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LA PRIMA MISSIONE IN OCEANIA
(1852-1855)
«L’Istituto fin dal principio mirò ad avere missioni proprie e tra le popolazioni più derelitte e più barbare» si legge all’art. 74 delle «Regole» del 1886, scritte da mons. Giuseppe Marinoni. Questo il criterio che guidò i primi alunni del Seminario lombardo per le missioni estere nel chiedere a Propaganda Fide la lontana Oceania, mentre veniva offerta l’isola di Ceylon (attuale Sri Lanka), dove da due secoli già esistevano comunità cristiane e la vita dei locali era molto più evoluta che nelle isole oceaniche.
«Un terreno vergine per predicare il Vangelo»
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I missionari ambrosiani erano affascinati dalle «isole dei mari del sud». L’origine di questa «passione» (ed era vera passione, resistente a tutte le indicazioni di segno contrario) si spiega solo con l’entusiasmo degli inizi. Il primo a parlare dell’Oceania ai giovani chierici che aspiravano a diventare missionari fu il certosino padre Taddeo Supriès, che era stato missionario in India e più tardi si entusiasmò della Melanesia e Micronesia, senza mai esserci stato: ma si trattava di una «missione vergine», dove il Vangelo non era ancora stato annunziato.
Così ne parlò e ne scrisse ai giovani chierici e sacerdoti di Milano e di Lodi che venivano a trovarlo, infiammandoli per quelle isole lontane, esotiche, inesplorate. In un tempo di «romanticismo missionario», il racconto del martirio di padre Pietro Chanel (1841) e dei tentativi spesso falliti dei missionari maristi in Oceania, le relazioni dei navigatori che proprio all’inizio del secolo XIX scoprivano le isole oceaniche e le occupavano per conto delle potenze coloniali, era il terreno fertile per la fantasia di giovani che sognavano «la missione più lontana e più difficile, fra le popolazioni più abbandonate»: questo l’ideale che Mazzucconi aveva coltivato fin da giovane.
In quegli anni Propaganda Fide non sapeva, dopo i maristi, a chi affidare il vicariato apostolico della Melanesia e Micronesia, già rifiutato da tre congregazioni a cui era stato offerto: barnabiti, oblati di Maria Immacolata e missionari del Sacro Cuore di Picpus. Esteso più di tutta l’Europa, comprendeva una dozzina di arcipelaghi nello sterminato oceano Pacifico, dalla grande isola di Nuova Guinea fino alle Marianne e alle Salomone. Nel 1845 i maristi francesi avevano tentato di prendere contatto con le popolazioni di alcune isole: ma si stavano ritirando dopo aver avuto un vescovo e due padri uccisi dagli indigeni nelle Salomone.
Nel giugno-luglio 1850, quando ancora il Seminario non era nato, mons. Ramazzotti è il primo che parla dell’Oceania a Roma ottenendo risposta positiva a Propaganda. All’inizio della vita comunitaria a Saronno i giovani aspiranti danno per scontato che la loro missione sarà l’Oceania. Poi mons. Bravi, coadiutore del vicario apostolico di Colombo (Ceylon), scrive all’arcivescovo di Milano chiedendo che i sacerdoti del nascente Seminario missionario vengano inviati a Ceylon. Si crea un’opinione favorevole a questa richiesta, non fra i giovani alunni, ma fra gli amici esterni del Seminario. Lo stesso Marinoni non vedeva bene una missione così isolata e abbandonata dai maristi come la Melanesia-Micronesia, almeno come primo impegno dei suoi inesperti aspiranti alle missioni. Il procuratore del Seminario milanese a Roma, padre Giovanni Maria Alfieri dei fatebenefratelli, decisamente contrario all’Oceania, citava le testimonianze raccolte presso i maristi e un agente di viaggi esperto di Oceania. Anche mons. Giovanni Luquet, che come legato pontificio era stato all’origine del Seminario lombardo per le missioni estere (pure lui già missionario in India), consigliava di cominciare con Ceylon, più vicina all’Europa e con facili comunicazioni.
Ma proprio le difficoltà esaltano i giovani aspiranti. Carlo Salerio prepara una «Memoria» (6 novembre 1850) nella quale, anche a nome degli altri alunni, spiega perché desiderano andare in Oceania (1):
«Il nostro cuore viene ancora vivamente amareggiato ogni qualvolta pare che si voglia allontanare dall’Oceania la povera opera del nostro ministero. Chi ci ha posto in cuore tanta affezione per quei popoli, che nessuno di noi finora ha conosciuto, affezione che tanto più cresce quanto è maggiore il timore che venga ancora differita per quelle nazioni la luce del Vangelo, diffusavi dall’Altissimo per opera dei suoi servi inutili?».
Padre Salerio risponde a lungo alle obiezioni che erano state fatte a questa scelta:
- a) la missione dell’Oceania è tra le più difficili? Se ci pare che «il coraggio e la calma tranquillità» con cui gli Apostoli andavano in tutte le regioni dell’universo fossero esagerazione e non più imitabili, «accusiamoci di debolezza e di poca fede».
b) La missione «oceanese» è tanto difficile che altri non la vollero? «Lodiamo il Signore che così serbava il campo alle nostre fatiche, dove i nostri sudori, e fosse pur anche il sangue, misto a quello di Cristo, sarà redenzione e salute a quei popoli abbandonati, che noi ameremo sempre con affetto di padre…».
c) «Si annunziano pericoli e morti disastrose? Tanto meglio! Da che Cristo ha dato il suo sangue, non so che la fede sia mai cresciuta se non irrigata dal sangue dei suoi credenti; e da che il Capo ha versato tutto il suo sangue, gli altri membri non devono esserne avari; il sangue dei Martiri fu sempre la speranza della Chiesa».
Dopo aver esaminato e risposto ad altre difficoltà (la lontananza, l’isolamento, le spese…), Salerio così conclude:
«Conviene pur dirlo: l’Oceania ha raccolto le simpatie dei lombardi. Sotto questa aurora mirata con l’ansietà dei giovani che attendono l’epoca che li liberi alla vita del missionario, sorse il Seminario; e se fosse lecito giudicare degli altri partendo dalle proprie debolezze, si dovrebbe dire che quella vita, quella spinta che ha dato alle nostre risoluzioni il pensiero di affaticare per la diffusione del Santo Vangelo in un campo vergine, vasto, immenso, capace d’accogliere un gran numero ed a grandi fatiche i nostri fratelli del Seminario, questa vita, a giudizio eziandio di persone illuminate e di spirito, resterebbe ammortizzata e forse distrutta se dovesse rinunziare all’Oceania.
«Il missionario, è vero, deve avanti tutto rinunziare alla propria volontà; ma pure è un conforto e quasi una necessità per chi abbandona una terra di cara affezione, eleggersi una terra, una nuova patria, verso la quale la Provvidenza gli ha infuso l’amore e il desiderio. Che se questo desiderio è lecito e retto, come fu approvato dai nostri Venerabili Pastori e Vescovi, perché non spereremo che l’approvino anche i venerati Superiori di Roma, e ci annuncino il gaudio della buona novella, che l’evangelizzazione e la rigenerazione dell’Oceania, almeno in parte, è affidata a noi, soccorsi dal braccio dell’Onnipotente? Lo speriamo, lo desideriamo, lo dimandiamo!».
Cosa poteva fare mons. Marinoni, di fronte ad una volontà così decisa dei suoi giovani missionari? Aderisce al parere di padre Taglioretti, che fin dall’inizio aveva sostenuto che era giusto lasciare liberi i giovani di scegliersi la loro missione. Perciò Marinoni quando scrive ai vescovi lombardi (26 novembre 1850) per chiedere l’approvazione formale del Seminario, li sollecita ad ottenere da Propaganda Fide la designazione della missione in cui i giovani missionari dovranno recarsi. Affermando che gli alunni si «rimettono pienamente alle disposizioni dei Superiori», Marinoni aggiunge che essi (2)
«propongono schiettamente e insieme ossequiosamente il voto del loro cuore, che è pure a loro giudizio il voto di quanti nelle nostre parti aspirano alle estere missioni. Essi bramerebbero un terreno vergine per predicare il Vangelo dove Cristo, come dice l’Apostolo, non è nominato. Il loro cuore è più vivamente commosso (e lo esprimono in una comune protesta che suol farsi da tutti al Signore) dalla sorte infelice di quei popoli i quali, trovandosi in remotissime contrade, sono stati finora inaccessibili alla bella luce del Vangelo. Il pensiero dei disagi, dei pericoli, delle difficoltà gravi che sarebbero a superarsi, non che disanimare i nostri missionari, li incuora e accende più viva nei loro petti la fiamma della Carità. Gli arcipelaghi della Micronesia, campo vastissimo a nuove missioni che la benemerita Congregazione dei Maristi non ha potuto abbracciare se non in parte, sarebbero la terra che i nostri alunni intenderebbero innaffiare dei loro sudori, ed anche se fosse d’uopo del loro sangue».
Il segretario della conferenza episcopale lombarda risponde il 29 novembre assicurando i giovani aspiranti alle missioni e il loro direttore che i vescovi lombardi assentono alla richiesta della missione oceanica «per la parte che loro spetta, salvo sempre ad ottenere il voto della Propaganda di Roma».
Il 16 gennaio 1851 Marinoni ottiene dal card. Fransoni l’approvazione del Seminario missionario e della sua «Proposta» (vedi capitolo I); nella stessa lettera il prefetto di Propaganda scrive:
«In quanto ai luoghi in cui potranno gli allievi del Seminario essere spediti, posso assicurare vostra Eccellenza che saranno appagate pienamente le loro brame, offrendosi appunto al presente la circostanza di stabilire per essi fin da ora esclusivamente le desiate e vaste missioni della Melanesia e Micronesia, dalle quali chieggono i Maristi di Lione essere esonerati per mancanza di soggetti».
Pio IX prospetta la missione a Corfù (agosto 1851)
Ma nella prima metà del 1851, quando il Seminario missionario era approvato e i giovani aspiranti anelavano solo a partire, la designazione dell’Oceania ritarda. Trasferitosi l’Istituto da Saronno al santuario di san Calocero in Milano (1o giugno 1851) e terminato l’anno di prova degli alunni, nell’agosto 1851 i padri Paolo Reina e Carlo Salerio vanno a Roma per ottenere dal Papa e da Propaganda che venga loro presto affidata la missione già chiesta e assicurata da tempo.
Il 21 agosto 1851 Pio IX li riceve e, ignorando (o dimenticando) quanto aveva promesso Propaganda ai vescovi lombardi ed a mons. Marinoni, parla loro delle miserie morali e spirituali dell’isola greca di Corfù, posta di fronte all’Albania, a pochi chilometri dalle coste italiane! Immaginarsi lo stupore e l’amarezza dei due giovani: sognavano i mari esotici del Pacifico e il Papa sembra volerli trattenere vicino a casa! Il 30 agosto Pio IX manda all’arcivescovo di Milano un Breve, nel quale si legge che i missionari ambrosiani potrebbero fare tanto bene anche in
«regioni che non sono tanto lontane dalle nostre e alle cui necessità importa moltissimo di sovvenire e provvedere».
San Calocero precipita nella costernazione: il Papa, in contrasto con quanto avevano deciso i vescovi 10mb ardi e Propaganda aveva approvato, sembra voler cambiare la natura del Seminario missionario affidandogli una missione fra i cristiani ortodossi!
Questa è una delle circostanze in cui rifulge l’obbedienza totale e cordiale dei primi missionari al Papa. Giorni di preghiera e di tormento, di discussioni e di sofferenza acuta, che preoccupano mons. Ramazzotti, il quale voleva obbedienza assoluta al Papa, senza discussioni. Marinoni prepara, in accordo con gli alunni, una lettera al Sommo Pontefice, firmata e inviata dall’arcivescovo di Milano (12 novembre 1851), nella quale mons. Bartolomeo Carlo Romilli assicura il Papa che gli alunni
«non aspettano che un cenno della Santità Vostra per recarsi volonterosi dovunque Le piacerà di mandarli»; e si riferisce al Breve di Pio IX del 30 agosto precedente, augurandosi che i missionari portino frutto «non solo per le regioni più lontane, ma anche per regioni non così remote alle cui necessità spirituali importa moltissimo di porre riparo; ed è perciò che noi mettiamo non solo i ,sei missionari predetti, ma tutta la Casa delle Estere Missioni nelle mani della Santità vostra, pregandola a disporne interamente secondo il suo sovrano beneplacito e a riguardarla come Casa tutta sua».
Un’obbedienza davvero pronta e assoluta, senza nemmeno la soddisfazione di ricordare al Papa (e avrebbero ben potuto farlo!) che era stato proprio lui a volere un Seminario per le missioni ai non cristiani; ed era stata Propaganda Fide, il braccio destro del Papa per le missioni, ad assicurare l’assegnazione della missione in Oceania! Il Fondatore Ramazzotti, vescovo di Pavia, scrive a Marinoni (16 novembre 1851) dichiarandosi «consolato moltissimo» della lettera spedita dall’arcivescovo di Milano a Pio IX, perché riflette il suo
«desiderio che i nostri missionari siano a pienissima disposizione del Capo di tutta la Chiesa per il bene stesso de’ missionari e delle loro missioni».
Fortunatamente il buon Dio non volle che fosse snaturato il carisma «ad gentes» dell’Istituto. Il 2 dicembre 1851, dopo una vera «via crucis» morale per i giovani missionari, giunge a Milano la lettera del cardo Filippo Fransoni che assegna ufficialmente la missione della Melanesia-Micronesia al Seminario lombardo per le missioni estere. Era la vigilia di san Francesco Saverio, uno dei protettori del nascente Istituto. Che festa a san Calocero!
Dopo quella data decisiva, i tempi stringono. L’11 gennaio 1852 padre Paolo Reina è nominato prefetto apostolico della missione; il 9 febbraio Propaganda comunica le istruzioni circa il campo di missione e gli accordi da prendere con i maristi. Il 13 marzo, nella chiesa di s. Calocero, iniziano tre giorni di esercizi spirituali predicati da padre Angelo Taglioretti degli oblati di Rho; e finalmente il 16 marzo a san Calocero si celebra la funzione di partenza, presente l’arcivescovo mons. Romilli, il Fondatore mons. Ramazzotti e una grande folla di fedeli.
Nella preghiera composta dal beato Giovanni per la funzione di partenza il 16 marzo 1852, che ancor oggi recitano i missionari del Pime (3), dopo la «protesta» di dedicarsi totalmente alla causa missionaria, si legge:
«Beato quel giorno in cui mi sarà dato di soffrire molto per una causa sì santa e sì pietosa, ma più beato quello in cui fossi trovato degno di spargere per essa il mio sangue e di incontrare fra i tormenti la morte! Mio Dio, che mi ispirate questi proponimenti tanto superiori alle mie deboli forze, avvalorateli con quello Spirito onnipotente di cui investiste i vostri santi Apostoli…».
Subito dopo la cerimonia a san Calocero, con le carrozze gentilmente offerte loro dall’arcivescovo i missionari vanno nel vicino santuario della Madonna di san Celso. Si inginocchiano all’altare della Vergine, per offrire a lei la loro vita apostolica e chiederle la sua materna benedizione sulle fatiche di domani. Anche questo è un gesto entrato nella tradizione dell’Istituto. Poi, saliti sulla diligenza, lasciano subito la grande città per iniziare il lungo viaggio verso l’Oceania.
Mons. Marinoni accompagna i partenti di quella prima spedizione: cinque i sacerdoti: Paolo Reina, Carlo Salerio, Angelo Ambrosoli, Timoleone Raimondi e Giovanni Mazzucconi; due i «catechisti », Luigi Tacchini e Giuseppe Corti (in seguito chiamati «fratelli coadiutori» e oggi «missionari laici»). Il 19 marzo, passati da Torino e attraversate le Alpi ancora innevate, i nostri giungono a Lione dove sono ospiti dei maristi, con i quali prendono gli ultimi accordi per sostituirli nelle isole oceaniche. Col loro appoggio ottengono dalla Propagazione della fede un sussidio straordinario di 20.000 franchi, che li sollevano un poco dalla loro indigenza.
Poi giungono a Parigi, festeggiatissimi alle missioni estere, l’istituto che era servito di modello per la fondazione di Milano. La visita alla «Sala dei Martiri», dove tutto parla dei patimenti di questi eroi della fede, con numerosi e spaventosi strumenti di tortura (in Cina, Vietnam e Corea la morte era sempre data fra i tormenti), suscita nel cuore dei giovani ambrosiani una inquietudine di santi entusiasmi. Rinunziando a visitare Parigi, consacrano otto giorni ad un corso di esercizi spirituali, chiuso con un pellegrinaggio al santuario della Beata Vergine di Montmartre, nelle cui vicinanze san Francesco Saverio aveva fatto, con Ignazio e compagni, il voto delle missioni.
L’avventurosa traversata oceanica su «Il Tartaro» (1852)
I sette missionari ambrosiani partono da Londra per la lontana Oceania il 10 aprile e sbarcano a Sydney il 26 luglio 1852: tre mesi e mezzo di viaggio quando oggi bastano 18-20 ore di aereo! La traversata oceanica su «Il Tartaro» (vascello di 700 tonnellate) è descritta da Mazzucconi in alcune lunghissime lettere (4):
«La goletta a vela, lunga settanta passi e larga 14, ospita 130 persone e 400 animali: galline, galli, porcelletti, pecore e, per il latte, anche una giovenca. Queste povere creature diventano a poco a poco nostro cibo e bevanda: ogni giorno abbiamo cibo fresco, pane freschissimo, latte eccellente e acqua in abbondanza».
Giovanni era un poeta, un’anima sensibile con tendenza alla contemplazione. Nelle sere di bonaccia amava ritirarsi in un angolo del ponte:
«Il magnifico spettacolo del tramonto — scrive — l’immensità dell’Oceano nella sua calma, il cielo brillante, lo sfolgorante spettacolo della fosforescenza del mare… Verso sera si cominciano a vedere qua e là per tutto il mare scintille di fuoco. Tutti i punti culminanti delle acque si fanno incandescenti, e se abbassando dalla nave una corda si percuote l’acqua, gli spruzzi che si sollevano sono tante scintille lucenti. Intorno al nostro bastimento sembra ardere un fuoco incessante; il correre del bastimento lo farebbe credere trasportato su una corrente di fuoco».
Non mancano però i giorni in cui i passeggeri di quel piccolo paese galleggiante che era «Il Tartaro» si sentono quasi dimenticati da Dio: per poco non si sfracellano sulle rocce del Capo di Buona Speranza (circumnavigando l’Africa); evitano a malapena, nella notte oscura, di sbattere contro una nave molto più grande della loro; il fuoco a bordo, in una nave tutta di legno, è domato con difficoltà; onde gigantesche sommergono il piccolo guscio…
La navicella esce da una furiosa tempesta con le ossa rotte: due alberi su tre schiantati, un fianco squarciato, le vele ridotte a brandelli, il timone che non governa più. Eppure, in questo infernale sconvolgimento della natura, fra le grida terrorizzate dei passeggeri, Mazzucconi scrive:
«Io guardavo la furia del mare e mi gioiva il cuore nel pensare alla potenza infinita del nostro Dio, che se dice una parola tutta quella furia d’acqua va in niente e il mare si mette giù come un agnellino…
La notte poi, aggiungendo le tenebre alle grida del mare e dei marinai, rende un’immagine ancor più forte e meglio ci aiuta a sollevarci a Dio». Giovanni se ne sta tranquillo nella bufera e ad un confratello che gli chiede come fa ad essere così sereno dice: «Abbiamo letto ieri che bisogna desiderare la morte per vedere Dio: ecco che ci siamo».
Aveva solo 26 anni.
Sulla navicella, durante il lungo viaggio verso l’Australia, Mazzucconi e compagni continuano la vita come se ancora fossero a Milano: levata ad ora fissa, preghiere, celebrazione della Messa, ufficio divino in comune, ecc. Stringono amicizia con gli emigranti e si adoperano per dare vita e allegria alla mesta solitudine di quell’interminabile traversata (tre mesi e mezzo senza alcun scalo!). Mazzucconi canta, compone poesie e, come i suoi compagni, si ingegna a parlare in inglese:
«Con la lingua — scrive — si fa come si può. Qualche volta i passeggeri hanno occasione di ridere e anche questo è un bene, perché ci amano e in genere il ridere in inglese è cosa poco conosciuta».
«Il Tartaro» raggiunge Sydney il 26 luglio con tre sole vele sulle venti che aveva alla partenza e con quattro marinai mancanti perché scaraventati in mare dalla tempesta. Ma le avventure della missione d’Oceania sono appena incominciate. A Sydney i missionari di san Calocero sono ospiti della «procura» dei maristi, dove rimangono fino al 21 settembre 1852. Il padre Montrouzier è il loro maestro nello studio di usi e costumi e delle lingue di Woodlark e di Rook. Il padre francese
«ha un vocabolario di circa millecinquecento parole; ce lo detta e noi impiegheremo nello scriverlo e nello studiarlo questo mese che ci fermeremo qui per aspettare una nave che deve venire da quelle parti».
I missionari italiani fanno esercizio di inglese e visitano la città che aveva a quel tempo circa 50.000 abitanti, ricavandone una non buona impressione. Mazzucconi è colpito da un senso di tristezza sul volto della gente, che egli attribuisce alla fame di oro!
«Qui vi è grande quantità di oro che sorprende. Miniere da tutte le parti: tutti alle miniere».
Per coltivare i campi fanno venire i cinesi: «Si rammassa gente da tutte le parti. Si fanno venire a mille a mille i cinesi e in mezzo a tanta moltitudine, non essendovi nessuna idea di religione, né in chi comanda, né in chi deve obbedire, è impossibile enumerare gli enormi delitti di oppressione, di rivolta, di tradimenti, di omicidi, di barbarie che si commettono. I giornali traboccano di fatti di un’atrocità mostruosa. L’oro può ben qui attirare lo scolo di tutto il mondo, ma l’ordine e la pace non vengono che da Dio e dalla virtù. Vi sono molti tra gli inglesi stessi che cominciano a comprenderlo; e la nostra santa religione ogni giorno fa nuovi progressi. Ma certo vi abbisognerebbero altri operai. La messe è molta, ma i coltivatori sono pochi».
Il 21 settembre 1852 i sette missionari si mettono in viaggio con una piccola goletta francese, «La Jeune Lucie» di 114 tonnellate con due soli alberi, noleggiata apposta per quel viaggio. Il 3 ottobre toccano le isole Salomone, dove succede una scenetta che doveva essere comica: Mazzucconi vuol rivestire alcuni indigeni saliti sulla navicella completamente nudi! Giungono a Woodlark l’8 ottobre. I tre padri francesi presenti nell’isola (Frémont, Thomassin e Trapenard)
«vennero ad abbracciarci in mezzo ad un gran numero di indigeni già ben attaccati alla religione di Cristo. I volti estenuati di questi missionari ci colpirono e ci confermammo ad un tratto ciò che avevamo udito dire dei loro patimenti e della loro virtù».
A Woodlark celebrano una Messa di ringraziamento e rimangono assieme dieci giorni. Tre restano a Woodlark col francese padre Thomassin: Salerio (5), Raimondi e Tacchini; e quattro proseguono per Rook (oggi chiamata «Umboi»), dove giungono il 23 ottobre: Reina (6), Ambrosoli, Mazzucconi e Corti, con padre Frémont. I due missionari francesi rimangono con gli italiani per un anno, poi ritornano in Australia con la navicella che visita le missioni nelle due isole per portare la posta ed i rifornimenti.
Popoli che vivevano nell’età della pietra
Woodlark e Rook erano fuori del mondo. Per uomini bianchi, sia pur abituati al sacrificio, le condizioni di vita erano impossibili: una sola volta l’anno arrivava una nave con i rifornimenti e la posta dall’Europa (7), noleggiata dai missionari stessi a Sydney e pagata in anticipo. A Rook, dal 23 ottobre 1852 (quando arrivano nell’isola) i missionari vedono la prima nave nell’ottobre 1853 e la seconda il 20 gennaio 1855, quando Mazzucconi parte per Sydney! Sul posto non c’era nulla, al di fuori del povero cibo degli indigeni: radici di «taro» macinate (ne vien fuori una farina tipo quella di mandioca), patate dolci, banane, erbe amare, prodotti della foresta, della pesca e della caccia.
Quanto all’abitazione, mentre a Woodlark i missionari trovano già alcune case della missione in muratura (i maristi vi si erano fermati cinque anni), a Rook c’era un solo capannone di legno mezzo sfasciato, costruito dai maristi nell’unico anno della loro permanenza sull’isola (1847-1848): suddiviso da paratie di cortecce d’albero, era così mal messo che quando pioveva l’acqua entrava dall’alto e dalle pareti, come entravano serpenti, scorpioni e altri animaletti. Il clima costantemente caldo umido tutto l’anno, zanzare a profusione e il cibo povero e sempre uguale portano i missionari ad uno stato di sfinimento e di continue febbri malariche. Mazzucconi rimpiange in una lettera le gallette di pane duro portate dall’Australia (non potevano bastare per un anno!) che, sebbene piene di vermi, «sono il cibo più sostanzioso di cui potevamo disporre».
Gli isolani vivevano nell’età della pietra, non conoscevano il ferro né la ruota. Fra loro e i missionari c’era un abisso storico e culturale incolmabile: non potevano in nessun modo intendersi. Gli indigeni erano chiusi nelle loro isole, senza relazioni col mondo esterno, in situazioni umane di estrema miseria e in un ambiente di terrore: guerre continue fra villaggi e famiglie, prepotere degli stregoni e dei capi, infanticidio ed eliminazione degli anziani improduttivi o ammalati, immoralità e crudeltà terrificanti erano costumi quotidiani, accettati da tutti. Non c’era nemmeno l’idea che si potesse vivere in altro modo. Il 4 dicembre 1852, p. Salerio scrive a Marinoni (8):
«È spinoso, amato superiore, il campo che il Signore ha assegnato ai suoi figli; è pieno di veleno ed è tenuto da sette demoni. Il missionario qui non gode né la fiducia, né l’amore, meno ancora il rispetto della popolazione: non è conosciuto come ministro della religione e sarebbe oggi stesso, dopo cinque anni e due mesi di missione (i missionari francesi erano sul posto dal 1847, n.d.r.), trucidato e scacciato, se non offrisse qualche speranza di materiale interesse ai naturali… La prego a disimpegnarmi anche solo dall’accennare gli innumerevoli disordini a cui li trascina la moda, la legge, l’esempio e le abitudini. Il demonio ha quivi un trono dispotico».
Secondo Salerio che li ha studiati, i woodlarkesi avevano alcuni buoni costumi e doni naturali (ospitalità, pulizia delle capanne, il saluto, il rispetto per gli anziani e le donne, senso artistico, orecchio musicale), ma il loro livello morale era estremamente basso: abuso sfrenato del sesso, poligamia, infanticidio, guerre continue, abitudine alla crudeltà contro i nemici e i prigionieri, cannibalismo dopo i combattimenti, ecc. Gli stregoni, dotati di autorità sugli spiriti, avevano un potere assoluto: qualsiasi loro ordine era eseguito.
Salerio afferma che l’iniziazione è «una scuola d’infamia, distruttiva di ogni principio delle massime da noi diffuse» e aggiunge: «Bisogna lasciare ai filosofi l’esaltare queste bellezze della natura» (9), ricordando che il peccato e la tendenza al male sono in ogni uomo e cita quanto San Paolo diceva dei pagani del suo tempo (Romani, I, 26-32).
Il padre Ennio Mantovani, missionario del Divin Verbo, nel 1980 direttore del «Melanesian Anthropological Institute» di Goroka in Papua Nuova Guinea (oggi direttore dell’«Anthropos Institut» in Germania), mi diceva (10):
«All’inizio ero entusiasta della vita comunitaria degli indigeni: tutti sono a servizio di tutti. Mi pareva una cosa ottima. Poi invece, studiando a fondo la loro vita, ho visto come la comunità copre l’egoismo personale e collettivo: non è un servizio ai più deboli, ma la somma degli egoismi dei più forti. Non c’è quindi, anche se a prima vista può apparire il contrario, il concetto cristiano-evangelico di comunità…
I membri della comunità si dividono in chi può e in chi non può aiutare la comunità stessa (col lavoro, la guerra, ecc.). I primi sono protetti, i secondi eliminati. Il ‘‘bigman’’ («uomo grande»), se è utile alla comunità, può anche prendere due o tre donne, abusare del suo potere, ammazzare se vuole. I malati cronici, i vecchi, gli handicappati, una volta erano uccisi; oggi succede ancora che si uccide chi si ribella alla comunità, ai costumi, all’autorità del capo. La comunità non si identifica con tutto il popolo, ma con quelli che hanno più potere, che sono utili alla comunità. La vita non conta nulla, la singola persona non ha valore».
Perché la missione nelle isole è fallita
Nelle isole i missionari conducono una vita normale come in Italia, con orario che comprendeva lavoro, preghiera, studio, visita ai villaggi e alle famiglie dei locali. Speravano di introdurre gli indigeni, con l’esempio, ad un grado di civiltà più evoluto, più umano: lavorano i campi, coltivano verdure (carote, cipolle, pomodori, ecc.) e cereali mai visti (mais, grano, fagioli, fave), fanno una fornace per i mattoni e la calce (usando le conchiglie), costruiscono in muratura, segano il legno, canalizzano l’acqua di fonte ai villaggi. Ma non riescono a far accettare nulla di nuovo: i locali nemmeno mangiano gli aranci, i limoni e le noci di cocco che la foresta produce in abbondanza.
Mazzucconi racconta un esempio che può sembrare incredibile. All’inizio della sua permanenza a Rook, essendo andato in foresta con alcuni ragazzi, vede degli alberi di aranci con dei frutti maturi. Fa per prenderne uno, ma i ragazzi gridano: «Non mangiarne perché muori!». Giovanni ne prende alcuni, li porta a casa, li aprono, li annusano, li assaggiano: non c’è dubbio, sono proprio aranci! Ne raccolgono in quantità, ne mangiano, sono frutti provvidenziali, data la mancanza di vitamine del cibo locale: ma non riescono mai, pur insistendo, a convincere gli indigeni a cibarsene: secondo la tradizione sono avvelenati.
Il rispetto della tradizione è assoluto, come il rifiuto di ogni novità. I missionari falliscono nell’insegnare ai locali di far bollire l’acqua prima di berla e altri elementari principi di igiene; anche facendo loro gustare i prodotti della terra da essi coltivata, non li convincono a fare altrettanto, diventando almeno un poco agricoltori.
L’unico dono dei missionari che viene ricevuto e usato dai locali è il ferro: il passaggio dall’ascia di pietra alla scure per tagliare il legno, dai coralli affilati al coltello; l’uso di pentole e di altri oggetti di prima necessità convince anche i capi e gli stregoni, custodi della tradizione. I missionari stessi sono chiamati «uomini del ferro» e scrivono in varie lettere che i locali li sopportano perché sperano che le navi attese porteranno altri oggetti di ferro.
Nella breve permanenza sulle isole, i «caloceriani» si danno allo studio e cercano in ogni modo di imparare le lingue locali vivendo con la gente, specialmente i ragazzi: a Rook, con circa 6.000 abitanti, vi erano tre tribù con lingue totalmente diverse, mentre a Woodlark la lingua era unica.
Si distinguono il p. Carlo Salerio, superiore della missione di Woodlark, che impara la lingua locale e produce «Ragguagli sugli usi e costumi del popolo woodlarkese», usato per due «memorie scientifiche» pubblicate dall’«Accademia fisio-medico-statistica» di Milano nel 1861 (11); e il p. Paolo Reina superiore a Rook, che compone e pubblica uno studio: «Notizie sopra Rook», pubblicato in Germania da una rivista scientifica.
P. Salerio porta a Milano una ricca raccolta di oggetti etnografici in 185 pezzi (alcuni in due esemplari): utensili domestici, strumenti di lavoro e di caccia e pesca, armi, abiti, ornamenti, saggi di arte e di artigianato, strumenti musicali, dipinti, ecc. Nasce quello che oggi è il museo del Pime in via Mosè Bianchi a Milano. Purtroppo questa preziosa collezione che a quel tempo aveva suscitato grande attenzione, venne donata dai missionari al museo civico di Milano per essere meglio esposta e studiata. Andò totalmente distrutta nei bombardamenti aerei dell’agosto 1943 su Milano. Una parte di questi oggetti (quelli doppi) si è salvata e si trova al museo Pigorini a Roma (12).
L’orizzonte di quelle popolazioni era limitato alla sopravvivenza, non avevano alcuna possibilità di conoscere e concepire un mondo diverso dal loro: vivendo a un grado così basso di vita e di cultura non erano nelle condizioni di accettare o anche solo capire il messaggio di amore portato dai missionari. I maristi avevano tentato due vie di evangelizzazione: in modo diretto a Woodlark (raccontando la storia sacra ai ragazzi, insegnando il catechismo, con cerimonie religiose, ecc.) e indiretto a Rook: presentandosi come sacerdoti, ma senza insegnare e senza funzioni pubbliche, per suscitare interesse con il senso del mistero. Ambedue i metodi fallirono: gli indigeni erano ancora troppo lontani, come mentalità e interessi, dal discorso cristiano. In una lettera molto interessante del 12 maggio 1855, mentre era a Sydney, Mazzucconi scrive (13) che
«questi popoli sono, al presente, in uno stato proprio assai basso. Dalle nozioni esatte che ricevetti conversando con missionari che furono al centro (dell’Oceania, n.d.r.) o alla Nuova Zelanda, dovetti persuadermi che sotto quasi tutti i rapporti le nostre isole sono immensamente più indietro che non le altre. Vi è un punto di degradazione da cui gli uomini (eccetto un miracolo) si rialzano più per l’opera del tempo e pel frequente contatto con molti, che alla voce attenta di pochi. Affinché la parola del sacerdote produca qualche effetto, umanamente parlando, bisogna che il sacerdote abbia qualche autorità sui naturali; ma per avere questo poco di autorità bisogna che i naturali comincino almeno a comprendere che i bianchi sono uomini anch’essi e che possono avere almeno tanta scienza quanta ne hanno i neri.
Ora, questa idea nei nostri popoli non vi è ancora, mentre la si trova in tutte le isole ove le navi europee approdarono con qualche frequenza. Il commercio degli europei (dovrei dirlo piangendo) è una scuola, una scuola di ferro, di vessazioni e di sangue, ma pure è una scuola; e il Signore che nella sua bontà ordina al bene fin le ruine del peccato, se ne serve per colpire e scuotere animi che difficilmente si lascerebbero smuovere dalla sola parola benevola ed inerme. Forse sarebbe meglio lasciare che passino prima per questa scuola, poi evangelizzarli; allora l’amore sarebbe conosciuto. Quanto poi a tutte le estreme nefandezze della corruzione, i selvaggi nostri, purtroppo, non possono imparare più nulla dall’europeo: si sa tutto, si fa tutto, fin da fanciulli».
I quattro periodi della missione a Woodlark (1847-1855)
Fra le due isole avvicinate dai caloceriani, quella di Woodlark ha avuto una più lunga e significativa presenza di missionari. Ecco in breve una sintesi cronologica.
1) Accoglienza calorosa e istruzione religiosa (1847-1849).
L’isola di Woodlark, lontana da ogni rotta marittima, è scoperta nel 1832 (il nome viene dalla nave che l’ha scoperta). I maristi vi sbarcano nel 1847: sono i primi bianchi con i quali gli indigeni hanno rapporti. Li accolgono calorosamente, i bambini vengono alle preghiere e al catechismo. All’inizio i missionari ne sono entusiasti. Si inizia un discorso religioso e il catechismo, con dubbi risultati. I maristi danno 132 battesimi, ma i nuovi cristiani non possono perseverare. Mandano anche ragazzi a Sydney, ma non resistono in un ambiente così radicalmente diverso.
2) Disprezzo e odio verso i missionari (1849-1852).
La rottura tra indigeni e missionari avviene quando questi tentano di creare una mentalità nuova e condannano l’uccisione dei gemelli, degli handicappati e degli anziani non più produttivi, il cannibalismo, la sfrenata licenziosità sessuale nelle feste, il potere assoluto dei capi villaggio che mettevano a morte chi dava in qualunque modo fastidio, l’abitudine alla guerra fra villaggi per futili motivi, le crudeltà sui prigionieri di guerra, ecc.
Le genti di Woodlark, sobillate da capi e stregoni, resistono alla proposta di un modello di vita più umano. Anche quelli che all’inizio si erano mostrati disponibili al cambiamento, a poco a poco vengono riassorbiti dalla solidarietà di villaggio.
I missionari rimproverano gli indigeni per le immoralità e le guerre e quelli si ribellano. Comandano i capi e gli stregoni: dalla cordialità si passa al disprezzo e poi all’odio. Nel 1850 una terribile carestia, poi una pestilenza e la morte improvvisa di due giovani durante una danza condannata dai missionari: le disgrazie sono attribuite all’influsso negativo dei missionari e ai loro rimproveri. Minacce di un massacro generale. I maristi comunicano a Propaganda di rinunziare alla prefettura apostolica.
3) Impegno di carità e di promozione umana (1852-1853).
L’8 ottobre 1852 i missionari di Milano arrivano sull’isola di Woodlark: per un anno (fino all’ottobre 1853) rimane con loro il marista p. Thomassin. Woodlark era in una situazione migliore di Rook, riguardo agli indigeni. I missionari ambrosiani usano un’altra tattica: non più rimproveri e accuse, ma opere di carità e di promozione umana: cura dei malati, pacificazione dei villaggi (l’unico vero successo) (14), studio delle lingue e culture locali, introduzione di nuove colture agricole (pomodori, cipolle, grano, mais), dono del ferro e della ruota (ignoravano anche questa). A Rook ed a Woodlark impiantano un forno per produrre la calce e i mattoni e costruiscono case più sane delle capanne di frasche; danno cibo durante i periodi di carestia e medicine, ecc. Gli indigeni apprezzano soprattutto il ferro (scuri, aghi, seghe, vanghe, pentole): per tagliare usavano pietre affilate, nelle lotte tra villaggi mazze di pietra e di corallo.
Nel 1853 carestia, malattie epidemiche e guerre devastano Woodlark. I missionari danno tutto quello che hanno, si sacrificano visitando i villaggi, curando malati e feriti. Ma i locali si allontanano sempre più. Quando i tre missionari sono ammalati gravi e chiedono cibo, nessuno glie ne dà, nemmeno le famiglie più vicine e amiche: stregoni e capi lo proibivano.
4) Persecuzione aperta e piani di sterminio (1853-1855).
I caloceriani cambiano tattica: non più doni e aiuti né giochi con i fanciulli, non più visite ai villaggi né contatti con gli indigeni (se non quelli strettamente necessari e con persone selezionate). Vivono come se gli isolani non ci fossero.
Nell’ottobre 1853 incominciano a costruire un villaggetto cristiano su posizione elevata, con una loro nuova casa e una nuova cappella: selezionano alcune famiglie e le portano a vivere con sé. Consacrano la chiesa all’Immacolata Concezione l’8 dicembre 1853 (un anno prima che il dogma venisse proclamato da Pio IX). Tre famiglie sono ammesse nel villaggio, che è aperto anche agli indigeni dei villaggi vicini per feste, manifestazioni, cibo per tutti, discorsi nelle notti di luna secondo l’uso locale.
Ma a poco a poco le pressioni esterne allontanano le tre famiglie. Quando gli indigeni capiscono che i missionari non danno più ferro né altri doni, incominciano insulti, minacce, furti, incendi notturni ai raccolti. Infine tentano di uccidere il capo missione di Woodlark, p. Carlo Salerio. I missionari toccano con mano il fallimento della loro missione. Hanno notizia di un piano dei capi per ammazzarli tutti quando arriverà la prossima nave.
Il 17 giugno 1855 giungono da Rook a Woodlark, con la goletta che aveva portato i rifornimenti e la posta, il prefetto apostolico Reina con Ambrosoli. I due scendono con i confratelli e la navicella rimane al largo della baia di Guazup in attesa: i missionari discutono, pregano e decidono di partire tutti perché la situazione è pericolosa, Vogliono fermare Mazzucconi che dall’Australia stava tornando indietro, guarito; e si propongono di tentare la missione in isole più evolute. L’8 luglio si imbarcano, ma rimangono ancora dieci giorni nella baia di Guazup in attesa di venti propizi: fanno a tempo a vedere i villaggi che si combattono e bruciano, poi distruggono la missione.
Il beato Giovanni Mazzucconi, primo martire dell’Istituto
Torniamo a Mazzucconi: sempre febbricitante, parte da Rook per tornare a Sydney nel gennaio 1855, ma vi arriva il 19 aprile, dopo un lungo giro per varie isole. Intanto a Rook il fratello Giuseppe Corti muore di febbre il 17 marzo 1855. I due superstiti di Rook (Reina e Ambrosoli) si ritirano con gli altri a Woodlark e partono assieme per Sidney il 17 luglio 1855. Arrivano a Sydney il 23 agosto 1855, cinque giorni dopo che Mazzucconi è già partito (18 agosto), noleggiando una piccola goletta («La Gazelle») per portare posta e rifornimenti a Woodlark e poi a Rook e fermarsi nella sua missione (non sapeva nulla della decisione dei compagni di ritornare tutti a Sydney).
Così all’inizio del settembre 1855, «La Gazelle» giunge nella baia di Guazup a Woodlark, dove sorgeva la missione. Urta contro gli scogli della barriera corallina e non può più muoversi. Gli indigeni prendono d’assalto la navicella e uccidono il missionario con tutto l’equipaggio. Il capo Avicoar cala la scure (dono dei missionari!) sulla testa di Giovanni, che gli tende la mano in un gesto di saluto.
Queste notizie vengono date, otto mesi dopo il fatto, dall’indigeno Puarer, amico dei missionari, al p. Timoleone Raimondi (in seguito vescovo di Hong Kong) che, noleggiata «La Favorite», parte il 14 aprile 1856 alla ricerca di Giovanni (15). Giunge il 5 maggio nella baia di Guazup e vede subito «La Gazelle» riversa su un fianco, incagliata nella barriera corallina.
Gli indigeni vengono con barche e circondano la nave, che essendo più alta e non incagliata come «La Gazelle» non può essere assaltata. Raimondi è salutato: dal ponte, chiede cosa è successo a Mazzucconi. I locali raccontano frottole: è nell’altra parte dell’isola, è andato in barca con i marinai a Rook, è ammalato, ecc. Ci vogliono alcuni giorni per sapere la verità. Raimondi distribuisce doni, chiama a bordo alcuni che conosceva bene, anche catecumeni: Mariash (con nome cristiano, che abitava nel villaggio dei missionari) racconta anche lui storie.
Dopo Mariash, Raimondi prende a bordo Taionau, lo conduce in cabina, gli promette regali, ma anche lui non parla. Un terzo, Nit, dice al capitano di portare «La Favorite» vicino al villaggio di Guazup e scendere a terra: ci sono molte cose di «La Gazelle» e di Mazzucconi che devono consegnare. Ma è una trappola: se i marinai scendono a terra è evidente che vengono uccisi. Il capitano dice agli indigeni di andare loro nel villaggio con le piroghe e portare quello che hanno da restituire; ma ritornano con un po’ di denaro e nient’altro. Raimondi chiede se hanno dei libri, ma quelli rispondono di no (cercava il diario di Mazzucconi).
Finalmente, fra i molti che vengono in barca vicino alla «Favorite», Raimondi scorge Puarer, amico dei missionari. Riesce a portarlo nella sua cabina. Appena soli, Puarer dice: «Furono uccisi tutti» e racconta cos’è successo, con i nomi di coloro che avevano massacrato il missionario, ben conosciuti da Raimondi. Testimone unico e credibile, Puarer così racconta il fatto del martirio.
Quando «La Gazelle» si incaglia sui coralli dell’isoletta di Reu nella baia di Guazup, quattro indigeni su una piroga vengono vicino, ricevono in regalo alcune stoffe e ritornano a terra, portando la notizia che la goletta non può muoversi, è prigioniera degli scogli. Il capo Orighiamai propone di ucciderli tutti e gli anziani acconsentono, anche se Puarer tenta di dissuaderli.
Poco dopo gli indigeni partono in buon numero dai villaggi della baia: Amanot, Guazup, Darraquadi, Uatatol. Giunti vicino a «La Gazelle» e circondatala, si mettono a parlare col capitano e i marinai, compassionandoli della loro sventura e offrendo loro aiuto. Il capo della spedizione, Avicoar, sebbene il capitano cerchi di impedirlo picchiandolo con una grossa corda, balza sulla nave subito seguito da altri che saltano da ogni parte. Il capitano ed i marinai cercano di opporsi, ma la navicella è piegata su un fianco ed è alta meno di un metro dall’acqua.
Avicoar, trascurando il capitano che l’aveva colpito, si dirige verso Mazzucconi che gli stende la mano in segno di saluto. Ma il capo, estratta la scure dalla cintola, l’abbatte rapidamente sulla testa del missionario, che cade col cranio fracassato, tra fiotti di sangue. È il segnale concordato per il massacro generale. Il capitano ed i marinai si difendono con sbarre di ferro, ma sono rapidamente sopraffatti e finiti con le scuri e le mazze. Padroni della goletta, gli indigeni la saccheggiano.
Fatta la confessione, Puarer chiede al missionario di seguirlo a Sydney, per timore di essere lui pure ucciso. Non torna nemmeno a terra per salutare i parenti. È l’unico convertito, battezzato poi da Raimondi col nome di Giovanni e lo segue dall’Australia al
Borneo e ad Hong Kong. In tre anni a Woodlark, i missionari avevano dato un unico battesimo alla figlia del capo Pakò (18 mesi), affezionata ai missionari, poco prima che morisse.
Il mattino seguente, 6 maggio 1856, «La Favorite» toglie l’ancora e si dirige verso «La Gazelle» riversa sugli scogli con l’intenzione di esaminare il relitto. Gli indigeni, sulle canoe, sugli scogli e sulle spiagge vicine, sono tutti all’erta: vogliono sorprendere
Raimondi e gli altri quando con la barchetta di bordo si dirigeranno verso la navicella di Mazzucconi, per attaccarli in mare. La situazione diventa pericolosa. Il capitano ordina di sparare due colpi col cannoncino di bordo, ma le polveri umide non prendono fuoco. Anche i fucili fanno cilecca. «La Favorite» non può far altro che ritornare a Sydney.
Tornata la nave in Australia il 13 giugno 1856, la notizia del massacro è diffusa dai giornali: molti protestano, i parenti dei marinai de «La Gazelle» chiedono una punizione per gli indigeni di Woodlark. Raimondi viene convocato dal segretario del governo della colonia, ma si rifiuta di accompagnare una nave che vada a punire gli isolani: i missionari perdonano e pregano per gli uccisori, non vogliono nessuna vendetta. Il governo manda una nave militare che bombarda i villaggi attorno alla baia di Guazup, tornando a Sydney il 16 settembre 1856, un anno dopo il martirio.
L’isola poi viene abbandonata fino al 1890, quando gli indigeni ricordano i maristi, ma si rifiutano di parlare dei missionari italiani. Nel 1902, un missionario del Sacro Cuore che visita l’isola trova un vecchio di 70 anni che dice di essere stato testimone del martirio di Mazzucconi, ma quando si accorge che il missionario sta indagando sul fatto, scappa e non si fa più vedere. L’omertà iniziale continua anche dopo 50 anni! Nel 1980, il Pime è invitato a ritornare su quelle isole: riprende la missione della Melanesia anche a Woodlark (vedi capitolo XXIII).
La prima missione: gratuità, generosità e martirio
Non si può negare, nella scelta dell’Oceania, una certa ingenuità e romanticismo: i primi missionari prendevano alla lettera le parole di Gesù: «…fino agli ultimi confini della terra» (Att. 1, 8). Questa scelta di fede, ai limiti del buon senso, ha segnato la storia dell’Istituto in modo più alto e nobile che quello di un entusiasmo ingenuo e romantico: ha sempre indicato dedizione totale alla causa missionaria, predilezione per i popoli più difficili e abbandonati, la missione intesa soprattutto come «primo annunzio di Cristo» e fondazione della Chiesa dove ancora non esiste.
Uno degli aspetti più toccanti dell’esperienza oceanica di questi missionari è la gratuità e il fallimento umano della loro missione: giudicata con la logica del nostro mondo efficientista, è del tutto fallimentare. I missionari vivono a Rook ed a Woodlark poco meno di tre anni sempre ammalati di febbri, fra popolazioni dell’età della pietra che non li capiscono, li sfruttano, li deridono e li minacciano! In una lettera Mazzucconi scrive: «I successi sono nelle mani di Dio e i momenti della grazia bisogna saperli aspettare con serenità e pazienza».
Missione non solo fallimentare, ma conclusa col sangue del martire Giovanni Mazzucconi (beatificato da Giovanni Paolo II il 19 febbraio 1984). Un secolo e mezzo fa, vocazione missionaria e vocazione al martirio quasi si identificavano: tanti i missionari martiri in tutti i continenti! Mazzucconi, come i suoi compagni, cresciuti in un clima di donazione totale alle missioni, concepivano il martirio come la fine naturale di una vita già tutta spesa per la diffusione della fede fra i non cristiani.
L’attualità di un missionario martire come Mazzucconi, che non ha convertito nessuno, non ha costruito né fondato nulla, è questa: di richiamare con forza l’essenziale della missione, la fede e l’amore di Dio e del prossimo, fino a donare la propria vita.
Tutto il resto è importante, ma secondario.
NOTE
[1] I documenti originali di questa travagliata ricerca della prima missione si trovano, oltre che nell’Archivio generale dell’Istituto, in «Inizi del Seminario lombardo per le missioni estere, Documenti d’archivio, vol. I (1849-1850), vol. II (1851), vol. III (1852-1854)», Ufficio storico del Pime, Roma 1995, per complessive 641 pagine (i volumi contengono tutti i documenti della fondazione trascritti al computer, a cura dell’Ufficio storico del Pime). Le citazioni sulla missione d’Oceania nel vol. I, pagg. 168-171, 175-176, 181; vol. II, pagg. 104-105, 306-308, 315, 366-367. Si veda pure la «Positio» per la causa di canonizzazione del beato Giovanni Mazzucconi, scritta da p. Carlo Suigo, Roma 1969, pagg. 677.
[2] AME (Archivio Missioni Estere), vol. III, pagg. 167-169; e in «Inizi del Seminario lombardo…», cit. pagg. 175-177.
[3] «Protesta di un missionario che si dedica a Dio per la conversione degli infedeli ». Si veda: PIERO GHEDDO, «Mazzucconi di Woodlark», Emi 1984, pagg. 277 (citaz. a pag. 72); SILVANO MAGISTRALI, «Personalità spirituale del Mazzucconi », «Mondo e Missione», gennaio 1984, pagg. 31-34; SILVANO ZOCCARATO, «La missionarietà di Giovanni Mazzucconi», «Mondo e Missione», gennaio 1984, pagg 35-42; GIUSEPPE NEGRI, «Psicologia e santità: il caso del beato Mazzucconi», «Infor-Pime», settembre 1996, pagg. 21-26.
[4] «Scritti del servo di Dio P. Giovanni Mazzucconi», a cura di Carlo Suigo, Pime, Milano 1965, pag. 191.
[5] G.B. TRAGELLA, «Carlo Salerio, Apostolo della Riparazione», Pime, Milano 1947, pagg. 366.
[6] AMELIO CROTTI, «Padre Paolo Reina, Il primogenito del Pime (1825-1861)», Pime, Milano 1989, pagg. 326.
[7] Questo in teoria. In pratica Mazzucconi scrive a Marinoni da Sydney (12 maggio 1855) che dopo il primo anno della sua permanenza a Rook «le lettere venute per noi dall’Europa giunsero a Sidney che la nave per visitarci era già partita: furono date ad un ‘‘brik’’ (brigantino, n.d.r.) che probabilmente perì e con lui le lettere».
[8] Vedi la «Positio» di Mazzucconi citata, pagg. 286-287.
[9] Nel settecento, gli illuministi e J.J. Rousseau avevano diffuso il mito del «buon selvaggio», che ignora la rivelazione sul peccato originale e tutto l’insegnamento biblico: la natura umana è buona, l’uomo «primitivo» che vive secondo la natura è buono e felice, ma viene corrotto dalle leggi e dal moralismo cristiano. Anche un certo «terzomondismo» dei nostri tempi non è lontano da questa visione ideologica del tutto contraria alla realtà: gli indios delle foreste sono tranquilli e felici, perché andare a disturbarli?
[10] Intervistato a Goroka nell’estate 1980. P. GHEDDO, «Mazzucconi di Woodlark» cit., pag. 176.
[11] L’etnologo Luigi Vannicelli pubblica nel 1968 il manoscritto di Salerio con ampio commento: «Contributo all’etnologia di don Carlo Salerio, Pime», Università Lateranense, Roma, pagg. 44 (l’originale si trova nell’archivio dell’Opera della propagazione della fede a Lione).
[12] Nell’archivio generale dell’Istituto a Roma è conservato l’elenco dei 185 oggetti portati dall’Oceania.
[13] «Scritti del servo di Dio p. Giovanni Mazzucconi», a cura di p. Carlo Suigo, Pime, Milano 1965, pag. 257.
[14] Padre Salerio scrive: «Prima dell’arrivo dei missionari, a detta dei naturali stessi, Woodlark era continuamente in guerra». Durante la presenza dei missionari a Woodlark regna la pace (ottenuta con doni ai capi), ma appena essi partono in nave e rimangono nella baia una decina di giorni in attesa del vento favorevole (luglio 1855), fanno a tempo a vedere villaggi in fiamme e la guerra che riprende con maggior violenza di prima!
[15] Perché attendere tanti mesi prima di cercare Mazzucconi? Con i fragili vascelli di legno del tempo (quelli piccoli che i missionari potevano noleggiare) si poteva affrontare l’oceano Pacifico solo in certi mesi dell’anno. Quindi, dal settembre 1855 i missionari a Sydney debbono attendere fino all’aprile 1856 per mettersi alla ricerca di Mazzucconi.
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