profonda fede religiosa, ma non mettono assieme o in contraddizione fede e ragione. Sono due livelli diversi.
Per scendere al pratico, cosa vuoi dire?
La società indiana è divisa in varie caste e fuori casta e questo viene da una credenza religiosa dell’induismo. L’uomo nasce in una casta superiore o inferiore o tra i fuori casta (paria) perché nella vita precedente ha avuto un karma positivo o negativo, ha compiuto il bene oppure il male. In questa vita deve fare il bene e anche soffrire per meritarsi un karma migliore e poter rinascere nella prossima vita in una casta superiore o almeno non più tra i fuori casta. Questa, molto sommariamente, la credenza comune, che, noi diciamo, è in contraddizione con la Costituzione (che ha abolito le caste) e le leggi dell’India, che parlano di eguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla legge e di giustizia sociale. Ma a livello popolare l’indiano comune non la pensa così. Mi spiego.
L’induismo ha avuto nell’ultimo secolo un rinnovamento molto forte, sotto il grande esempio ed influsso delle missioni cristiane e della colonizzazione inglese che ha portato le leggi inglesi (cioè di un paese cristianizzato), ed è giunto a capire la dignità dell’uomo e l’eguaglianza sostanziale di tutti gli uomini, superando praticamente la credenza delle caste, che viene dalla rinascita delle anime e dal karma. Ma questo progresso delle élites non è ancora arrivato a livello popolare. Il paria, che non può vivere nei villaggi di casta, non può entrare nel tempio, non può attingere acqua dal pozzo del villaggio, si è meritato questa sua posizione di inferiorità ed è bene per lui essere servo, povero, degno di essere sfruttato dalle alte caste. Lui è un servo, deve servire, dev’essere povero e umiliato perché questo è il suo karma: deve soffrire per arrivare al livello degli altri.
La legge indiana ha abolito e proibito le caste e nelle città quasi sempre le caste non hanno più valore pratico. Ma nelle campagne si pensa e si vive ancora come in passato. Quindi c’è una contraddizione evidente fra una credenza dell’induismo e la mentalità che sta diventando comune secondo la Costituzione e le leggi indiane. Le persone più istruite riconoscono che questo viene da Cristo e dal cristianesimo.
Come congiungi tutto questo col tema fede e ragione?
Benedetto XVI fa molto bene ad insistere sul tema fede e ragione. La fede in Dio non si oppone alla ragione umana, nel senso che la ragione umana, pur non spiegando il mistero di Dio (cosa impossibile all’uomo), non trova però nulla di contraddittorio tra la fede e la ragione dell’uomo. Parlando ai musulmani nella famosa lezione all’Università di Ratisbona, il Papa ha insistito sul rapporto fede-ragione, come punto d’incontro e di dialogo fra le religioni e con i filosofi e pensatori atei e non credenti del mondo occidentale.
In India la situazione è diversa: c’è una grande attenzione e aderenza alla fede religiosa, ma la ragione è messa in secondo ordine. La religione-spiritualità dell’India è grande, ma ha anche dei limiti e degli errori diciamo teologici. E’ staccata dalla vita, perché non conosce Dio, non riconosce come Dio Gesù Cristo, che è Dio e uomo nello stesso tempo ed è venuto a rivelarci che Dio è vicino all’uomo perchè è Padre, Dio è amore. Non è un ente misterioso e lontanissimo, inconoscibile e incomprensibile.
Per le masse del popolo indiano la fede conta tutto, la ragione poco o nulla. L’India crede profondamente in Dio ma non lo conosce. Non crede in un Dio fatto uomo in senso reale, storico, com’è avvenuto in Cristo. Il Dio degli indiani è talmente lontano, incomprensibile e inconoscibile all’uomo, abissalmente diverso dalla ragione umana, che Dio non si contraddice mai, poiché è fuori da ogni logica umana. Per noi uno più uno è uguale a due, per Dio non sappiamo, può fare due o cinquecento o comunque non conosciamo nulla di Dio e non possiamo arrivarci a conoscerlo con la ragione umana.
Quel che dici è molto chiaro e spiega anche la difficoltà del dialogo fra cristiani e non cristiani.
In Occidente non si capisce questa radicale e inconciliabile diversità fra cristianesimo e induismo, ma noi cattolici indiani la capiamo molto bene e ringraziamo ogni giorno il Signore di averci chiamati alla fede in Cristo, poiché è Cristo che risolve i problemi dell’uomo, nessun altro. Per questo sono contrario ad un certo tipo di “inculturazione” che, ad esempio, pretende di leggere nella Messa i testi sacri dell’induismo o anche nella liturgia di ripetere gesti e riti troppo strettamente congiunti con le celebrazioni indù. I cristiani indiani sono contrari perché tutte quelle parole e quelle forme richiamano l’induismo, da cui vogliono staccarsi per aderire a Cristo.
Anche l’islam crede nella siderale lontananza di Dio dall’uomo. Papa Benedetto, insistendo su fede e ragione, porta Dio vicino all’uomo in Cristo Figlio di Dio che si è fatto uomo per rivelarci il volto di Dio (per quanto noi uomini possiamo comprendere). Quando si capirà bene il valore di questo discorso di Benedetto XVI, con tutte le conseguenze che si tira dietro, allora penso che sarà molto più facile il dialogo con induismo, islam e buddhismo, e anche l’avvicinamento del mondo indù a Cristo.
D’accordo, questo è un motivo diciamo filosofico e teologico. Ma nella vita concreta di tutti i giorni, possibile che gli indù non vedano come i cristiani, ad esempio, oltre a creare molte opere di carità e di educazione per tutti, hanno saputo elevare i paria, i tribali, le basse caste dell’India, cioè decine e decine di milioni di indiani che erano depressi e schiacciati dalla legge del karma e non capiscano che nel mondo moderno il Vangelo è l’unica formula per portare la società indiana a svilupparsi in modo armonico, senza più le divisioni delle caste?
Fra cristiani e indù c’è un abisso, perché loro ragionano in modo diverso dal nostro, cioè secondo la credenza nella reincarnazione delle anime. Il paria è povero e soffre la fame? E’ bene che sia così, perché nella vita precedente ha commesso gravi crimini o peccati e adesso il suo karma sta purificandosi. Poi rinascerà in una casta e starà meglio.
Però anche in India si parla di giustizia sociale e la Costituzione indiana, come le leggi varate dal Parlamento, hanno recepito questo compito di uno stato moderno: rendere la società meno ingiusta verso i poveri, elevare i poveri, equilibrare le classi sociali con meno ingiustizie e con la promozione degli ultimi. Come fanno gli indiani a sanare questa contraddizione?
Secondo l’indiano del popolo non c’è contraddizione. Lo stato fa il suo dovere e promuove il welfare secondo la Costituzione e le leggi, l’induismo dice un’altra cosa. Ma la ragione non c’entra con la fede, che è una credenza tradizionale identitaria dell’India, quindi da non abbandonare anzi da fortificare. Un sentimento che rende legati alla patria e fieri della nostra India dalla civiltà millenaria. Ripeto, quando l’India discuterà e capirà a fondo il discorso di Papa Benedetto su ragione e fede e sulla ragionevolezza della fede cristiana, a vantaggio dell’uomo e della società umana, allora l’India si avvicinerà ancor più a Cristo.
Piero Gheddo
maggio 2010 – Avvenire
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