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« Sto ritrovando il senso della mia vita, che non è la missione o qualsiasi altro bene apostolico, ma Dio solo e la sua volontà»*

Augusto Gianola nasce a Laorca di Lecco il 5 novembre 1930 da papà Daniele e da Luisa Valsecchi primo di tre femmine e due maschi: Augusto, Annamaria (carmelitana nel,monastero di clausura di Sassuolo, Modena), Maria Teresa (sposata, con due figli), Pinuccia (suora di Carità dell’Assunzione, a Napoli), Alberto (sposato, con quattro figli).
Ragazzo vivace e intelligente, portato all’avventura e affascinato dalla natura e dalla montagna, dopo le elementari e il ginnasio a Lecco entra in liceo nel Seminario arcivescovile di Milano, a Venegono Inferiore (Varese), dove compie tutti i suoi studi e viene ordinato sacerdote diocesano il 28 giugno 1953. Vice parroco a Locate Varesino (Como) dal 1954 al 1961, poi un anno a Verano Brianza, entra nel Pime nel settembre 1962 per un «anno di formazione» fino alla fine del luglio 1963, quando emette il giuramento di fedeltà all’ Istituto e alle missioni. Nell’ottobre 1963 riceve dalle mani di monsignor Giovanni Colombo (suo rettore a Venegono e futuro cardinale arcivescovo di Milano) il crocifisso di missionario e parte per Parintins (Amazzonia brasiliana) il 5 novembre 1963.
Le poche lettere di questo primo periodo della vita di Augusto presentano due caratteristiche che già delineano la sua personalità: l’appassionata ricerca di Dio e della santità, la coscienza della sua debolezza di fronte alla tentazione e al peccato. Interessante il rapporto, da uomo a uomo, col padre Daniele (di cui è conservata una bella lettera) e con la sorella Annamaria, carmelitana. Ad ambedue chiede preghiere per la sua santità e li prega di richiamarlo se va fuori strada.
Non ci sono in queste lettere di Augusto richiami alla «missione fra i non cristiani», caratteristica del Pontificio istituto missioni estere in cui ha deciso di entrare. Lo spiega bene Augusto stesso, nella lettera ad Annamaria citata in questo capitolo: il senso della sua vita «non è la missione o qualsiasi altro bene apostolico, ma Dio solo e la sua volontà». Le missioni estere sono apparse ad Augusto la frontiera estrema della Chiesa, il cammino più difficile e affascinante verso l’unione con Dio, la santità. Anche il sacerdozio, dice in altra lettera, è secondario: «Diventar prete è importante, ma non l’essenziale; l’essenziale è essere in grazia di Dio».
Non è quindi la «passione missionaria» che anima Augusto, ma la ricerca di Dio e della santità, il desiderio del deserto e dell’isolamento, la fuga dalle tentazioni e da un mondo troppo ricco e consumista. Questa sarà la molla principale della sua vita, che spiega molti suoi atteggiamenti in missione, non ben visti dal vescovo e dai confratelli (come vedremo).
Eppure don Gianola era particolarmente adatto al ministero sacerdotale. Lo dimostra il forte ricordo spirituale che ha lasciato a Locate Varesino, secondo le testimonianze raccolte dopo la sua morte (1).
L’«anno di formazione» nel Pime (settembre 1962 -luglio 1963) ha avuto una grande importanza nella vita di padre Gianola, come più volte dirà lui stesso. Il direttore padre Franco Vernocchi (vedi le note 20 e 21 in questo I capitolo) al termine dell’anno dà di lui questo giudizio: «Esuberante, presenta atteggiamenti che sembrano un po ‘… svitati. È buono e generoso. Si è mostrato docile e sempre pronto a qualunque servizio. È animato da retta intenzione e pieno di tante belle qualità: pietà soda, attività, generosità… È molto docile e accetta con umiltà sincera e sincero desiderio di emendarsi le osservazioni che gli si fanno. Se continuerà a lasciarsi guidare, potrà fare un bene non comune».

Lettere di Augusto Gianola:

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« Se incominciassimo una corrispondenza più intima fra noi»

Ho ricevuto nel pomeriggio il tuo scritto, proprio mentre mi recavo a fare un po’ di adorazione, solo una mezz’ora: invece vi sono rimasto tutto il pomeriggio, e non so neppure se a pregare o a pensare, o far che.
Mi sono sforzato di riflettere su quanto mi dicevi; per qualche giorno non mi sono sentito di prendere in mano la penna.
Poi ho deciso, ho scritto, ma rileggendo, la lettera mi si è stracciata tra le mani. Ne ho scritto un’altra: stracciata come la prima. Non volevo quasi più rispondere, ma ora mi decido con la speranza che quest’ultima ti giunga nelle mani ancora intera.
Tu mi hai detto tante cose vere, ma mi ha colpito particolarmente là dove dici ad esempio che forse non mi conosci (2).
Può darsi sia vero? Noi ci conosciamo guardandoci negli occhi, senza parlare. Però è possibile e per questo ti scrivo, chiedendoti scusa del mio orgoglio; volevo vedere chi si sarebbe aperto per primo: sei stato tu. Sono stato orgoglioso, ma forse è venuto il momento di spezzare questo muro di vetro che ci separa.
Se incominciassimo una corrispondenza più intima fra noi, quella che svela i nostri segreti, che porta all’arricchimento delle nostre due anime, così sensibili e vicine, quella che commuove e fa sempre piacere rileggerla, anche a distanza di anni… Ho detto arricchimento, ed è vero; perché tu mi potresti arricchire di una esperienza umana così preziosa, ed io potrei renderti una ricchezza interiore, tolta dalla mia piccola esperienza religiosa…
Ti lascio per ora, ma ti scriverò presto; tu nella prossima tua dimmi qualcosa in merito.

P.S. Non so se è il caso che la mamma (3)1egga quanto ho scritto e scriverò. Forse è meglio di no: però fa come vuoi.

Al papà da Venegono Inferiore, 27 maggio 1951

2.

«Pensa un po’ se domani dovessi tradire Cristo»

Non ti dico quanto la tua lettera mi ha fatto piacere: non per le varie, solite notizie della vostra vita quotidiana, quanto per quell’accenno alla mia Messa. lo non vi ho mai parlato delle mie cose, almeno intimamente, ma credo che me la caccio (4) lo stesso, come se la caccia il papà, che non dice mai niente dei suoi affari e di dentro chissà come soffre.
« Lo farò per la tua Messa…» tu scrivi: io ti ringrazio. Ho bisogno di tanti aiuti: pensa un po’ se domani, sbattuto da tempeste intime, dovessi tradire Cristo (5)! Eppure questa è una cosa certissima se io fossi da solo, con le sole mie forze a seguire la mia via.
Questo tuo sforzo quindi non è vano, perché è vera la dottrina del Corpo Mistico: la linfa che scorre nelle vene di questo Corpo, giunge a tutti i membri.
Anche in un altro senso sono contento della tua decisione. In questa vita tutti dobbiamo lavorare, ma per l’altra vita. Pretendiamo di andare in Paradiso dopo aver passato tutta la vita a parlare del bel tempo, o del vestito della zia, o delle calze di nailon…? L’aldilà sarà per noi tanto più bello quanto più di qua tentiamo di far qualcosa per prepararcelo. Che se poi dovessimo andar di là e trovare della gente che ci ringrazia per averli aiutati a passare un po’ meno male questa vita, credo che Dio ci sorriderebbe con compiacenza.
Ancora per la verità del Corpo Mistico, il tuo lavoro si ripercuoterà sul mio e viceversa, e l’unione fa la forza.
Io sono molto contento nel sapere che tu, nel pieno della tua giovinezza, ti getti nella battaglia, portando forze fresche nella mischia: lasciamo pure che gli altri siano solo spettatori, che si lamentano che il mondo va male, ma nulla fanno per farlo andar bene. Non sono lontani i tempi eroici del cristianesimo, e chi si è allenato nelle battaglie potrà aver la forza nel martirio: gli spettatori soccomberanno.

Alla sorella Annamaria da Venegono Inferiore, dicembre 1952

3.

« Un nonno come il nostro non ce l’ha nessuno»

Ormai è l’ultimo anno che passo un po’ legato a voi, perché dopo sarò gettato dentro un campo di lavoro, chissà quale, che io dovrò lavorare, forse senza grandi soddisfazioni.
Vedi, io pur nelle mie incertezze passate, mi san sempre visto davanti un avvenire che non sia come quello dei comuni uomini, cioè un avvenire che non tenga conto alcuno di tutto quello che il mondo apprezza così tanto, ed è il successo, la gloria, l’apparire qualcuno sulla ribalta della terra.
Questo proprio non mi ha mai attirato, anche se in pratica la mia natura vivace mi ha portato a conoscere un po’ di tutto ed a sperimentare un po’ tutte le emozioni.
Io sono sempre vissuto vicino a te, ma ho sentito che forse non riuscivo a farmi capire, e tu senza dubbio ti sei accorto che, quando parlavi di farmi fare questo o quello nella vita, e mi citavi esempi del tale e del talaltro, perché io mi impegnassi a scegliere una «carriera» (diciamo così), ti sei accorto che non sono mai stato entusiasta.
Insomma, è giunto il momento in cui tu devi donarmi tutto a Dio (6).
Quando io sono entrato in seminario Dio ti ha chiesto di darmi a Lui. Cioè ti ha chiesto di dare a Lui, tutto a Lui, senza riserve, un figlio, il maggiore. Io ho capito che colpo doveva essere per te, più che per la mamma.
Tu, dopo qualche reticenza, ti sei deciso a darmi a Lui, ma io ho capito che a te premeva troppo tuo figlio per poterlo gettare via, darlo ad un altro, senza pretendere nulla, e perciò ti sei sempre sforzato di spingermi a diventare qualcosa di importante, per poter ricavare qualche soddisfazione e poter dire: quello è mio figlio. Ora invece ti prego, dammi tutto, rinuncia ad ogni diritto su di me, lascia che Dio che mi ha rubato a te, mi porti via tutto. Credo che al momento sarà una cosa dura, ma forse è l’unica via per acquistare la vera gioia.
Ti chiedo ancora: quando sarò prete non abbandonarmi del tutto, perché io, tu mi conosci, ho bisogno sempre di qualcuno che mi sgridi quando faccio male. Al momento mi ribellerò, ma poi ci penso e riconosco. Quindi può darsi che da prete io non faccia bene. È solo un’ipotesi, ma i fatti sono quel che sono: il 10% dei preti sono spretati (solo nella città di Milano ce ne sono 2000!!!).
Ti chiedo perciò che tu, quando sai che io non faccio bene, venga a rinfacciarmelo, e vorrei quasi dire, a darmi delle botte… Tu mi hai capito. Forse il rimprovero del mio papà, mi terrà sulla giusta strada.
Non posso non ricordare qui la grande figura di un uomo scomparso quasi un anno fa, che per la festa dei papà era sempre venuto a Venegono: il nonno (7).
Più ci si allontana nel tempo, il dolore scompare, ma sorge più forte l’ammirazione: la sua figura si staglia più che mai viva sullo sfondo della nostra casa, della mia fanciullezza, e suscita un’ondata di ricordi, che non si dimentica più. Il nonno non lo dimenticherò più. Sarà sempre quella testa bianca che ci sembrava di vedere aggirarsi nella nostra casa, nello stabilimento, nella nostra vita.
Un nonno come il nostro nonno non ce l’ha avuto nessuno.
Io mi rifaccio spesso a lui quando ho bisogno di un aiuto per compiere il mio dovere. Era l’uomo del dovere. Un po’ tutti dobbiamo ringraziarlo, nella nostra famiglia, ma specialmente io, e lo so perché farlo. Mi ha detto spesso alcune cose, e soprattutto mi ha fatto vedere una vita piena.

Al papà da Venegono Inferiore, marzo 1953

4.

« Prego per te perché tu sia un buon sacerdote»

Sono qui in ritiro da stamane (8). È la prima volta che prendo parte a uno di questi ritiri spirituali e forse ci ritornerò in qualche altra occasione. A dire il vero non mi sono trovato male, per quanto il tempo per me sia sempre poco per dedicarmi maggiormente allo spirito.
Questa volta però mi sono dedicato con un preciso scopo e tu l’hai già compreso. Si avvicina il giorno della tua prima Santa Messa e il mio desiderio è quello di pregare per te perché tu abbia ad essere un buon Sacerdote.
Ho pregato ed ho dedicato questi due giorni a questo preciso scopo pensando che, se un giorno sarai veramente un buon Ministro di Dio, forse avrò contribuito anch’io sia pure in piccola misura.
Ho sempre in mente le parole della tua ultima lettera nella quale mi raccomandi di essere ancora vicino a te e di sgridarti sempre in caso di tue debolezze. Lo farò, stai certo, perché è mio dovere di padre di stare sempre vicino ai miei figlioli, anche quando questi crescono nell’ età e prendono la strada a loro assegnata dalla Provvidenza.
Alle volte ti sarà dato di pensare, e con te anche le tue sorelle e fratello, che io sia stato troppo burbero con voi e magari la mia severità vi avrà portato a pensare ad una mancanza di affetto. No, questo non dovete pensarlo perché il mio modo che vi può sembrare anche troppo drastico, è sempre mosso ad un fine di bene e cioè è sempre tendente a vedervi crescere bravi e virtuosi, poiché il desiderio dei genitori è precisamente quello di vedere i loro figli crescere per bene.
La tua strada ormai l’hai scelta e se io desideravo diversamente per le ragioni a te note, non era certamente per contrastarti nella tua idea; ma dal momento che hai desiderato così, io ti auguro ogni sorta di bene e rinnovo ancora le mie raccomandazioni perché tu sia sempre di esempio agli altri e ai tuoi Superiori.

A don Augusto da papà Daniele, da Galliano, 25 aprile 1953

5.

«A me piace moltissimo la solitudine»

A lungo avrai atteso una risposta alla tua magnifica lettera da Galliano. Finiti ieri alcuni esami posso accingermi con una certa calma a rispondere.
Dalla tua lettera ho capito che in mezzo ad una vita così indaffarata come la vostra, ogni tanto fa bene ritirarsi un po’ nel deserto, in un deserto vuoto di tante cose quotidiane, di tante cose troppo terrene, ma pieno di pensieri, di vita.
Tu per natura sei un tipo che non manifesta spesso i propri pensieri, ma quando ti si guarda fuori del tuo lavoro, si vede in te un pensiero, una preoccupazione. Ho sempre creduto che tu fossi immerso in chissà quali pensieri.
Io ho ereditato molto del tuo carattere, ho amato spesso il deserto: a me piace moltissimo la solitudine, ma una solitudine piena di pensieri, piena di vita (9). L’anno scorso, se non avessi dovuto fare il prefetto in liceo, mi sarebbe piaciuto ritirarmi per un mese di esercizi.
A me piace soprattutto la montagna, appunto per questo suo aspetto di deserto, di solitudine. Quante volte vi sono salito da solo (da quando ho fatto la Segantini per la prima volta!!) per lasciar parlare la natura, per scoprire tutti i miei sentimenti, che mutano ad ogni svolta di sentiero.
A me sembra che quanto più l’uomo si sottrae all’influsso dell’ambiente, tanto più vive. Nell’ambiente tante cose si fanno per abitudine, e non si è convinti di farle; ma quando si è soli, si vive noi, siamo noi stessi i costruttori della nostra vita. Quante volte ho maledetto l’ambiente del seminario, proprio in quanto «ambiente» che non permette una vita personale! Quando sono a casa in vacanza, farò più poco, ma quel che faccio lo faccio io, e non il campanello.
Nella tua lettera dici di non aver tempo per pensare allo spirito. Questo non mi sembra del tutto vero: a me sembra che quando un uomo pensa alla sua famiglia, ai suoi figli, è un uomo spirituale. Quando uno si sacrifica fa un’azione spirituale. Uno che cerca il piacere invece, il proprio comodo, è un uomo materiale, perché il piacere è diverso dalla gioia: è materiale.
Quando uno pensa alla famiglia, ai suoi figli, non è egoista, non pensa a se stesso: è altruista, ha in sé dell’amore, e l’amore è spirituale, è realizzazione del più potente comando di Dio.
Tu del resto lavori (diciamo impropriamente) materialmente, perché la tua famiglia possa essere in grado di vivere bene, e quando si vive agiatamente si ha più tempo e più voglia di dedicarsi allo spirito. .
Guai se una famiglia non avesse un capo che pensa a lei e la mette in grado di fare il suo dovere: come qualunque istituto (per esempio il seminario), ha in sé un fine spirituale, però ha bisogno delle sollecitudini di un rettore che procuri il benessere ai componenti, così in una famiglia; è vero che il tuo lavoro diretto è materiale, ma è in vista di un fine spirituale: affinché la nostra famiglia svolga tutta la sua missione sociale sulla terra e poi si trapianti nella vita vera.
Se in una casa la mamma dev’essere il cuore, il papà ne è la testa, intelligente e previdente. Quindi non è che a te non prema lo spirituale, ma è che vorresti viverlo un po’ più coscientemente, pensandoci su. Ma questa non è la cosa più importante: quel che conta è vivere amando nel sacrificio, non importa l’accorgersi. Qualcuno si accorge e ne tiene calcolo.
Quindi non pensare che noi ti riteniamo troppo avaro. lo non ho mai pensato questo, anche se talvolta mi sono ribellato ai tuoi lamenti.
Io ti ringrazio moltissimo per la delicatezza del tuo pensiero nel recarti a Galliano. Forse non meritavo tale attenzione, almeno da parte tua. Sarò sempre io che debbo qualcosa a te, e non viceversa.
Io sono contento di averti vicino, sono contento che tu hai pensato di purificare i tuoi desideri e il tuo cuore, ora che sto per diventare sacerdote. E questo mi ha fatto contento, ma mi ha fatto anche paura: se dovessi venir meno (10), dopo aver così tanto ricevuto da Dio e da voi! .

Al papà da Venegono Inferiore, 8 maggio 1953

6.

«Diventar prete è importante, ma non l’essenziale»

Sai che cos’è la grazia di Dio? Tu naturalmente ti fai in cento per far festa a me, o per lo meno per aiutare a preparare il giorno mio (11). Ma quel giorno è una cosa importante: non è la cosa più importante.
Diventar preti è una cosa importante, ma non è ancora l’essenziale: l’essenziale è essere in grazia di Dio. Noi dovremmo far festa a chi è in grazia di Dio: quelli sono i figli di Dio. E lo puoi essere anche tu.
Questo per dirti che tutte le cose di questo mondo possono essere importanti. Ma non saranno mai essenziali.
È il mio augurio, mia cara, anche per te. Tu vieni dopo di me. Ora la casa è nelle tue mani: io me ne vado. Certamente io sarei stato un impiccio e non di esempio per i miei fratelli: tu, a quanto pare sei stata un’educatrice, che hai raccolto la tradizione della nostra mamma. lo ti ringrazio.
Tu ricordati di me, di questo tuo fratello che pur non avendo le tue virtù, ha però un gran desiderio di Dio.
Ama, prega con me il Signore. Così:
Signore Gesù, dacci sempre la tua grazia, buttala giù a fiume, fa’ che nessuna anima perisca, di quelle che ci hai affidato.
Signore, dacci coraggio nella lotta, affinché lasciamo un mondo migliore di come l’abbiamo trovato. Così sia.

Alla sorella Annamaria, dalla Casa di esercizi degli Oblati di Rho, 24 giugno 1953

7.

« È terribile arrivare al sacerdozio a mani vuote»

Non penso di star scrivendo una lettera storica, di quelle che si tirano fuori dopo tanti anni, perché sono state scritte in occasioni speciali, ma penso solo di dirvi alcune cose semplici, che sapevate già, ma che una volta in vita bisogna dire: non perché è usanza il dirle, ma perché se ne sente un sincero bisogno.
Dovrei ringraziare. Ringraziare? Certo, nonostante che a voi sembra quasi dover ringraziare me.
Anzi dobbiamo ringraziare il Signore tutti assieme, perché fra i mille giovani più in gamba di me, Egli ha scelto me.
Inoltre, io da solo questa volta, devo ringraziare voi: senza la vostra volontà, Dio non avrebbe creato la mia anima; voi avete reso possibile l’attuazione della Provvidenza eterna di Dio.
Io resto ammirato quando penso che ben quattro fratellini « andati a male» non vi hanno distolto dalla via della verità. Forse Dio voleva premiarvi nel quinto. Ma io non sono degno neppure di questo, o Signore: quante volte ti ho tradito, quanto è incerto il mio presente! Mio Signore, tu solo vedi fino in fondo questo pozzo scuro: quanta fatica dovrà fare la gente per attingervi un po’ di acqua. Mio Signore, riempimi, fa’ Tu, arrangiati: io sono a tua disposizione: se Tu riesci a salvare qualcuno che muore di sete con la mia acqua, anche quest’opera non è mia ma Tua.
Miei cari, non continuo più. Almeno voi pregate per me:
se sapeste quanto sono miseri gli uomini superbi! È terribile arrivare alla vigilia del sacerdozio e trovarsi a mani vuote (12). O Signore, io ti presento le mie mani vuote:
io non so dare, mio Signore;
Tu però sai prendere; ebbene, prendi tutto!
Ascolta la preghiera del mio papà, della mia mamma.

Ai genitori dalla Casa di esercizi degli Oblati di Rho, 24 giugno 1953

8.

«Non giudicare le cose dal punto di vista dell’egoismo»

Rispondo subito alla tua lettera così preoccupata (13). Dopo che avevo sentito la situazione di papà avevo deciso di approfittare dei soliti due o tre giorni di caccia con lui (14) per entrare in argomento ed eventualmente dire la mia, nei debiti modi, per affrettare se non una decisione, almeno una maggior rassegnazione.
Questo però non mi è concesso, perché, come saprai, c’è il parroco all’ospedale (15) e mi son trovato addosso un carico tale di lavoro, da sentirmi vacillare anche nel fisico oltre che il morale. Quindi non potrò incontrare né voi, né papà, a meno che non abbiate la bontà di venirmi a trovare (non di domenica).
Quanto all’ Annamaria mi pare sia chiara la cosa. Almeno per me. Se poi volete un parere anche per voi, aspettereste inutilmente, perché in fatto di pareri mi sento così bambino ancora, da darne soltanto in casi estremi. Nei quali casi finora ho quasi sempre sbagliato, il che mi rende ancora più guardingo.
Se voi ritenete questo uno dei casi estremi, allora senza indugio dirò che nei casi come quello di Annamaria, non bisogna mai giudicare le cose dal punto di vista del nostro egoismo, sia pur affettuoso egoismo. Dovete fare il suo bene. Da parte mia, a suo tempo quindi, ho parlato chiaro sia ad Annamaria sia a don Giuseppe.
Quanto a papà farà più fatica ad arrivare a ciò, perché la sua formazione è diversa dalla nostra, ma è compito di tutti noi, di tutti voi che gli siete vicini ogni giorno, aiutarlo a capire e a sopportare. Compito anche di Annamaria specie quando sarà lontana. Pregherà e scriverà. Sappiamo che papà sarà sempre più felice e convinto di queste decisioni dei suoi figli a mano a mano che invecchierà.
Eccoti dunque il mio parere. Dimmi tu se ho aggiunto qualcosa a quello che sapevi già. Perciò la vostra saggezza saprà decidere, come credo abbia deciso, se non a parole almeno in fondo al cuore. Sappiate solo che io vi sono sempre unito, anche se parlo poco: unito nelle decisioni che prenderete, nel vostro affetto per Annamaria e nella vostra sofferenza per il distacco.
Specialmente unito al dolore un po’ ribelle di papà.

Alla mamma da Locate Varesino, 11 novembre 1959

9.

«Non dirmi niente. Una monaca deve pregare e basta»

Mi dirai che sono strano questa volta, ma proprio non mi sento ancora di scriverti. Ti mando due righe solo per dirti che sono ancora vivo e che ti sento.
Ti sento anche se non scrivi, e quando scrivi ti capisco proprio fino in fondo, so che sei sincera quando dici di aver offerto tutto per me. Sappi che capisco tutto per ora.
Però non riesco a trovare un linguaggio un po’ adatto per rispondere al tuo. Quando lo troverò forse scriverò più spesso e più bene. Sono un po’ a terra, ma non sforzarti di tirarmi su a parole. Credo ci vorrà una specie di miracolo grosso. Le parole non servono a nulla. È la «Parola» che conta. Sai, Dio se ne va per i suoi affari. A volte mi sento un «affare» di Dio.
Ad ogni modo cerca di capire e di non dirmi niente. Una monaca deve pregare e basta.
Per quanto ti ho detto prima di entrare (ricordi? – ricordalo, altrimenti non ho più neanche quella speranza ultima che ho – un filo) rimane la cosa più importante fra i nostri rapporti, ciò di cui potremo parlarci in Paradiso, come di un’avventura (16).

Alla sorella Annamaria da Locate Varesino, 14 luglio 1960

10.

«L’idea forza non è la missione, ma Dio solo»

Non posso più oltre continuare a tacere, ne sento tale rimorso che ve ne chiedo perdono (17). Ma non ci vedevo bene nel tempo passato, le mille cose che mi diluivano Dio, mi prendevano il tempo, l’affetto e l’impegno, diventando così delle piccole divinità a cui volentieri sacrificavo tutto me stesso. Non è detto che io vi scriva più spesso, ma è già significativo che io vi abbia comunicato quanto sopra.
Mi trovo come in un Carmelo: un paio d’ore di libertà (parlare, giocare), cinque o sei ore di preghiera, due ore di studio e due ore di lavoro.
Sto ritrovando qui il senso della mia vita, l’idea forza che non è la missione o qualsiasi altro bene apostolico, ma Dio solo e la sua volontà18. Ho perso troppo tempo, questo è il mio rammarico – so che non è possibile ricuperarlo, anche perché certe abitudini inveterate in me rendono lento il mio passo e lo spirito spesso deve attendere la carne che si attarda. Ma questo non mi indispettisce e mi fa dire: «Dio mio, tutte le possibilità che Tu ancora vedi in me, io te le offro, spremi più che puoi da questi pochi (!) giorni che ancora, immeritatamente, mi concedi».
Dovessi morire anche entro quest’anno, sarei grato eternamente a Dio, per avermi portato qui, in questo anno di noviziato.
Sento, Sorelle mie, che devo essere grato, immensamente grato anche a voi, che con le vostre preghiere (unite a quelle della mia mamma), avete ottenuto, direi quasi, un miracolo. Spesso io dicevo al Signore: «Non guardare me, guarda quel Carmelo laggiù, e fammi questa grazia». Grazie infinite anche a voi, dunque. Se il Signore mi manderà in missione, quella preghiera la ripeterò spesso. Ma anche se non andrò, se Voi lo permettete, io, per il vostro ricordo, mi riterrò al sicuro da ogni vero male.

Alla sorella Annamaria e alle Carmelitane di Sassuolo, dalla Grugana, 25 ottobre 1962

11.

« Sono entrato come una belva selvaggia e mi devono pur ammansire»

Ti ringrazio dei tuoi auguri e di tutte le vostre preghiere. Ne sento il peso. lo però non ho il coraggio di chiedere a Dio di aiutarmi, non guardando ai miei meriti, bensì a quelli di Gesù, di Maria, dei Santi e non ultimi a quelli del Carmelo di Sassuolo. Mi pare di pesare su spalle altrui quanto tocca a me portare e guadagnare. Ma se questo è un pensiero di orgoglio, vi rinuncio e accetto tutti gli aiuti, cercando di ricompensare col ricordo giornaliero nella mia Messa.
Il Signore ha lavorato molto in questa povera anima, in questi sei mesi ormai trascorsi. Sarebbe stato bello raccontarti tutte le tappe, per godere insieme della Sua infinita bontà e intelligenza nel saper aggirare gli ostacoli che io continuamente gli oppongo.
Come del resto sarebbe bello per te raccontarmi le tappe della tua ascesa: chissà quali misteriosi lavori ha compiuto in te, se tanti ne ha già compiuti in me, che sono così caparbio e da poco tempo a Sua disposizione.
Non ti posso nascondere che le difficoltà che incontro sono molte, più di quante pensavo. Con Dio non si scherza e se gli domandi una cosa egli te la dà. Se gli chiedi di farti umile per esempio, Egli si mette al lavoro e picchia sodo. I miei superiori fanno il resto. Del resto è logico che io da questo anno debba uscire cambiato, quindi qualcosa debbo pur soffrire.
Sono entrato qui come una belva selvaggia e mi devono pur ammansire: un po’ con lo zuccherino, un po’ con la frusta (19).
Certi momenti di agonia però sono davvero provvidenziali: sono momenti in cui si fanno i passi più lunghi. Sono da paragonare ai momenti di necessità materiale in cui si aguzza l’ingegno.
La necessità spirituale aguzza davvero l’ingegno e ci fa scoprire mezzi sempre più radicali per sopravvivere. Così, non trovando l’acqua della consolazione nei soliti pozzi e al solito livello, se ne scavano di più profondi ove si trovano acque perenni e fresche.
Abbiamo la fortuna di avere un Direttore che non si ferma a metà ma vuol portarci alla scoperta delle cose più segrete di Dio (20). Così si arriva a quei punti di completa fiducia nel Signore: disponga Lui, secondo la maggior gloria sua.
Se sarò missionario, bene, se no bene lo stesso. Dico così perché in questi giorni, parecchi lasciano il noviziato. Sono giorni umanamente neri. In manus tuas, Domine…
Il Signore mi ha portato via dall’Egitto, ma mi ha portato nel deserto. Tuttavia non mi lascia mancare la manna e io lo ringrazio.
Ti saluto, augurandoti ogni bene: che il Signore ti, anzi, ci faccia santi, ma di quei santi che non danno troppo fastidio e quasi ombra. Che la nostra santità sia conosciuta solo da Lui.
Pensa che c’è anche il Carmelo di Coimbra con Suor Lucia che prega per noi. Lucia ogni tanto ci scrive (21). Siamo davvero in buone mani.

Alla sorella Annamaria dalla Grugana, 18 aprile 1963

12.

«Vi ricorderò davanti alla Grotta di Lourdes»

Ti avviso di volata che stasera entro negli Esercizi di preparazione al giuramento missionario (22). Non so quale missionario ne possa uscire perché a fine d’anno mi sento più impreparato che all’inizio. Comunque ormai non posso farei più niente e gli Esercizi saranno solo il suggello della mia nullità.
Allora posso raccomandarmi un po’ a te, a voi tutte in questi giorni e specialmente il giorno 30.
Anche il Carmelo di Coimbra pregherà per noi, con Suor Lucia, ma io voglio un Carmelo tutto per me. Grazie.
Ricambierò ricordandovi in modo particolare davanti alla grotta di Lourdes, dato che una signora mi ha pagato le 41.000 lire necessarie per il pellegrinaggio paolino dal 6 al 12 Agosto. E non sono riuscito a sapere chi sia. È di Merate e ha pagato quattro posti per quattro missionari. lo sono stato prescelto. Chiederò all’Immacolata grazie per me e per te. Ti scriverò più a lungo un altro momento.

Alla sorella Annamaria dalla Grugana, 24 luglio 1963

13.

«Badate, io conto su di voi»

Vi scriverò ancora, specialmente quando avrò da batter cassa: comunque mi sento così unito a voi tutte, quindi in clima di sicurezza! Badate, io conto su di voi. La Madre Priora me lo ha detto e me lo ha scritto: almeno voi, le promesse mantenetele, non fate come me che tutti si raccomandano alle mie preghiere e io prometto a tutti, ma poi… non prego neanche per me.
A te Annamaria, grazie di tutto, delle tue parole, delle tue preghiere, della tua vita: anch’io mi sento più al mio posto ora, con te lì. L’appuntamento giornaliero è quindi nell’Ufficio.
Più precisamente facciamo così: le Lodi del Mattutino: in esse con un piccolo atto di volontà, troviamoci a cominciar la giornata. Così se talvolta dovrò rimandare fino a sera l’Ufficio, penserò che tu l’hai già anticipato per me. Bene?

Alle Carmelitane di Sassuolo da Milano, 3 ottobre 1963

14.

«Mi metto nelle sue mani, a sua completa disposizione»

Eccellenza (23),
mi scusi il ritardo: sono p. Augusto Gianola, uno dei due nuovi missionari che giungeranno prossimamente a Parintins.
Vorrei dirle, e con Lei anche a tutti i missionari di Parintins, tutta la mia gioia e insieme tutta la mia trepidazione in questi momenti di attesa. Gioia per essere stato destinato a quella che dicono sia tra le missioni più belle del mondo. Trepidazione nel pensare alla mia pochezza di fronte ad un compito che mi pare così superiore alle mie povere forze.
In questi giorni ho approfittato per fare una corsa a Lourdes ove ho pregato (anche di notte) per me e per voi tutti, raccomandando Parintins alla Vergine: così mi sento meno incerto.
Penso che Lei venga prima della fine di settembre per il Concilio, quindi avrò occasione di incontrarla e di ricevere i Suoi ordini assieme alla Sua benedizione. Già fin d’ora mi metto nelle Sue mani a completa Sua disposizione.

A monsignor Arcangelo Cerqua da Milano, settembre 1963

* Dalla lettera alla sorella Annamaria e alle Carmelitane di Sassuolo del 25 ottobre 1962.
[1] Si veda la biografia di padre Gianola, P. Gheddo, Dio viene sul fiume, EMI, Bologna 1994, capitolo I.
[2] Quando scrive questa lettera Augusto ha vent’anni e sei mesi ed è alunno di II teologia. Il padre Daniele aveva a Laorca una piccola industria del ferro, una trafileria, oggi rilevata dal!’ ultimo figlio Alberto.
[3] Augusto, ragazzo orgoglioso come lui stesso dice in questa lettera, aveva difficoltà ad aprirsi col padre e sente questo come una colpa. Commovente il fatto che cerchi di stabilire con lui un rapporto «da uomini», sincero e maschio, lasciando fuori la mamma.
[4] «Me la caccio»: dialettale per «mi interesso, mi appassiono».
[5] Augusto visse fin da giovane la fedeltà al battesimo e alla vocazione sacerdotale non come un tran tran quotidiano di sicura buona riuscita se si rispettano certe regole, ma come una drammatica lotta quotidiana fra il bene e il male, ed ebbe il senso profondo della sua debolezza di fronte alla tentazione.
[6] Fra poco più di tre mesi Augusto verrà ordinato sacerdote. Questa lettera al padre è molto bella: devi darmi tutto al Signore, rinunziare del tutto a tuo figlio… In un giovanotto di 23 anni rivela una maturità spirituale non comune.
[7] Il nonno paterno si chiamava Alberto. Avrebbe desiderato vedere Augusto sacerdote, ma morì l’anno precedente la sua consacrazione.
[8] Papà Daniele era a Galliano (Corno) per un breve ritiro spirituale, pratica abbastanza rara fra i laici, che dice la statura spirituale del padre di Augusto.
[9] Augusto già manifesta, a 23 anni, la tendenza al deserto, che poi realizzerà isolandosi per lunghi periodi nelle foreste e sui fiumi d’Amazzonia.
[10] Ecco ancora il timore di tradire la vocazione! Si veda supra alla nota 5.
[11] Don Gianola è stato ordinato sacerdote nel Duomo di Milano il 28 giugno 1953 dal Beato cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, assieme ad altri 112 sacerdoti (92 dei quali diocesani e gli altri dei Cappuccini e del Pime.” fra i quali anche il curatore del presente volume). Questa lettera la scrive alla sorella Annamaria pochi giorni prima dell’Ordinazione sacerdotale, durante il corso di esercizi spirituali.
[12] Come tutta la sua corrispondenza dimostra (e il diario più ancora), Augusto aveva un senso fortissimo (si direbbe persino esagerato secondo il comune buon senso) della sua indegnità, debolezza, pochezza spirituale, che continuamente dichiarava.
[13] Augusto scrive alla mamma dopo che la sorella Annamaria ha comunicato la sua decisione di farsi suora carmelitana di clausura.
[14] Augusto e papà Daniele erano ambedue appassionati cacciatori sulle montagne e nei boschi attorno a Lecco.
[15] Don Gianola era viceparroco a Locate Varesino.
[16] Augusto si riferisce ad un significativo episodio così ricordato da Annamaria: «Quando sono entrata dalle Carmelitane, Augusto mi ha accompagnata al convento e mentre stavo varcando la porta della clausura che era già aperta per accogliermi, mi ha presa per un braccio, mi ha tirata indietro nella saletta del parlatorio e mi ha detto: “Annamaria, prega perché io debbo farmi santo. Ricordati di pregare perché sono io che debbo diventare santo”. Il desiderio di santità, aggiunge la sorella, era forte in lui fin da ragazzo ed è continuato tutta la vita» (si veda Gheddo, Dio viene sul fiume, cit., pp. 26s.).
[17] Don Gianola è entrato da poco più d’un mese nel Pime e sta facendo il suo «anno di formazione» nella casa del Pime della Grugana, nei pressi di Merate (Lecco), che lui chiama «noviziato». Il Pime, non essendo un Istituto religioso, non ha il noviziato, ma fa un «anno di formazione» spirituale e missionaria prima di accettare un giovane fra i suoi membri, col giuramento di fedeltà alla vocazione missionaria e all’Istituto.
[18] Anche questa forte espressione è un segno della profonda aspirazione alla santità che Augusto sentiva fin da ragazzo.
[19] Bisogna notare che don Gianola entra nell’anno di formazione, interamente dedicato alla vita spirituale, dopo nove anni di vita sacerdotale molto impegnata. Si legga nel primo capitolo di Dio viene sul fiume il racconto del suo apostolato a Locate Varesino, con attività travolgenti e tante iniziative per i ragazzi ed i giovani. Fermarsi per un anno, a 34 anni, lui così dinamico ed espansivo, obbedire alle regole minuziose di un seminario (di un «noviziato»!), dev’essergli costata una gran fatica! Ecco perché parla di «belva selvaggia». I suoi compagni di seminario, di 12-15 anni più giovani di lui, lo ricordano con ammirazione perché si adattava a tutto come un ragazzo, pur col suo carattere esplosivo e con iniziative e scherzi che facevano disperare il direttore dell’anno di formazione (ad esempio, entrava al primo piano del seminario dà1le finestre, arrampicandosi sui muri; saliva sul campanile del santuario della Madonna del Bosco di Imbersago, Lecco, arrampicandosi all’esterno!).
[20] Si riferisce a padre Franco Vernocchi (1901-1984), segretario della Direzione generale del Pime ai tempi di padre Paolo Manna a metà degli anni venti, poi per 20 anni mandato in Portogallo dalla Santa Sede come padre spirituale del Seminario missionario di Cucujaes. Dal 1950 al 1958 Superiore regionale del Pime in Guinea Bissau, poi direttore dell’anno di formazione e infine rettore della chiesa pubblica di San Francesco Saverio del Pime in via Monterosa a Milano. Uomo severo ma paterno e cordiale, è morto in concetto di santità.
[21] In Portogallo padre Vernocchi, predicatore e confessore stimatissimo, era stato padre spirituale anche di suor Lucia, una delle tre veggenti di Fatima, con la quale continuò a mantenersi in contatto con lettere e visitandola ogni anno: le chiedeva preghiere per le missioni e i missionari.
[22] Al termine dell’anno di formazione, gli alunni vengono ammessi al giuramento di fedeltà alla vocazione missionaria nel Pime, che incardina all’Istituto (equivale ai «voti” delle congregazioni religiose e al voto di obbedienza al vescovo dei sacerdoti diocesani).
[23] Monsignor Arcangelo Cerqua (Giugliano, Napoli, 2 gennaio 1917 – Rancio di Lecco, 16 febbraio 1960), sacerdote del Pime il 29 giugno 1940, è stato uno dei primi missionari del Pime in Amazzonia. Il 29 maggio 1948 arriva con padre Aristide Pirovano a Macapa (Amapa) ed è suo vicario generale fino al 22 giugno 1952, quando diventa superiore dei missionari del Pime a Manaus. Nel novembre 1955 entra a Parintins, di cui è prelato il15 marzo 1956 e consacrato vescovo il 14 maggio 1961. La prelazia diventa diocesi e monsignor Cerqua ne è il primo vescovo il 5 marzo 1981. Nominato amministratore dell’arcidiocesi di Manaus il 15 maggio 1984, fino al 31 marzo 1985. Rientra in Italia gravemente ammalato nel novembre 1985.
Monsignor Cerqua era molto stimato tra i vescovi brasiliani: nel 1978, 300 vescovi lo elessero, lui straniero, a rappresentare la Cnbb (Conferenza episcopale del Brasile) alla Conferenza del Celam a Puebla in Messico (1979) per l’evangelizzazione missionaria; per una decina d’anni (1968-1979) fu incaricato del settore «missione» in seno alla Cnbb. Si vedano la biografia scritta da padre Ferdinando Germani, Arcangelo Cerqua, Pime, Seminario Sacro Cuore, Trentola-Ducenta (Caserta) 1992, pp. 336, e il volume di P. Gheddo, Missione Amazzonia. 150 anni del Pime sul Rio delle Amazzoni (1948-1998), EMI, Bologna 1997 (su Cerqua si vedano pp. 234s.).

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