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WDKrause, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

Nel prossimo mese Benedetto XVI visiterà il Camerun e l’Angola, due fra i paesi africani nei quali la maggioranza del popolo è cristiana e anche quelli politicamente più stabili e con il maggior indice di crescita economica.

In Africa i cristiani sono circa il 30% della popolazione totale (i cattolici il 18%), ma in Angola i cristiani sono il 75%, i cattolici il 69%, in Camerun i cristiani il 50%, i cattolici il 45%.

Questa sera vorrei parlarvi della missione in Africa e di come la Chiesa, in poco più di mezzo secolo di attività missionaria a sud del deserto del Sahara, ha ottenuto uno dei più importanti risultati nella conversione dei popoli a Cristo, in tutta la sua storia bimillenaria. Credo sia importante ricordare questo, poiché mi pare che molti in Italia pensano che la missione alle genti sia ormai finita, dato che le giovani Chiese hanno già un buon numero di battezzati e di clero e religiose.

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Tre punti:

  1. Storia della missione in Africa, miracolosa. In poco più d’un secolo da due a 130 milioni di fedeli….I primi due vescovi africani sono del 1939, oggi sono più di 400…… La Chiesa in Africa ha solide fondamenta.
  2. Secondo. Questa Chiesa è autosufficiente? No, per vari motivi.
  3. Ecco perché l’Africa deve ancora essere aiutata con personale missionario e anche economicamente: perché è una Chiesa sorella e speranza della Chiesa universale.

I – Un secolo di Vangelo in Africa

Come sapete, da quindici anni sono a Roma per studiare la storia delle missioni del Pime, ma sto studiando anche la storia missionaria della Chiesa. E’ un panorama meraviglioso, entusiasmante. La storia missionaria potrei definirla un libro che, letto con gli occhi della fede, dimostra ad ogni epoca l’intervento diretto di Dio nelle vicende umane. E nella crescita della comunità cristiana, la Chiesa.

Siamo abituati a pensare e citare gli Arti degli Apostoli, per la crescita delle prime piccole comunità cristiane che, nonostante le persecuzioni, si diffondevano e attiravano molti non cristiani. Lo Spirito Santo interveniva in modo misterioso ma chiaro, evidente. Infatti negli Atti si accenna spesso allo Spirito di Dio.

Ma la storia del Vangelo in Africa non è meno bella. Voi sapete che già nei primi secoli dopo Cristo, il Vangelo aveva convertito i popoli del Mediterraneo, dalla Spagna fino alla Turchia e alla Siria, dalla Palestina all’Egitto e fino al Marocco.

Il Mediterraneo si poteva definire un mare cristiano. Poi, nei secoli VII e VIII dopo Cristo (600 e 700 d.C.) tutto il Medio Oriente e il Nord Africa cade sotto la spada dell’islam e quelle fiorenti comunità cristiane scompaiono quasi del tutto. In Africa sopravvivono solo in Egitto, in Etiopia ed Eritres.

Nei tempi moderni, l’evangelizzazione dell’Africa incomincia nel 1500, quando i portoghesi aggirano le coste del continente africano, fondandovi le prime comunità cristiane, nelle isole di Capo Verde, in Guinea Bissau, a Sào Tomé e specialmente in Angola e Mozambico. In Angola fiorisce un “regno cristiano”, che dura quarant’anni, dal 1491 quando il re Nkuvu è battezzato dai missionari portoghesi, al 1530 quando muore il primo vescovo africano dei tempi moderni, dom Henrique. Dopo di lui prevalgono i riti tradizionali africani e la missione cattolica si riduce, come nelle altre colonie portoghesi in Africa, a mantenere il controllo delle coste per i commerci del Portogallo e ad assistere i portoghesi e i loro seguaci e servi africani.

La vera penetrazione missionaria nell’interno del continente incomincia nella seconda metà del 1800 quando l’Africa è esplorata e conquistata dalle potenze europee ed evangelizzata dai primi missionari cristiani, a volte seguendo le vie aperte dal colonialismo, a volte andando verso popoli non ancora raggiunti dagli esploratori europei e dalle potenze coloniali.

L’Europa cristiana entra in contatto con popoli sconosciuti, senza scrittura, dilaniati da lotte tribali e dalla schiavitù. Nella biografia del santo Daniele Comboni (morto nel 1881), fondatore dei missionari Comboniani, scritta dallo storico Gianpaolo Romanato, si leggono molte lettere sue e dei suoi primi missionari, che descrivono la condizione umana dei neri del Sudan in un modo drammatico: “Vivono poco al di sopra della vita animale” scrivono diversi missionari.

Questo poco più di un secolo fa e ci fa capire le enormi difficoltà che la Chiesa ha dovuto superare per fondare le prime comunità cristiane. Era il periodo di eroici pionieri che hanno dato la vita per portare il Vangelo in Africa, incontrando anche l’opposizione dell’islam in varie parti del continente e in vari re e principi africani che hanno perseguitato la Chiesa: ad esempio i martiri uccisi a Namugongo in Uganda (presso la capitale Kampala) negli anni 1885-1886, fra i quali molti giovani, per non aver voluto rinunziare alla fede. Il santuario di Namugongo, visitato da Paolo VI nel 1969 e da Giovanni Paolo II nel 1993, è oggi il cuore della cristianità ugandese.

I missionari cristiani sono giunti a tempo nell’Africa centrale, per impedire che tutta l’Africa diventasse islamica, attraverso il commercio, lo schiavismo, la conquista militare. Nell’attuale Congo orientale (Kivu), Ruanda e Burundi, nella seconda metà del 1800 i Padri Bianchi fondarono la Chiesa con una rete di “ferme-chapelle”, cioè di fattorie-cappella, ciascuna delle quali formava il centro della vita cristiana e dell’evangelizzazione del territorio. In quegli anni, le carovane degli schiavisti arabi venivano dall’isola di Zanzìbar e dalle coste dell’attuale Tanzania verso l’interno del continente per prendere schiavi, zanne di elefanti e altre ricchezze naturali e umane.

Dopo la fine del regno pontificio in Italia nel 1870 con la presa di Porta Pia a Roma, i soldati del Papa, gli zuavi pontifici, erano disoccupati. I Padri Bianchi e missionari belgi di Scheut li assumono e arrivano in Africa orientale con la loro attrezzatura militare e munizioni. Qui insegnano agli africani a combattere e respingono gli schiavisti arabi dai regni di Ruanda e Burundi. Infatti anche oggi, in questi due paesi, come nel Congo orientale, l’islam quasi non esiste. Queste sono epopee della storia missionaria che andrebbero riscoperte e raccontate per far capire l’importanza che hanno avuto le missioni cattoliche in Africa.

Ma all’inizio del 1900 i cattolici in tutta l’Africa erano solo circa due milioni, in parte colonizzatori e mercanti europei. Il fatto miracoloso è che un secolo dopo, nel 2000, i cristiani in Africa erano circa 250 milioni e i cattolici circa 130 milioni: da due a 130 milioni in cento anni, con due guerre mondiali in mezzo! Se questo non è un miracolo dello Spirito Santo, ditemi voi come si può esprimere questo fatto del tutto straordinario. I sacerdoti africani, che nel 1900 erano una decina, nel 2000 circa 14.000. I primi due vescovi africani sono del 1939, oggi sono più di 400.

In nessun momento storico la Chiesa cattolica ha registrato un così rapido e travolgente aumento numerico e di maturazione ecclesiale, come nel continente africano dall’inizio del 1900 ad oggi. Non possiamo essere pessimisti sulle giovani Chiese africane, perché la storia dimostra che quando la Chiesa è fondata e radicata in un popolo, è difficile sradicarla. I cattolici vanno avanti anche se mancano i missionari stranieri, come si è visto in Cina e in Vietnam e come si è visto anche nell’Africa nera, nei numerosi paesi in cui la Chiesa è stata perseguitata.

Due rapide riflessioni sulla situazione attuale della Chiesa in Africa, che invitano all’ottimismo:

Primo. La Chiesa ha messo salde radici nell’Africa nera. Non solo numericamente, ma come strutture e soprattutto stima del popolo. Ho visitato abbastanza il continente africano (credo una trentina di paesi su 55) per poter dire che in tutti i paesi visitati, anche in quelli dove i cattolici sono piccola minoranza (esempio, il Mali e il Senegal), la Chiesa cattolica è stimata, apprezzata per le opere educative, sanitarie, caritative, ma anche per l’autorevolezza dei suoi vescovi, della sua conferenza episcopale. Il segno più evidente di questo sono i molti casi nei quali, a causa di guerre civili o tribali che distruggono le fragili strutture dello stato, la Chiesa cattolica è stata spesso obbligata a svolgere un’opera di supplenza: con distribuzione di aiuti, assistenza sanitaria, mediazione fra le parti in lotta.

Nel 2005 sono stato in Mali, invitato dai Padri Bianchi. Il padre Arvedo Godina, responsabile della formazione nazionale dei catechisti, mi diceva: “Dopo la rivoluzione del 1991, il governo ha dato 5 ettari di terreno alla Chiesa in un luogo centrale dove non c’erano ancora chiese cattoliche, per fabbricarvi la nuova cattedrale, che non è ancora nata per mancanza di soldi, come “ringraziamento alla Chiesa per la democratizzazione del paese”. Perché anche in quel paese, con solo il 2% di cattolici, i vescovi avevano avuto una grande importanza per la nascita della democrazia, che dura tuttora.

Ricordo in Ruanda, nel 1995, l’anno del genocidio che aveva portato centinaia di migliaia di ruandesi a fuggire nel vicino Congo, Con un missionario saveriano che era in Burundi, abbiamo attraversato il Ruanda in auto e ovunque ci dicevano che, nell’assenza quasi totale dello stato, la Chiesa cattolica era l’unica che aiutava la gente a sopravvivere e difendeva gli hutu in quel tempo perseguitati dai tutsi.

Nel vicino Burundi, un altro missionario di diceva: “Tu non sia quanti martiri abbiamo avuto in questi mesi di guerra civile. Non uccisi direttamente per la fede, ma per la carità, avendo dato ospitalità a membri dell’etnia perdente in casa loro. Venivano uccisi con i loro ospiti. Queste cose le sanno tutti e tutti le hanno viste e qui si capisce perché dal sangue dei martiri vengono nuovi cristiani!”.

Visitando paesi anche molto vasti come il Congo e l’Angola, il Sud Africa e la Namibia, la Tanzania e il Mozambico, mi ha sempre stupito il fatto che le strutture della Chiesa sono conosciute da tutti, parrocchie, case religiose, scuole, ospedali, cappelle, coprono sistematicamente quasi tutti i territori del paesi africani (eccetto quelli totalmente islamici), anche se l’annunzio cristiano non raggiunge ancora tutte le popolazioni.

Secondo. In tutta l’Africa i vescovi cattolici hanno acquistato una meritata fama di autorità morale e vengono chiamati a prestare la loro opera per riportare il paese alla pace. Anche se non sempre si raggiunge questa meta. Ricordo il caso del Congo ex-belga, paese in guerra civile praticamente dal luglio 1960 quando è giunto all’indipendenza.

Dopo essersi liberati dalla potenza coloniale, le popolazioni congolesi diverse per lingua, territori, culture e non preparate a governarsi da sole, sono precipitate in una interminabile guerra civile, che infatti dura tuttora. Diversi volte le varie etnie e parti politiche hanno chiamato un vescovo autorevole a capo di una commissione di pacificazione. E il dittatore Mobutu, dopo aver eliminato in vari modi le figure politiche autorevoli che potevano dargli fastidio, mandò in esilio l’arcivescovo della capitale Kinshasa, card. Malula, l’unica figura emergente nel paese che denunziava i crimini e la corruzione della dittatura.

D’altra parte in Sud Africa appena finito il sistema di apartheid i capi neri africani misero a capo del Comitato nazionale di Pacificazione l’arcivescovo anglicano di Johannesburg e Premio Nobel per la pace, mons. Desmond Tutu.

Nel 2005 sono stato in Mali, paese giunto alla democrazia da una quindicina d’anni, quasi totalmente musulmano, dove i cattolici sono il 2%, ma la Chiesa ha la grande stima del popolo e delle autorità, una Chiesa che si sta sviluppando molto bene. Un Padre Bianco, Arvedo Godina, mi diceva: “Quando sono arrivato nel 1968 avevamo sette preti maliani e un solo vescovo, mons. Sangaré, di origine maliana. Oggi 120 preti maliani e tutti i sei vescovi sono maliani. La Chiesa fa sentire la sua voce con autorità in tutti i settori della vita pubblica. Quando è morto mons. Sangaré, l’11 febbraio 1998, il governo ha fatto i funerali nazionali nello stadio della capitale Bamako, con tutti i vescovi cattolici che concelebravano. Lo stadio era strapieno di maliani, forse nemmeno un terzo di essi cattolici”.

II – I missionari stranieri ancora indispensabili in Africa

La domanda che molti missionari in Africa si fanno è questa: le giovani Chiese africane, piene di fervore e di entusiasmo nella fede, ben radicate sul territorio e stimate dalla gente, bastano ormai a se stess? Sono autosufficienti nel loro cammino di maturazione della fede cristiana e nella missione di evangelizzare tutti i popoli africani?

La risposta è chiaramente NO, non sono autosufficienti, hanno ancora bisogno di aiuti esterni.

Visitando l’Africa ho sempre posto a vescovi e preti locali e ai missionari stranieri questa stessa domanda, ottenendo quasi sempre la risposta negativa, che occorre spiegare.

Nel dicembre 2007, ll decano dei missionari del Pime in Camerun, padre Carlo Scapin, mi ha risposto: “Penso che stiamo vivendo un momento di grazia per l’Africa e in particolare per il Camerun. Dobbiamo sostenere la Chiesa locale con la stima per ciò che fanno e l’incoraggiamento con la presenza, la preghiera e l’aiuto: si sa, quando si cresce c’è sempre un po’ di confusione, che bisogna mettere nel conto. Ma lo Spirito Santo qui sta suscitando una nuova Chiesa e noi, Chiesa italiana, non possiamo aver mandato tanti missionari e aiuti per fondarla e poi abbandonarla proprio adesso!”.

Ecco i tre motivi per cui le Chiese africane vanno aiutate:

1) Scarsezza di clero e spirito missionario. La Chiesa nasce dall’Eucarestia, senza vescovo e sacerdote non c’è la Chiesa. Nell’Africa nera escluso cioè il Nord Africa islamico (dalla Mauritania fino alla Somalia), le conversioni dal paganesimo e anche dal protestantesimo, sono abbastanza numerose e ovunque dicono che se ci fossero più sacerdoti suore, catechisti e mezzi economici molti popoli vorrebbero venire a Cristo, ma non riusciamo ad avvicinarli formarli, battezzarli e sostenerli spiritualmente.

Vedete, l’islam si diffonde in Africa in modo molto semplice e anche facile. Basta fare una dichiarazione di fede in Allah e io Corano davanti a due testimoni e prendere un nome musulmano e si entra nella “umma”, la comunità islamica. Nella quale è facilissimo entrare ma questi impossibile uscire.

In Tanzania mi dicevano i missionari della Consolata: “Nel sud della Tanzania dove noi lavoriamo (diocesi di Iringa e Njombe) vent’anni fa praticamente i musulmani non esistevano. Oggi son già circa il 4-5% e aumentano rapidamente perché vengono dal nord i commercianti musulmani con molti soldi (finanziati dai paesi del petrolio!), comperano terre, case, ristoranti, società di trasporti, aprono negozi, assumono personale locale e i oro dipendenti sono obbligati a convertirsi all’islam; poi sposano tre-quattro ragazze locali e i loro figli sono tutti musulmani,; infine, in qualsiasi villaggio costruiscono una piccola o grande moschea, anche se i musulmani sono solo poche famiglie. In pochi anni una regione incomincia ad essere islamizzata e se vanno avanti così cinquant’anni non ci saranno più pagani, ma solo musulmani e cristiani”.

In tutta l’Africa era i cattolici sono circa 130 milioni, ma i preti africani solo 13.000, un prete ogni 10.000 battezzati e molti catecumeni.

Ricordo un prete mozambicano che avevo conosciuto a Roma, don Gabriel, mentre studiava e poi l’ho incontrato nella diocesi di Nampula che ho visitato con i Comboniani. Mi diceva: “La mia parrocchia è estesa come una provincia media italiana, ho 5.000 battezzati e trecento catecumeni, con una ventina di villaggi cattolici e altri che chiedono di andare da loro per conoscere il cristianesimo”.

Aveva una cinquantina d’anni e aggiungeva: ”Non ce la faccio più a visitare tutti questi villaggi, anche per le distanze e le strade infami. Purtroppo nella nostra regione abbiamo sperimentato che quanti vogliono conoscere convertirsi a Cristo, se non si prendono subito, rischiano di passare all’islam che qui, nel nord del Moazambico, è già maggioritario. Il vescovo non mi manda un prete coadiutore perché non li ha…”.

In Camerun, l’ultimo paese africano che ho visitato (2007), la Chiesa cattolica si può dire stabilmente fondata nelle sue strutture e nel suo personale religioso, almeno come numero, 18 diocesi e solo tre con un vescovo straniero. Inoltre, la parte più evoluta della popolazione, quella che ha in mano le leve del potere politico ed economico e, grazie alle scuole delle missioni cristiane, è cristiana, in maggioranza formata da cattolici. Questi dati, letti sulla carta, possono far pensare che questa giovane Chiesa, che ha più o meno un secolo di vita e due guerre mondiali in mezzo, può andare avanti da sola.

Non è così. Primo. In paese per più di metà ancora non cristiano, la Chiesa locale è poco missionaria. Padre Malvestìo dice: “Ci sono buoni preti africani. Dal 2000, quando sono venuto in seminario, sono stati ordinati circa 60-70 nuovi preti. Vado a visitarli nelle loro parrocchie e vedo che non pochi vivono da soli, senza cuoco, senza soldi, senza luce elettrica e sono fedeli alla loro vocazione, la gente li stima, e vedo che la Provvidenza li aiuta. Fanno una vita povera, non costruiscono certo quel che ha costruito il missionario straniero prima di loro, ma quel che importa è che quel prete, anzi quei preti che rimangono fedeli, diventano veramente i costruttori di una Chiesa africana”.

Però uno dei compiti principali dei missionari stranieri è di sostenere e aiutare i sacerdoti locali, creando la tradizione di vivere in comunità, come appunto fanno i missionari. I vescovi dovrebbero visitare e tenere uniti i loro preti, ma spesso non ce la fanno anche perchè le diocesi sono in genere molto vaste. In Italia abbiamo 230 diocesi, in Camerun solo 15, con un territorio molto più esteso di quello italiano! Per un vescovo fare 100 chilometri in auto per visitare un prete è un’impresa non facile, non ci sono le strade italiane. Posso dire che da Garoua a Maroua, sulla strada nazionale più importante del paese, per fare in auto 230 chilometri ci si mette 5-6 ore, se va bene, su altre strade i viaggi sono ancora più lunghi e difficili.

Padre Malvestìo mi dice: “Noi missionari siamo ancora necessari perchè, con umiltà e senza apparire, senza voler imporre nulla, facciamo un cammino con i preti locali, fraternizziamo, creiamo amicizia, in modo da crescere insieme. Per me l’importanza fondamentale dei missionari, che rimangono qui una vita e sono ben conosciuti e amati, è proprio questa, di essere utili ai preti locali: ripeto, umilmente e senza apparire, ma di sentirsi proprio al loro servizio, visitarli, parlare con loro, assisterli, aiutarli. L’esempio del missionario è utile ai preti per non chiudersi nel recinto del loro gregge, ma aprirli alle popolazioni della loro stessa parrocchia che ancora non hanno ricevuto il messaggio cristiano; e staccarli a poco a poco da una cultura che frena, che immobilizza, e consacrarsi totalmente a Cristo. Ci sono buoni preti africani in questo senso, che commuovono per la loro fedeltà e costanza”.

Occorre creare nel giovane clero una mentalità missionaria. Quando il Pime fond una missione o parrocchia, nel contratto che l’Istituto firma con i vescovi locali, per passare la missione fondata e funzionante ad un sacerdote locale, c’è la clausola che il giovane sacerdote indigeno passi almeno un anno come vice-parroco con il missionario che ha esperienza di quel posto.

Fondata la Chiesa locale, occorre darle uno spirito missionario, proiettandola verso i lontani, i non cristiani, mentre la tendenza del prete che è arrivato a dirigere una parrocchia è di chiudersi nella cura delle poche o tante pecorelle del suo gregge. Se il prete ha spirito missionario, anche i cristiani lo sono e la Chiesa si diffonde. Altrimenti diventa un circolo chiuso, una casta. Inoltre occorre dotarla di mezzi e strumenti di apostolato, che non è facile preparare. Ad esempio nel Nord Camerun quattro missionari del Pime, oltre al lavoro pastorale, sono impegnati a preparare dizionari, grammatiche e testi lirurgici e biblici in lingue locali molto diffuse; tupurì, giziga e fulfuldé. Opera che, è facile capirlo, richiede una specifica preparazione in campo biblico e linguistico! E, oltre al resto, anche notevoli aiuti finanziari per sostenere le spese di preparazione, con consulenti di lingue locali, e di stampa. A Yaoundé, due missionari sono impegnati nel Centro Edimar, sorto per educare i ragazzi di strada e intr$odurli in una vita normale di lavoro e di famiglia. Il Centro, intitolato alla principessa Grace di Monaco (il Principato di Monaco ha pagato le spese di costruzione), è pubblicamente lodato dalle autorità civili e dall’arcivescovo.

2) Non solo mancano i preti, ma la Chiesa locale deve rimanere unita a Roma e alla Chiesa universale. Se non è aiutata, ha tendenza a chiudersi in se stessa, non ha più la carica missionaria di andare ai non cristiani, può diventare una specie di Chiesa nazionale autonoma. Le Chiese nazionali non hanno mai funzionato.

Un confratello del Pime in Camerun, padre Alberto Sambusiti, mi raccontava che all’inizio degli anni novanta, l’arcivescovo di Yaoundé, mons. Zoa, in un incontro col suo clero diocesano, presenti anche alcuni missionari del Pime, a un giovane prete locale che diceva: “Perchè lei vuole altri missionari stranieri in Camerun, quando abbiamo numerose vocazioni e potremmo bastare a noi stessi?”, rispondeva:

“Hai ragione, il Signore ci benedice con parecchie vocazioni al sacerdozio, ma sono convinto che, se tutti i missionari tornassero nei loro paesi d’origine, la nostra Chiesa si isolerebbe e in capo a venti o trent’anni torneremmo a fare sacrifici agli spiriti davanti all’albero sacro del villaggio”.

Nel dicembre 2007 ho passato tre settimane in Camerun (con un’appendice in Ciad). Visitando le varie missioni, in città e campagne, ho chiesto ai missionari se è vero, secondo la loro esperienza, quel che si pensa e si dice in Italia che la missione alle genti ormai è finita, perché le giovani Chiese hanno già clero e religiose a sufficienza.

Padre Giovanni Malvestìo, rettore del seminario maggiore di Maroua, per le quattro diocesi del Nord Camerun, esprime il pensiero comune e mi dice: “Potrebbero forse essere autosufficienti, qui ci sono la Bibbia e il Vangelo, la Chiesa e i Sacramenti, un certo numero di vocazioni sacerdotali e religiose, molte buone e fervorose comunità cristiane. Però manca la Tradizione di duemila anni di cristianesimo e questo vuol dire molto, moltissimo. Se rimangono soli si isolano”.

Un missionario dehoniano a Quelimane in Mozambico mi diceva: “Loro hanno l’entusiasmo della fede e insegnano a noi molte cose, fra le quali proprio la forza della fede, ma noi abbiamo duemila anni di storia cristiana alle spalle e questo conta qualcosa, anche sul piano della fede e del superamento di tutti i tribalismi”.

I missionari stranieri aiutano la Chiesa ad essere cattolica, universale, a superare la cultura tradizionale, locale, tribale, per acquisire juna mentalità universale, cattolica.

La Chiesa africana, com’è giusto e logico, sta crescendo con una mentalità africana, in un ambiente africano profondamente segnato dal tribalismo, dall’animismo, cioè la religione tradizionale che è animista, fatalista, superstiziosa, magica. Ma passare da una cultura tradizionale a una cultura purificata dal Vangelo non è un fatto automatico.

3) – Terzo motivo per aiutare le Chiese africane: quello economico.

Il Camerun è ritenuto oggi uno dei più evoluti paesi dell’Africa nera. Esteso una volta e mezzo l’Italia, con 16 milioni di abitanti, politicamente stabile, con una forma passabile di democrazia, libertà di stampa e di associazione e un certo sviluppo economico che manca in quasi tutto il resto dell’Africa a sud del Sahara. Basti dire che ha un reddito medio pro capite annuale di circa 800 dollari, mentre nel resto del continente è dai 100 ai 300 dollari. Religiosamente si può definire un paese cristianizzato, specialmente al Sud che è la parte più abitata e importante, dov’è la capitale Yaoundé. I cattolici sono il 40%, i musulmani il 18% (al nord), i protestanti il 15%, gli altri appartengono alla religione tradizionale africana, animismo, cioè il culto degli spiriti.

Infine, c’è anche un problema di aiuti economici. Le Chiese africane, in genere, ricevono poche offerte dalla loro gente, troppo povera. I parroci del Camerun, non potrebbero vivere e far funzionare le molte opere di evangelizzazione e di promozione umana che ha ogni parrocchia. Un prete africano di Yaoundé mi diceva: “Fra i miei cristiani si sta creando la mentalità di aiutare economicamente la parrocchia, ma siamo ancora agli inizi e la povertà è molto diffusa. Io sono parroco in città di sei mila cattolici e poi ho cinque cappelle nell’interno, distanti decine di chilometri, che devo visitare perché ciascuna di esse ha dai 300 ai mille cattolici. L’auto mi è assolutamente indispensabile, ma quanto i danno mi miei cristiani basta sì e no a mantenere questo strumento di lavoro. E tutto il resto, i catechisti, la costruzione di cappelle, le opere di caritative, le scuole, i dispensari medici e le altre spese compreso il mantenimento del sacerdote? Se non ci fossero aiuti dall’esterno non si potrebbero mantenere parrocchie come la mia”.

III) Le Chiese africane sono la speranza della Chiesa universale

Oggi, il continente che a breve scadenza offre maggiori possibilità di evangelizzazione è senza dubbio l’Africa nera, poichè gli africani stanno ancora cercando la loro via, stanno costruendo faticosamente il loro futuro, sia in senso politico che economico, ma anche culturale e religioso. I popoli africani sono profondamente religiosi, ma sperimentano concretamente che nel mondo moderno la loro religione tradizionale, l’animismo, non ha futuro. Si trovano davanti a una scelta precisa: islam o cristianesimo, due religioni del libro molto diffuse, con una tradizione, una preghiera, una spiritualità. L’alternativa alla scelta di una religione è la non religione, l’ateismo pratico che, come sperimentiamo in Europa, porta inevitabilmente al nichilismo all’autodistruzione.


Il 26 ottobre 2008 il Papa annunziava il suo viaggio in Africa: «Nel marzo prossimo in Camerun per consegnare ai rappresentanti delle Conferenze episcopali dell’Africa l’Instrumentum Laboris» della seconda Assemblea speciale del Sinodo per l’Africa.

Il primo Sinodo africano si è svolto a Roma nella primavera 1994. Certamente i due Sinodi sono gli avvenimenti più importanti e significativi nella vita della Chiesa africana. Un secolo fa, all’inizio del 1900, l’intera Africa contava due milioni di cattolici, in parte colonizzatori e funzionari delle colonie, e i cristiani non raggiungevano i dieci milioni. Oggi i cristiani in Africa sono circa 250 milioni, dei quali 120-130 milioni di cattolici. E questi cristiani sono nella cosiddetta Africa nera.

L’ho già detto e lo ripeto, nella millenaria storia del cristianesimo, mai si è registrata una così rapida e profonda penetrazione del cristianesimo in un continente. Le Chiese africane sono chiamate ad un secondo incontro e confronto continentale, per discutere la situazione attuale del continente e decidere le vie prioritarie da seguire.

Com’è noto, i problemi dell’Africa sono numerosi e gravi: sottosviluppo economico, miseria e fame, malattie ed epidemie, instabilità dei governi, guerre e colpi di stato, corruzione delle classi dirigenti, mancanza del senso dello stato e del bene pubblico, violenze contro l’uomo e non rispetto dei diritti dell’uomo e della donna, difesa delle ricchezze naturali e umane dell’Africa dai tentativi di colonizzare, oggi portati avanti soprattutto da Cina e India, che sono i nuovi colonizzatori delle terre e dei popoli africani.

Oggi l’Africa merita ogni attenzione e solidarietà dal mondo occidentale e cristiano, soprattutto da noi credenti in Cristo. Purtroppo, la nostra crisi di fede e di vita cristiana porta a sottovalutare l’Africa, quasi a dimenticarla. Mi pare di vedere parecchi segni in questo senso: i missionari e le missionarie italiani in Africa diminuiscono, mentre i vescovi locali e chiedono altri. E diminuiscono anche gli aiuti economici e i volontari laici che vanno in Africa con le missioni.

Concludo la mia rapida panoramica con un messaggio di speranza e di visione profetica del futuro. Dobbiamo aiutare l’Africa non solo perché sono nostri fratelli che hanno bisogno di aiuto, ma perché sono convinto che la missione universale rinnova la Chiesa e anche la nostra Chiesa italiana, le nostre parrocchie, istituti religiosi e associazioni laiche ecclesiali.

Lo dico per esperienza concreta e personale. Ogni anno, fin che Dio vorrà, vorrei fare almeno un viaggio di visita alle missioni e alle giovani Chiese. Nella mia vita ho fatto tanti viaggi nelle missioni e negli ultimi anni sono stato in India, Guinea-Bissau-Mali-Senegal, Libia e quest’anno in Bangladesh. L’anno venturo, se Dio vuole, vorrei andare in Algeria dove il Pime ha iniziato una presenza a Touggourt, la parrocchia pù grande del mondo, quella del deserto del Sahara. Vado dove mi chiamano i missionari e proprio per vedere da vicino la vita delle Chiese e dei cristiani locali.

Ebbene, per me ogni visita alle missioni è un rinnovamento spirituale. Visitando, intervistando, vivendo per qualche tempo in quei mondi così diversi dal nostro e fra quei giovani cristiani ancora poco istruiti nella fede, ma già pieni di buona volontà ed entusiasmo, dico a me stesso: “Piero, tu stai vivendo gli Atti degli Apostoli, perché qui nasce la Chiesa con la semplicità e l’autenticità della fede che avevano le prima comunità cristiane. Da noi in Italia, la fede e la vita cristiane sono spesso diventate un’abitudine, una tradizione, non comprendiamo più il dono che Dio ci ha fatto dandoci la fede che trasforma la vita, che riscalda, illumina, sostiene, consola l’esistenza. I giovani cristiani sono entusiasti perché vedono toccano con mano l’abisso che c’è fra la loro antica religione e il cristianesimo.

Per vincere le nostre crisi dobbiamo ritornare non solo a leggere e meditare il Vangelo e gli Atti degli Apostoli, ma ritrovare lo spirito di entusiasmo e di disponibilità al sacrificio che hanno le giovani comunità cristiane.

Non abbiamo ancora capito la forza rivoluzionaria di quanto afferma Giovanni Paolo II nella “Redemptoris Missio” (n. 2): ”La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell’impegno per la missione universale”.

La soluzione alla nostra crisi di fede è la missione a tutti i popoli. Io non so come, concretamente, si potrebbe ridare entusiasmo nella fede ai nostri fedeli di antica cristianità. Certamente la fede in Cristo deve diventare passione della nostra vita di preti e di “operatori pastorali”, l’unica passione. E poi bisogna fidarsi di più dello Spirito Santo, “protagonista della missione”. Ma l’organizzazione concreta, quotidiana della vita parrocchiale sfugge alla mia competenza. Comunque mi rendo conto che se le nostre Chiese locali non diventano missionarie sul serio, qui in Italia e fra i non cristiani, continueranno nella deriva della decadenza attuale.

Padre Gheddo a Radio Maria (2009)

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