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I – LO SVILUPPO DELL’UOMO VIENE DA DIO
La terza Enciclica di Benedetto XVI “Caritas in veritate”, la carità nella verità, è veramente un testo di grande valore che merita di essere letto e conosciuto. E’ il tentativo riuscito di presentare in modo sintetico la situazione caotica in campo economico-finanziario in cui ci troviamo tutti sommersi, allo scopo è di orientare l’economia mondiale, specie quella dei paesi ricchi, verso la solidarietà con i popoli più poveri. Veramente Papa Benedetto usa il termine “fraternità”, preferito a solidarietà: gli uomini infatti sono tutti fratelli perché figli dello stesso Padre; quindi, i più ricchi debbono aiutare i più poveri affinchè possano anche loro essere protagonisti del proprio sviluppo.
I parte – Lo sviluppo dell’uomo è una vocazione, una chiamata di Dio
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All’inizio della sua Enciclica, Benedetto XVI usa un’espressione che va spiegata. Richiamandosi a Paolo VI e alla Populorum Progressio, dice che “il progresso è nella sua origine, una vocazione. Nel disegno di Dio ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, poiché ogni vita è una vocazione”.
Concetto importante. Dio crea l’uomo e gli dà una meta che è di migliorare il suo rapporto con Dio, con i fratelli, con la natura; cioè per creare a poco a poco un mondo più vivibile per tutti. Vedremo meglio più avanti che una delle idee più rivoluzionarie della Bibbia nella storia dell’uomo, che vive con uno scopo,una meta da raggiungere.
Un ricordo personale. Sono stato collaboratore e amico di Indro Montanelli, il più grande e famoso giornalista italiano del Novecento. Collaboravo con lui al Giornle e a volta, quando tornavo dai viaggi di visita ai missionari andavo a trovarlo, portavo l’articolo che poi pubblicava e mi faceva sedere facendomi domande sulla religione, sul Papa, sulla morale cattolica. Si definiva “un cattolico non credente” e una volta mi dice: “Vedi, tra noi due, il fortunato dei tu perché hai la fede. Io non ce l’ho e vivo male. Tu sei sempre contento e sorridente, io soffro d’insonnia e depressione. Tu sai perché vivi, io, a ottanta e più anni ancora non lo so”.
Però anche noi cristiani ci accorgiamo oggi quanto distanti siamo ancora da questa meta: lo “sviluppo integrale, di ogni uomo e di tutti gli uomini”.
La tre giorni che gli otto Grandi della terra (G8) hanno celebrato all’Aquila dal 10 al 12 luglio scorso, aveva anch’esso lo stesso tema di dibattito: come mettere ordine nella finanza e nell’economia e come aiutare i popoli che ancor oggi soffrono la fame, affinchè il mondo proceda unito verso un miglioramento globale.
Secondo l’ultima stima della FAO (l’agenzia dell’Onu per l’alimentazione e l’agricoltura), per la prima volta nella storia umana più di un miliardo di persone, un sesto della popolazione del pianeta, soffrono la fame, almeno in certi periodi dell’anno. Invece di diminuire di numero, gli “affamati” pare che aumentino. Nel documento della FAO si legge: “Un mondo affamato è un mondo pericoloso per tutti”. La morte per fame è atroce, gli studiosi dicono che causa a chi la subisce le maggiori sofferenze rispetto a qualsiasi altro genere di morte! Secondo la FAO, l’Africa nera, in proporzione al numero dei suoi abitanti, è il continente che più ne è colpito: 265 milioni di affamati, un terzo degli africani a sud del Sahara.
Secondo l’Undp (United Nations Development Programm), l’organismo dell’ONU incaricato di monitorare lo stato dei vari paesi, nel mondo ci sono
a) 55 paesi sviluppati
b) 85 paesi in via di sviluppo
c) 34 paesi in via di sottosviluppo, quasi tutti nell’Africa nera.
Si noti che lo “sviluppo” di un paese è calcolato non solo sulla ricchezza nazionale prodotta (il PIL) ma secondo ben dodici criteri che comprendono stato di diritto, pace, giustizia, libertà politica, libertà religiosa, alfabetizzazione, assistenza sanitaria, ecc. Addirittura ci sono popoli che non solo non vanno avanti, ma vanno indietro, cioè oggi la loro situazione umana è peggiore di quella che avevano nel recente passato. Che oggi ci siano 34 paesi “in via di sottosviluppo” è forse il problema più drammatico che l’umanità deve affrontare, perchè è il maggior ostacolo alla pace mondiale e alla collaborazione e solidarietà fra i vari popoli e culture.
Ormai tutti comprendono che, come diceva John Kennedy nel 1961 quando lanciava il programma di collaborazione allo sviluppo dell’America Latina, che “non è possibile vivere tranquilli e in pace, quando sappiamo che decine di milioni di uomini e donne ancora soffrono la fame, la dittatura, la mancanza del minimo necessario alla vita”.
Il vero problema al quale non si è ancora trovato risposta è questo: noi, popoli ricchi e “sviluppati”, cosa dobbiamo e possiamo fare per porre rimedio a questa patente ingiustizia del mondo in cui viviamo? Tre tappe storiche:
1) Anni sessanta: lo sviluppo viene dai soldi, dalle macchine, dai commerci: ecco gli “aiuti allo sviluppo” dei paesi ricchi, che in Africa hanno prodotto poco o nulla. Il motore dello sviluppo era considerato il denaro, il capitale, la tecnica. Poi si è visto che i soldi producono ricchezza se si è preparati ad usarli e producono corruzione se non si è preparati ad usarli.
2) Anni settanta: lo sviluppo viene dalla liberazione dal colonialismo e dal neo-colonialismo. Il comunismo trionfante nella Cina di Mao, a Cuba e in Vietnam sembrava la soluzione ideale per i paesi poveri: ecco le guerriglie di liberazione (ricordate il Che Guevara?), l’adozione del modello sovietico o cinese o cubano per lo sviluppo, che hanno peggiorato ovunque la situazione dei paesi poveri.
3) Anni ottanta: lo sviluppo dell’uomo è un fatto anzitutto culturale, viene dall’educazione e della maturazione delle culture, come diceva Giovanni Paolo II all’Unesco il 2 giugno 1980. La Caritas in Veritate di Benedetto XVI dice che “le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale” (n. 19). Il sottosviluppo ha una causa radicale, che è “la mancanza di pensiero… e di fraternità tra gli uomini e tra i popoli” (n. 19). “La società globalizzata – rileva il Papa – ci rende vicini, ma non ci rende fratelli… Bisogna allora mobilitarsi, affinchè l’economia evolva verso esiti pienamente umani” (19-20).
L’esperienza millenaria della Chiesa la descrive Giovanni Paolo IInella “Redemptoris Missio” (n. 58): “Lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi. E’ l’uomo il protagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica… La Chiesa educa le coscienze col Vangelo… forza liberante e fautrice di sviluppo…”. Bisogna riflettere su queste parole del Papa, che rispondono all’esperienza dei missionari.
La storia dimostra la verità di quanto dice il Papa. Storicamente, lo sviluppo moderno è nato in Occidente, in popoli cristiani, che nel corso dei secoli hanno dato origine a tutte le rivoluzioni del pensiero e le forme di evoluzione della società e dell’economia, che hanno portato al mondo attuale.
Alla domanda: “Perché ci sono nazioni ricche e nazioni povere?”, in genere si risponde con motivazioni economico-tecniche e con cause esterne (ingiustizie nel commercio internazionale, debito estero, vendita delle armi, multinazionali, ecc.). Ma si trascurano le motivazioni interne allo sviluppo, cioè partendo dalle loro religioni e culture tradizionali.
E’ vero che tutti gli uomini sono tutti eguali per natura, creati da Dio con eguale dignità e potenzialità; ma sono diversi per religione, cultura, storia, mentalità, ambiente in cui vivono. La “teoria della dipendenza” per spiegare la povertà dei popoli, di origine marxista-maoista, è smentita dalla realtà storica.
I popoli vivono in epoche storiche diverse. Noi siamo nel duemila dopo Cristo, i musulmani vivono nel nostro Medioevo; i popoli dell’Africa nera, in genere, sono usciti dalla preistoria un secolo fa (non conoscevano la scrittura) e praticano ancora, nelle zone rurali, un’economia di sussistenza. Mentre nel 1960 l’Africa nera esportava cibo, oggi importa circa il 30% del cibo che consuma. La Guinea-Bissau, un milione di abitanti su un vasto territorio pianeggiante ricco di acque e con un mare pescosissimo, non produce cibo a sufficienza per i suoi cittadini: importa il riso!
Un colossale menzogna, che non aiuta i popoli poveri è lo slogan: il Sud è povero perché il Nord è ricco e, viceversa, il Nord è ricco perchè il Sud è povero.
Quando si dice: “Il 20% della popolazione mondiale possiede l’80% delle ricchezze e l’80% della popolazione mondiale possiede solo il 20% dei beni”, si bara con le parole. Invece di “possiede”, bisogna dire “produce”. Questa la realtà!
Il problema non è anzitutto la ricchezza da distribuire, ma essere capaci di produrre ricchezza: se non si produce si rimane poveri.
A Vercelli produciamo 80 quintali di riso all’ettaro, nell’agricoltura africana tradizionale producono solo 5 quintali. Le vacche italiane producono 30 litri di latte al giorno, quelle africane uno solo e quando hanno il vitello, altrimenti non producono latte. Le industrie in Italia producono in media all’85-90% delle potenzialità, in Africa solo il 30-40% (naturalmente escluso il Sud Africa).
II parte – Le storiche rivoluzioni portate da Bibbia e Vangelo
Da cinquanta e più anni studio il tema “fame nel mondo” e ho visto il cambiamento di prospettiva che si è verificato, fra gli studiosi e nella pubblicistica, riguardo alle radici di sviluppo e sottosviluppo dei popoli. Dopo la seconda guerra mondiale, in Occidente si è preso coscienza della spaccatura dell’umanità fra popoli ricchi e popoli poveri, popoli “sviluppati” e popoli “sottosviluppati”, in concomitanza con il crollo degli imperi coloniali e l’indipendenza dei paesi colonizzati.
Negli anni cinquanta prevaleva una lettura dello “sviluppo” e del “sottosviluppo” di natura umanistica, religiosa, culturale. Autori come Gunnar Myrdal (1898-1987), Josué De Castro (1906-1973), Barbara Ward (1914-1981), François Perroux (1903-1987), il padre domenicano J. L. Lebret (1897-1966, citato da Paolo VI nella “Populorum Progressio” alla nota 15),mettevano in risalto i valori di fondo delle culture, i costumi, le tradizioni e naturalmente anche le religioni, che favorivano o ostacolavano lo sviluppo.
A questa lettura della storia si rifacevano agli storici delle civiltà del periodo precedente: Max Weber (1864-1920), Arnold Toynbee, (1869-1975), Jean Laloup (1916-1990), Jean Nélis, Christopher Dawson (1889-1970), i quali spiegavano il diverso cammino storico dei popoli a partire dalle idee basilari delle loro religioni e civiltà, che favorivano o ostacolavano lo sviluppo.
Nel 1960, la FAO lancia la “Campagna contro la fame nel mondo” e l’Onu dichiara il primo “Decennio per lo sviluppo” (1960-1970), nel quale i paesi sviluppati avrebbero dovuto finanziare con le 0,7% del loro PIL lo sviluppo di quelli sottosviluppati (allora si diceva così). L’anno seguente, nel giugno 1961, John Kennedy lanciava a Washington l’”Alleanza per il Progresso” che univa Stati Uniti e America Latina: 20 miliardi di dollari che i primi mettavano a disposizione dei paesi latino-americani per finanziare i loro progetti di sviluppo economico; una specie di “Piano Marshall”, che quindici anni prima aveva così ben funzionato con l’Europa occidentale distrutta dalla seconda guerra mondiale. Ma nelle America meridionale e centrale non ha prodotto gli stessi risultati di sviluppo.
Entrano in campo, nella lotta contro la fame nel mondo, gli organismi specializzati dell’ONU che hanno dato dello sviluppo letture parcellizzate e non globali, tecnocratiche e non umanistiche, materiali e non culturali: insomma, le radici dello sviluppo economico dei popoli non sono più ricercate nella cultura, ma nell’economia e nella tecnica. Questa è un po’ la deriva del nostro mondo super-tecnicizzato, che ha perso di vista le realtà metafisiche, spirituali.
L’economista americano John Kenneth Galbraith (1908-2006), grande personaggio e studioso che negli anni cinquanta e sessanta era stato ambasciatore degli Stati Uniti in India e aveva approfondito bene il tema “sviluppo” in quel grande paese, scriveva nel 1962 (1) che “il recente dibattito sullo sviluppo si è differenziato da quello del passato per il suo straordinario grado di sofisticazione. Il nostro vanto è che il recente dibattito sullo sviluppo è scientifico…
“Il dibattito di una volta era meno preciso, ma più grandioso. Smith, Malthus, Bentham, Marx erano fondatori di sistemi: essi si occupavano dei requisiti del progresso da un punto di vista globale: i principi del buon governo, le funzioni dell’istruzione popolare, le basi della parsimonia, l’effetto della concorrenza e del monopolio, le relazioni fra le classi sociali, le ragioni per cui alcuni popoli, in particolare gli inglesi, lavoravano sodo e altri meno sodo… Si prendeva in esame tutto ciò che si reputava avesse una qualche relazione col progresso economico”.
Galbraith continua affermando che in passato lo sviluppo economico veniva esaminato nelle sue cause globali, comprese quelle culturali e religiose; recentemente invece il discorso è stato parzializzato e tecnicizzato: “Ci siamo messi a discutere le parti del problema, ci siamo troppo raramente soffermati a riflettere se esse si armonizzavano in un tutto vitale. Abbiamo osservato le cose che contribuiscono allo sviluppo economico, abbiamo prestato troppo poca attenzione alla necessità di vedere se esse sono impiegate in un contesto favorevole allo sviluppo…”.
Si è presunto troppo facilmente, dice Galbraith, che “il progresso sicuramente ci sarà” nei paesi sottosviluppati, purché si seguano certe politiche e si finanzino i progetti: ma non è così. Si è trascurato l’aspetto educativo del popolo, il funzionamento delle strutture statali, la giustizia sociale, ecc. “Non è facile illustrare la relazione intercorrente fra un’idea filosofica o religiosa e il mutamento economico. Ma quasi tutti sono in grado di avanzare qualche idea utile sulla proprietà da assegnare alle macchine utensili nel prossimo piano quinquennale”. Così, dice Galbraith, si sono trascurati quasi del tutto gli aspetti culturali, per limitarsi a quelli tecnici ed economici dello sviluppo.
Max Weber (1864-1920), nel suo classico “Economia e società” (2), esamina a fondo le relazioni fra la religione e la cultura dei popoli e il loro progresso economico, giungendo alla conclusione che solo lo spirito del protestantesimo (e in misura minore del cattolicesimo) hanno innescato il progresso economico moderno, mentre “né la deviazione buddhista, né quella taoista, né quella induistica contengono incitamenti ad una metodica razionale della vita… Nessuna di queste concezioni poteva contenere qualsiasi motivazione o spinta ad una trasformazione etica e razionale di un ‘mondo’ creaturale in conformità ad un comando divino… Sul terreno di tutte queste religiosità… non vi fu nessuno sviluppo e neppure nessun avvio di uno sviluppo verso il capitalismo moderno”.
Questa affermazione (ampiamente documentata da Weber) può essere contestata: bisognerebbe però dimostrare che è falsa. Il cardinal Newman pensava che l’importanza del cristianesimo per il mondo occidentale risiede soprattutto nel fatto che la dottrina di Cristo ha portato all’uomo la conoscenza della sua natura, della sua dignità e il senso del suo sviluppo, cioè della “marcia in avanti” della storia dell’uomo. Di qui è nato il progresso dell’Occidente attraverso i secoli (3).
Noi cristiani dobbiamo però guardarci da un facile e superficiale trionfalismo. Dicendo che il messaggio di Cristo è alla radice dello sviluppo dell’Occidente, non possiamo dire lo stesso della Chiesa cattolica che trasmette fedelmente il messaggio di Cristo, ma, essendo fatta di uomini peccatori, troppe volte è di ostacolo al progresso. Quel che si dice della Bibbia e del Vangelo, che hanno dato all’Occidente le idee motrici per la promozione umana e lo sviluppo, non può essere applicato in blocco alla Chiesa; anche se, nella storia del nostro Occidente, non esiste nessun’altra comunità storica (religiosa o sociale o politica o culturale o nazionale) così dedicata all’uomo e ai più poveri come la Chiesa cattolica!
Ero molto amico del pensatore e scrittore Sergio Quinzio (studioso di ebraismo e di cristianesimo) e con lui ho discusso diverse volte questo tema nella sua casa a Roma piena di libri, con l’amorevole assistenza della signora Anna (4). Mi chiedeva dei miei viaggi fra i popoli non cristiani e mi illuminava con la sua vasta cultura biblico-teologica. Era perfettamente d’accordo sull’idea che il progresso dell’uomo viene dalla Parola di Dio e ha poi scritto un importante saggio intitolato “E’ ebraico-cristiana l’idea di progresso” (5), nel quale afferma che la cultura laica dominante oggi in Italia vuol convincere che il cristianesimo manca di vigore e non ha più nulla da dire al mondo moderno: quindi “è una superstizione buona per il gregge, come rinunziatario morale da pecore asservite. Vige ancora questa vecchia etichetta, certamente sbagliata, anche se proprio i cristiani molto spesso ne sono stati, e ne sono, i primi responsabili”.
Quinzio continua: “Il mondo moderno è caratterizzato, nei confronti dei mondi antichi, da un dinamismo storico che – è più che dimostrato – ha le sue radici proprio nel fermento biblico. Le antiche civiltà erano statiche e immobili. Autori come Friederich Gogarten, Karl Loewith, Ernst Bloch, Henri-Charles Puech hanno mostrato, in chiavi diverse, come la cultura e la civiltà moderne non siano altro che la secolarizzazione, cioè la trascrizione in termini profani e soltanto umani, dell’originaria istanza biblica di redenzione, di salvezza messianica. La moderna idea di progresso storico, di sviluppo delle scienze e della tecnica, di liberazione politica, di trasformazione del mondo e della condizione umana, rispecchia anche suo malgrado, cioè nel momento in cui vuole distinguersene e opporvisi, l’aspettativa escatologica cristiana, l’attesa di una realtà totalmente liberata dalla sofferenza e dalla morte, quando Dio stesso asciugherà le lacrime degli uomini (Apocalisse, 21, 4), in “nuovi cieli e una terra nuova in cui abiterà la giustizia” (2 Pietro, 3, 13).
“Questo non significa naturalmente – continua Quinzio – che il mondo moderno rappresenti lo sviluppo omogeneo e coerente della rivelazione ebraico-cristiana. Può esserne, anzi, lo stravolgimento, perchè ciò che in origine era sperato da Dio come suo dono perfetto, è diventato l’orgogliosa meta dell’opera soltanto umana dell’uomo. Ma rimettere le cose nel loro giusto rapporto storico è importante se non si vuol lasciare la fede cristiana – che con la sua novità ha suscitato venti secoli di storia nobile e anche vergognosa, come tutto ciò che è umano – al margine, come la sopravvivenza inutile di qualcosa che non ha nulla a che vedere con l’impulso che ancora sostiene il mondo in cui viviamo”.
Gli storici delle civiltà dicono che la civiltà occidentale è “lineare” e “progressista” (volta al futuro), le altre sono civiltà “cicliche” e “conservatrici”, cioè volte al passato, come indica la “chakra”, ruota, simbolo della grande civiltà indiana. Per l’Occidente cristiano bisogna costruire un futuro migliore; per le altre culture il meglio sta nel ritorno al passato mitico, alla conservazione pura e semplice di quanto ereditato dagli antenati. Christopher Dawson afferma e dimostra (6) che “la religione è la chiave della storia”: l’emergere e l’affermarsi della civiltà occidentale su tutte le altre non trova altra spiegazione (oppure finiamo nel razzismo!) se non nella visione messianica e ottimista della storia che la Bibbia e il Vangelo hanno dato, liberando le forze dell’uomo per le scoperte e l’impegno nel trasformare il mondo con lo sviluppo.
Due studiosi delle civiltà, Laloup e Nelis, scrivevano, in una delle opere che negli anni cinquanta ispiravano chi scriveva di fame nel mondo e di sottosviluppo (7): “Alle sue sorgenti greco-romane, e soprattutto al cristianesimo, la civiltà occidentale è debitrice d’aver percorso, dal punto di vista dell’eguaglianza, della libertà e della carità fraterna, una via totalmente ignorata dalle altre civiltà. La reazione antica e moderna contro la schiavitù, la lotta contro il despotismo, l’avvento della democrazia politica e sociale, i “diritti dell’uomo”, le altre forme di rispetto della persona umana, rimangono delle acquisizioni originali dell’Occidente, malgrado le applicazioni spesso eccessive o sospette”.
Numerosi studiosi si sono posti il problema del perché i paesi cristiani sono stati i primi a “inventare” tutto quello che è “mondo moderno” (o “progresso moderno”) e poi l’hanno esportato in tutto il mondo. Ma danno risposte insufficienti, parziali. Un esempio recente è quello del biologo americano Jared Diamond, che ha vissuto a lungo in Papua Nuova Guinea. Nel 1972 un amico papuano, Yali, gli ha chiesto: “Come mai voi bianchi date a noi tutto questo cargo (le novità portate in Nuova Guinea) di asce d’acciaio, fiammiferi, medicine, vestiti, aerei, ecc.; e noi neri ne abbiamo così poco?”. Da allora Diamond ha studiato come rispondere a questa domanda. Il suo volume (8) è senza dubbio interessante, ricostruisce la storia dell’umanità dalla preistoria all’inizio della colonizzazione europea: per capire il diverso grado di sviluppo dei popoli, afferma Diamond, non serve esaminare il periodo coloniale, perchè allora era già evidente il livello superiore di sviluppo dell’Occidente. Occorre invece andare indietro nel tempo, alle radici anche preistoriche dei diversi cammini dei popoli. Però non esiste una risposta semplice alla domanda dell’amico papuano Yali: il problema è complesso.
Per Diamond le cause sono essenzialmente geografiche e climatiche, cioè ambientali, mentre vanno decisamente scartate le cause razziali, la superiorità genetica di una razza umana sulle altre. Nell’evoluzione storica, dice Diamond, i popoli euro-asiatici sono stati privilegiati rispetto ad altri, ad esempio dalla presenza di “grandi spazi” che hanno favorito l’agricoltura e di animali di grossa taglia facilmente addomesticabili (i bovini e i cavalli, non presenti fuori dell’Eurasia). Tre i momenti di crescita dei gruppi umani, alcuni dei quali giunti prima degli altri allo “sviluppo” e al “mondo moderno”:
a) il passaggio dal nomadismo e dalla caccia-pesca all’agricoltura stanziale;
b) la domesticazione di piante e di animali, che liberò alcuni popoli dai lavori più pesanti e permise di vivere non più solo per la sussistenza, ma di impegnarsi in attività utili alla comunità;
c) l’invenzione della scrittura e delle tecnologie che hanno permesso il più rapido cammino di alcuni popoli rispetto agli altri. La colonizzazione europea è dovuta ad alcuni fattori ricordati nel titolo del libro: armi (più efficaci), acciaio (utensili per aumentare la produttività di beni), malattie (infettive che hanno sterminato i nativi nelle Americhe).
Diamond si rende conto che queste spiegazioni non chiariscono ad esempio perchè, a parità di condizioni geografiche e climatiche, gli europei hanno reagito meglio degli asiatici (infatti i primi hanno colonizzato i secondi e non viceversa); ammette che “le cause remote della disparità restano incerte… e questo è un vero e proprio vuoto intellettuale, perchè significa che non siamo in grado di comprendere il corso più generale della storia… Le differenze sono sotto gli occhi di tutti; ci viene spiegato che la giustificazione di queste differenze basate sulla razza – che sembra così semplice – è sbagliata, ma non ci viene fornita un’alternativa credibile” (pagg. 12-13).
Diamond esclude dalla sua ricerca gli aspetti culturali-filosofico-religiosi. Al contrario, gli studiosi delle civiltà umane (Toynbee, Weber, Dawson, Newman, ecc.) scrivono che la radice dei diversi cammini storici dei popoli sta nelle culture e religioni dei popoli: cioè nelle motivazioni intellettuali, religiose, filosofiche, educative al progresso di un popolo. L’uomo non è fatto solo di materia, ma anche di intelletto, di anima e, come scriveva Jacques Maritain, “la cultura di un popolo deriva primariamente dall’immagine che quel popolo si fa di Dio” (“Religion et culture”, Paris 1946): dai rapporti che un popolo stabilisce con il Creatore (nel quale tutti credono: non esistono popoli atei!) derivano i rapporti con gli altri uomini, con la natura, con la storia, il senso della vita, le prospettive per il futuro di ogni uomo.
D’altra parte, di fronte alla spiegazione di Diamond, un credente può chiedersi: ma allora, se il cammino dei popoli è condizionato solo da fattori geografico-climatici, che senso ha la Parola di Dio e l’Incarnazione del Figlio di Dio? Solo per “la salvezza delle anime” o anche per migliorare la vita dell’uomo (fatto “ad immagine di Dio”), per creare almeno un inizio del “Regno di Dio” su questa terra? E’ possibile che il “progresso”dell’uomo e dei popoli venga da altre cause che non da Dio, dalla Parola di Dio, dal modello divino-umano di Gesù Cristo? Ecco il tema che le facoltà teologiche e le università cattoliche, gli scrittori e la stampa cattolica dovrebbero studiare e volgarizzare nel nostro tempo globalizzato. Per Diamond, il cammino storico dei popoli è legato a cause fisiche e al caso: ma può un credente in Dio Creatore, pensare che la storia dell’umanità è lasciata al caso?
III Parte – Le quattro rivoluzioni che hanno cambiato il mondo
Barbara Ward (1914-1981), è nota nel mondo cattolico poiché è stata per vari anni a “Justitia et Pax”; nel suo volume “Le nazioni ricche e le nazioni povere” (9) afferma che il “progresso moderno” viene da quattro rivoluzioni verificatesi tutte in Occidente:
1) La rivoluzione delle idee (“sono le idee che muovono la storia”) è quella portata dai concetti della dignità della singola persona umana e dall’uguaglianza di tutti gli uomini, provenienti da una sola coppia creata da Dio.
La società occidentale è stata rivoluzionata radicalmente dalla religione ebraico-cristiana, che ha dato un giusto concetto dell’uomo e dei suoi rapporti con Dio e con la natura: l’uomo fatto “ad immagine di Dio”, l’uomo re del creato e con un fine ben superiore a quello delle altre creature, l’uomo libero del suo volere e artefice del suo destino: sono tutte idee derivate dalla Rivelazione biblica, sulle quali si fonda la nostra civiltà, che non si trovano in altre religioni e culture (per la tradizione orientale l’uomo è uno degli elementi della natura, non superiore agli altri). Senza la lenta maturazione nei secoli di queste idee bibliche, saremmo ancora alla schiavitù dei romani e dei greci, ai bambini handicappati gettati dalla Rupe Tarpea, ecc. Non c’era nulla in quelle due grandi civiltà che potesse far maturare il concetto dell’eguaglianza di tutti gli uomini. Dicendo che il cristianesimo ha rivoluzionato e purificato la civiltà greco-romana, conservando i suoi valori ma abolendo i disvalori, non si fa offesa ai greci e ai romani: è la semplice constatazione di una verità storica. Allo stesso modo, non dev’essere per nulla offensivo, per le civiltà non cristiane, affermare che esse devono essere fermentate e purificate dai valori della Rivelazione biblica, come appunto è successo per la civiltà greco-romaa.
2) La seconda rivoluzione, conseguente alla prima, è l’idea di “progresso”, di cammino in avanti dell’umanità verso un mondo migliore, più vivibile per l’uomo, da costruire con l’impegno nel mondo per la piena realizzazione della persona umana: è lo “sviluppo integrale” di Jacques Maritain e “lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini” di Paolo VI nella “Populorum Progressio” (n. 14). Anche questo messianismo della storia è profondamente biblico, poiché era assente nella civiltà greco-romana, come nelle altre civiltà non cristiane (egiziana, cinese, indiana, africana, ecc.) prima dell’incontro con l’Occidente. L’idea di “progresso” (con le idee e gli stimoli “progressisti”) ha dato alla società occidentale l’ideale di dover costruire una società più umana, ha creato tensioni dinamiche che hanno spinto alla scoperte geografiche. mediche, scientifiche, alla creazione di strutture più giuste per tutti (esempio: la democrazia, la giustizia sociale, i diritti dell’uomo), ecc. Per l’Occidente cristiano (o cristianizzato o post-cristiano) la storia è il cammino in avanti dell’umanità verso una società migliori (“cieli nuovi e terra nuova, in cui avrà stabile dimora la pace e la giustizia”); è il senso di speranza, la proiezione verso il futuro che sta alla radice di non pochi messianismi moderni non più cristiani: ad esempio “il sole dell’avvenire” del comunismo, i “mille anni di pace” di Hitler, ecc.
Uno studioso africano, Alioune Diop, fondatore di “Presence africaine” e organizzatore di incontri degli uomini di cultura africani negli anni cinquanta. Ha scritto (10): “Le nozioni di progresso, di rivoluzione, di cambiamento, sono specifiche del genio europeo. Né la Cina né il mondo nero riescono a giustificare razionalmente i cambiamenti”. Un altro studioso africano, Hamidou Kane, ha scritto (11): “Il più grave di tutti i difetti interni delle società africane mi sembra l’ignoranza dell’idea di progresso da parte delle nostre culture. D’altronde, è possibile che questa idea sia una creazione originale dell’Europa. Essa manca presso di noi. Il passato, un passato mitico e divinizzato, orienta le nostre culture. Un amico mi diceva l’altro giorno: ‘Noi poniamo il nostro progresso nel tornare al nostro passato’”.
Ad un incontro dell’Unesco a Manila (21 gennaio 19609 il filosofo e presidente dell’India Sarvepalli Radhakrishnan diceva che il fatto più importante del secolo XX non sarà né la scoperta dell’energia atomica né alcun altro avvenimento scientifico o militare, ma il cammino di integrazione culturale fra i vari popoli (cioè la “globalizzazione culturale”, anche se a quei tempi questo termine non si usava ancora); e aggiungeva, parlando da rappresentante dei popoli asiatici (12): “Tutti i mali attuali dell’Asia vengono dallo scontro con le potenze occidentali, ma da qui vengono anche tutti gli impulsi positivi che abbiamo ricevuto per far camminare in avanti la nostra storia. Non siamo più quelli di prima e non siamo ancora quelli che saremo. La salvezza non sta nel rifiuto, ma nell’integrazione vicendevole”.
La storia conferma ampiamente questa analisi. La società occidentale è stata continuamente rivoluzionata da numerosi movimenti e idee progressisti: Riforma protestante, sistema democratico, scoperte geografiche e scientifiche, Illuminismo, industralizzazione, Rivoluzione francese, movimento anti-schiavista e anti-colonialista, socialismo, marxismo, libertà di stampa e di pensiero, carta dei diritti dell’uomo e della donna, movimento pacifista, movimento di liberazione della donna, ecc. Queste rivoluzioni, che avevano radici interne profonde nella civiltà occidentale, hanno fatto continuamente progredire l’Occidente e non possono essere spiegate al di fuori delle sue radici biblico-evangeliche: è impensabile che il marxismo nascesse in India nel secolo XIX o in Cina o nelle culture buddhiste, perché mancavano in quelle civiltà i concetti del valore assoluto della singola persona umana e dell’uguaglianza di tutti gli uomini (hanno senza dubbio altri grandi valori, ma non questi!).
Le società non occidentali, non cristianizzate, prima dell’incontro con l’Occidente sono descritte dagli storici delle civiltà come “statiche” o “circolari”, nelle quali si ripetevano sempre gli stessi fatti senza alcun sbocco verso il futuro. Anche la civiltà greco-romana, prima dell’incontro con Cristo, presentava le stesse caratteristiche di circolarità e di staticità.
Scienze e tecniche nate dalla cultura occidentale
3) La terza rivoluzione è quella demografica, preparata dalle scoperte mediche e dal progresso dell’assistenza sanitaria di massa. L’idea della dignità dell’uomo, della singola persona umana, in Occidente ha messo l’uomo al centro della ricerca scientifica: ecco il progresso della medicina in tutte le sue branche (anatomia, chirurgia, farmacologia, fisiologia, ecc.).
Mentre nelle società tradizionali (anche in Occidente) l’incremento demografico era quasi nullo a causa delle molte pestilenze e carestie che decimavano le popolazioni, dalla fine del secolo XVIII una concomitanza di diversi fattori (scoperta dei vaccini, assistenza sanitaria di massa, industrializzazione e urbanesimo) condusse ad un rapido incremento demografico che ben presto ruppe l’equilibrio di pura sussistenza nel quale si era vissuti fino a quel tempo. In Europa, l’esplosione demografica fu estremamente positiva per lo sviluppo economico-sociale. La popolazione infatti cresceva in un ambiente preparato a riceverla e ad utilizzarla per lo sviluppo: amministrazioni statali ben organizzate, progresso dell’agricoltura e dei trasporti, industrializzazione, occupazione di continenti nuovi e poco popolati (ad esempio, Australia e Americhe).
L’aumento della popolazione portò in Europa ad un rapido incremento della ricchezza nazionale, della produttività e delle spinte verso la democrazia, la giustizia sociale e l’informazione. Al contrario, nel “terzo mondo” l’esplosione demografica venuta dopo la colonizzazione è stata negativa perché l’ambiente umano, culturale, sociale, statale, educativo era impreparato a ricevere (nutrire, istruire, far produrre, organizzare) queste masse umane che crescevano rapidamente.
La differenza è questa: in Occidente la “rivoluzione demografica” veniva da radici culturali proprie che sono maturate lentamente, nel terzo mondo è stata portata impovvisamente da influssi e strumenti esterni: i vaccini contro la peste e il colera, la febbre gialla e il vaiolo, sono prodotti occidentali, non locali!
4) Infine, la quarta rivoluzione che ha trasformato l’Occidente è quella delle scienze e delle tecniche, dando origine alla rivoluzione capitalista: industrializzazione, risparmio e accumulazione di capitali, ricerca continua di migliori strumenti per la produttività agricola e industriale, sfruttamento delle materie prime, ecc. In Occidente, la scoperta e lo sfruttamento del creato e il suo progressivo dominio (fino a programmare, oggi, la colonizzazione di Marte o della Luna!) sono fatti storici degli ultimi secoli. Non sono però venuti fuori all’improvviso, ma da tutta una cultura che camminava in quel senso e aveva preparato la mentalità comune ad accogliere quelle novità.
Questo spiega perché le scienze e le tecniche fanno così fatica ad imporsi presso i popoli di altre culture: anche quando sono adottate e utilizzate rimangono spesso corpi estranei in società non ancora ben preparate a riceverle. L’errore di molti esperti dell’”assistenza tecnica” che l’Occidente esercita verso popolazioni povere di altri continenti, è questo: non si rendono conto della diversa cultura, mentalità, costumi di coloro che sono inviati ad assistere. Credono che basti portare ai popoli poveri gli strumenti della produzione agricola o industriale moderna, perché subito la gente si metta ad usarli. E’ una visione materialista dello sviluppo, che dà più importanza agli strumenti che non all’uomo.
La scienza e le tecniche dell’Occidente sono legate a una cultura che è maturata nei secoli ed ha trasformato le mentalità (da superstiziose in razionali), le abitudini, i ritmi di vita e di lavoro, la società stessa. Nel “terzo mondo”, al contrario, scienza e tecnica sono prodotti importati dall’esterno, senza base culturale locale, quindi destinati a produrre traumi psicologici e ad essere accolti in modo incompleto e provvisorio, fra molte resistenze e difficoltà.
Barbara Ward scrive, nel libro citato, che la mentalità moderna (che usa i metodi democratici e gli strumenti tecnici) “noi la diamo per scontata e dimentichiamo facilmente come le sue radici sono interamente affondate nella nostra tradizione occidentale. Lo spirito scientifico, che viene dal rispetto giudaico-cristiano dell’opera di Dio, è forse la caratteristica più profondamente originale della nostra civiltà. La scienza non poteva nascere nella società indù, dato che nessuno dedica la propria vita ad esplorare un’illusione. Non poteva nascere in Cina…”.
“Io penso, dice ancora Barbara Ward, che la ragione profonda del contrasto fra ricchezza dell’Occidente e povertà del terzo mondo sta nel fatto che le varie rivoluzioni che hanno cambiato radicalmente il volto dell’Occidente negli ultimi secoli, nei paesi poveri esistono solo ad un livello embrionale e caotico” (pag. 40). “In breve, il punto principale che contraddistingue le società tradizionali e tribali è che sono mancati gli impulsi interni alla modernizzazione. E anche oggi, quando queste società sono ovunque in fermento per cambiare, da dove viene questo fermento? C’è una sola risposta: viene, senza essere richiesto, dall’Occidente che è continuamente in movimento, in cambiamento, in una continua rivoluzione.
“Negli ultimi trecento anni le antiche società del mondo, le grandi civiltà dell’Oriente, le civiltà pre-iberiche dell’America Latina e le società tribali dell’Africa, sono state tutte in un modo o nell’altro, movimentate dall’esterno, dalle incontrollabili nuove energie delle potenze occidentali che, durante questi stessi secoli, hanno attraversato tutte le rivoluzioni (industrializzazione, democrazia, nazionalismo, incremento demografico, cambiamento scientifico, libertà e giustizia sociale) che costituiscono la marcia in avanti della modernizzazione. Il grande agente che ha trasmesso a tutto il mondo la tendenza alla modernizzazione è stato senza dubbio, nel bene e nel male, il colonialismo occidentale” (pag. 51).
“La civiltà occidentale è l’unica universalizzabile”
Un grande carismatico della nostra epoca, mons. Luigi Giussani fondatore di “Comunione e Liberazione”, così precisa la “novità della vita in Cristo” nel quadro della storia dell’uomo e dello sviluppo dei popoli (13). “La cultura occidentale possiede dei valori tali per cui si è imposta come cultura, operativamente, socialmente, a tutto il mondo. C’è una piccola osservazione da aggiungere: tutti questi valori la civiltà occidentale li ha ereditati dal cristianesimo”.
Arnold Toynbee ha sviluppato questa idea: la civiltà occidentale è l’unica “universalizzabile”, cioè che contiene valori e principi validi per tutti gli uomini: i valori e i principi che vengono non dall’intelligenza umana, ma dalla Parola di Dio. Cullman e Daniélou hanno dimostrato (14) che l’Incarnazione di Cristo ha segnato la storia degli uomini in modo tale, che questa può essere intesa solo a partire dalla rivoluzione che Lui ha portato e dal senso messianico della storia da Lui creato.
Toynbee stima che la “civiltà occidentale” è nata dalla fortunata confluenza del “miracolo greco” (razionalità) col “miracolo ebraico” (Rivelazione e Incarnazione di Dio). Questo “privilegio” non è dato agli occidentali per vantarsene e per usarlo a loro egoistico profitto, ma è una ben pesante responsabilità di fronte a tutti gli uomini. Se i popoli occidentali tradiscono il compito di diffondere nel mondo i doni ricevuti da Dio, vanno incontro alla dissoluzione e all’auto-distruzione: droga, terrorismo, corsa alle armi e allo spreco, sottozero demografico, sono solo alcuni segni della “corsa verso la morte” che l’Occidente sta percorrendo.
Toynbee afferma che gli storici del futuro diranno che il più grande avvenimento dei secoli XIX e XX è l’incontro fra la civiltà occidentale e tutte le altre civiltà dell’uomo: uno choc così penetrante e potente “che ha messo sotto sopra l’esistenza di tutti” ed è stato “il primo passo verso l’unificazione dell’umanità in una società unica”. Da dove può nascere questa unità? Toynbee afferma che c’è un solo avvenimento nella storia capace di spiegarla, l’Incarnazione di Cristo. “Per esprimere in termini religiosi questo grande avvenimento storico, si può dire che il Dio Unico ha colto l’occasione della collisione e del crollo delle antiche tradizioni locali… per illuminare gli uomini con la rivelazione della Sua natura e dei Suoi disegni, più vera e più piena di quella che fino ad allora essi erano stati capaci di ricevere” (15).
Questa visione storica e attuale dello “sviluppo economico e sociale” a partire delle culture e religioni dei popoli è quasi del tutto sconosciuta alla pubblicistisca attuale che tratta di “sviluppo” e “sottosviluppo” e di fame nel mondo. Forse per un pregiudizio “terzomondista” ampiamente diffuso, che spesso viene fuori dalle domande che mi fanno quando tengo conferenze su questo tema: parlare dei limiti delle religioni e culture non cristiane significa cedere a sentimenti razzisti; affermare con chiarezza i valori della religione ebraico-cristiana significa sentirci migliori di altri popoli, superiori ai seguaci di altre religioni.
Oggi, nel tempo della globalizzazione, tutti parlano di dialogo interreligioso e interculturale come mezzo principe per creare comprensione e solidarietà a livello mondiale e superare i motivi di conflitto e di “terrorismo” che minacciano l’umanità. Ebbene, il “dialogo” presuppone una precisa e forte coscienza di identità, unita ad un’apertura al confronto con altri; in altre parole, significa riconoscere le nostre radici cristiane, cioé cosa la Bibbia e il Vangelo di Gesù hanno portato allo “sviluppo” dell’Occidente cristiano: non in una visione integralista, assolutista dei nostri valori, ma nella disponibilità ad imparare da altri quanto hanno da offrire all’umanità. La verità non è mai offensiva per i popoli altri: affermare che il concetto del valore assoluto della persona umana è stato portato nella storia dell’umanità dalla Rivelazione biblico-evangelica, come dimostra la “Carta dei diritti dell’uomo” di chiara derivazione cristiana, promulgata dall’ONU nel 1948 alla quale non si è trovato nessun altro testo alternativo (16), non significa offendere altri popoli e religioni-culture, ma semplicemente affermare una verità storica che può essere rifiutata solo dimostrando il contrario.
Tanto più che il “dialogo”, come inteso dalla Chiesa cattolica, non significa affatto esaltare la “cultura” occidentale come la migliore di tutte, ma semplicemente affermare che le idee e i princìpi universalmente validi, che hanno fatto grande la civiltà occidentale, vengono dalla Rivelazione di Dio: quante volte Giovanni Paolo II ha chiesto “perdono” per i crimini storici dei popoli cristiani; quante volte ha detto, parlando ai popoli altri, quello che ha gridato ad Abidjan ai giovani della Costa d’Avorio: “Non imitate il modello di vita occidentale! Dovete voi stessi creare il vostro futuro in modo autonomo e rispettoso dell’uomo”.
1 ) J.K. Galbraith, “Economic Development in Perspective”, Harvard University, 1962
2 ) M. Weber, “Economia e società”, Edizioni di Comunità, Milano, 1962, due volumi. Citazione alle pagg. 612-613 del I° volume.
3 ) Newman, “Apologia”, 1865, pagg. 245, 253; nuova edizione italiana a cura di Alberto Bosi, TEA, 1996; Newman, “Essays critical and historical”, 1871, pag. 96.
4 ) Ho pubblicato su “Mondo e Missione”, quando ne ero ancora direttore, un importante e lungo articolo-intervista sulla vita e il pensiero di Sergio Quinzio: “L’apocalisse di Quinzio”, “Mondo e Missione”, febbraio 1993, pagg. 101-116.
5 ) In “Jesus”, dicembre 1987.
6 ) C. Dawson, “Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale”, Rizzoli 1997, pagg. 19 segg.
7 ) Laloup et Nelis, Culture ed Civilisations, Casterman 1957, pag. 114.
8 ) J. Diamond, “Armi, acciaio e malattie – Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni”, Einaudi, 2002, pagg. 366.
9 ) “The rich Nations and the poor Nations”, Norton and Co., New York 1962. (Un testo di grande valore non tradotto in Italia: il discorso delle radici cristiane del nostro progresso economico e sociale era contro-corrente rispetto alla cultura dominante in Italia negli anni sessanta e settanta).
10 ) Citato da Ernesto Toaldo in “Fattori culturali e politici dello sviluppo”, in “Primo corso studi Terzo Mondo”, Editrice Pime, 1969, n. 6, pag. 7.
11) H. Kane, “Comme si nous étions donné rendez vous”, in “Esprit”, Paris, octobre 1961, pag. 382.
12 ) In “Orient-Occident”, rivista dell’Unesco, Parigi, aprile 1960, pag. 3-4.
13) Luigi Giussani, “Cristo, Tutto ciò che abbiamo – Conversazione con un gruppo di Comunione e Liberazione, New York, 8 marzo 1986”, inserto in “Tracce”, febbraio 2002.
14 ) J. Daniélou, “Saggio sul mistero della storia”, Morcelliana 1957. O. Cullmann, “Christ et le Temps”.Nouv. Edit, Paris-Neuchatel 1957..
15 ) A. Toynbee, “La civilisation à l’épreuve”, Paris, 1951, pagg. 232-234, 237, 254.
16 ) Quando il buddhista birmano U Thant (1962-1972) era Segretario generale dell’ONU, aveva tentato di dar vita ad una “Carta dei diritti dell’uomo” di ispirazione religiosa e culturale diversa da quella del 1948, fondata sui principi cristiani (che erano quelli delle nazioni maggioritarie a quel tempo nell’ONU), nominando comitati di studio buddhisti, indù, islamici. Ma non sono maturate proposte alternative.
Padre Gheddo su Radio Maria (2009)
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