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Nel programma “Velisti per caso” della Tv di Rai Tre (22 agosto 2003), i due autori (Syusy Blady e Patrizio Roversi) chiedono ad una insegnante delle isole Figi di parlare della storia locale. Lei risponde: “Noi non abbiamo storia. Due generazioni fa i nostri antenati si facevano continue guerre tra i villaggi ed erano cannibali, si mangiavano a vicenda“. Roversi traduce dall’inglese e poi commenta: “Ecco, questo è un esempio chiaro della colonizzazione culturale compiuta dai missionari e dai colonizzatori”.
Secondo l’immagine “politicamente corretta” che corre in Italia, la colonizzazione è all’origine di tutti i mali dei popoli del terzo mondo, poveri, oppressi, sfruttati. Non si crede nemmeno ad una insegnante locale che dice: “Noi non abbiamo storia, i nostri antenati erano cannibali”; e si commenta: “Questo è un esempio della colonizzazione culturale dei missionari e dei colonizzatori”.
Ecco perché non comprendiamo i popoli del terzo mondo: li vediamo con la lente dei nostri pregiudizi ideologici, di chiara origine marxista-leninista-maoista-castrista. Non ammettiamo nemmeno che, invece, la realtà storica è proprio quella indicata dalla insegnante delle Figi, non per tutto il terzo mondo naturalmente; ma molti popoli poveri sono usciti dalla preistoria (cioè “popoli senza scrittura”) solo da un secolo, più o meno, cioè da quando sono venuti in contatto con i colonizzatori e i missionari cristiani.
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Quando dico questo in conferenze, e lo dimostro con dati concreti (ad esempio: ancor oggi nell’Africa rurale, fra gli indios dell’Amazzonia, i popoli della Papua Nuova Guinea, i tribali di molti Paesi asiatici, si ignora l’uso della ruota, non esiste il carro agricolo: le donne portano tutto sulla testa), c’è sempre chi mi accusa di essere razzista! Oppure si mette a parlare dei “valori” africani, che anch’io esalto: ma non c’entrano col fatto che molti popoli sono, senza alcuna loro colpa, in un grave ritardo storico rispetto all’Occidente.
Occorre tener presente che, nel tempo della globalizzazione, i popoli vivono sempre più vicini e integrati l’uno all’altro, però hanno culture, costumi, mentalità, credenze di epoche storiche diverse: ecco il problema culturale, del tutto ignorato. Noi occidentali, senza alcun nostro merito, viviamo nel 2000 dopo Cristo, gli islamici nel 1400 dopo Maometto, altri sono usciti dalla preistoria da non molto tempo.
Alcuni popoli si sono sviluppati per primi, perché avevano nelle loro religioni e culture delle idee e fermenti progressisti che mancavano ad altri. Nel volume “L’Africa nera fra Cristianesimo e Islam, L’esperienza di Daniele Comboni (1831-1881)” (Corbaccio 2003, p. 454), il professor Gianpaolo Romanato dell’Università di Padova descrive com’era l’Africa a sud del Sahara prima della colonizzazione, almeno come l’hanno vista Comboni e i suoi missionari 130 anni fa: una visione molto negativa della loro condizione umana (schiavitù, guerre continue, miseria nera, fame, ecc.); anche se Romanato avverte che quei missionari eroici erano “il prodotto di un incontro fra civili e primitivi che avvenne senza mediazioni, senza preparazione, senza supporti culturali che potessero colmare un divario di millenni”.
Ecco il “divario di millenni” di cui non teniamo conto. È menzognero quel che si legge in un volume stampato da una editrice cattolica: “Alcuni secoli fa i popoli dell’Africa e dell’Europa erano più o meno allo stesso stadio di sviluppo. Quando i primi esploratori sono giunti in Africa, hanno trovato grandi regni e civiltà molto evolute… Poi l’Europa ha colonizzato l’Africa e si è sviluppata con le materie prime e il lavoro degli africani, che sono rimasti bloccati nel loro cammino verso lo sviluppo”.
Mi fa pena pensare che in Italia non pochi missionari, riviste ed organismi missionari, diffondono bugie sui popoli poveri, pur con la buona intenzione di aiutarli nel loro cammino verso lo sviluppo. “La verità è rivoluzionaria”, diceva Lenin: non si possono aiutare i popoli poveri raccontando bugie! Tanto più che questa visione ideologica della realtà storica crea nei poveri, soprattutto negli intellettuali dei Paesi poveri, frustrazione, rabbia, impotenza, rivolta, sentimenti negativi per lo sviluppo dei loro popoli. Li educa certamente a protestare, denunziare, proclamare la lotta di classe fra poveri e ricchi, ma non ad un impegno personale costante, sacrificato, rivolto anzitutto all’educazione dei loro popoli, come sarebbe necessario
Piero Gheddo
gennaio 2004
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