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Cari amici di Radio Maria, domenica 27aprile Papa Francesco ha proclamato Santi due Papi che l’hanno preceduto alla guida della Chiesa universale, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. A Roma è stata una giornata eccezionale per la folla davvero oceanica che ha invaso Piazza san Pietro, via della Conciliazione e si è stipata in tutte le vie laterali, quasi fino al Tevere e a Castel Sant’Angelo. Più d’un milione di fedeli da cento e più paesi, per assistere alla santificazione di due grandi Papi ed essere i primi a venerarli e pregarli. In questi giorni si è scritto e parlato molto di Papa Roncalli e Papa Wojtyla, i missionari che vivono in paesi non cristiani scrivono che mai i giornali e le televisioni locali avevano destinato tanto spazio ai due massimi rappresentanti della Chiesa cattolica, già conosciuti in ogni parte del mondo.

     Voi sapete che io sono un missionario e la mia rubrica a Radio Maria è intitolata “La Missione continua”. Ebbene, questa sera voglio parlarvi di una caratteristica comune a questi due Santi Pontefici, che è rimasta un po’ in ombra nelle celebrazioni della loro vita e santità: erano due vicari di Cristo, innamorati della missione alle genti, che hanno fatto introdotto le missioni tradizionali, di impiantazione dalla Chiesa in tutti i paesi e le culture, nel mondo moderno della globalizzazione, quando la missione della Chiesa diventa sempre più una missione universale, che coinvolge tutte le Chiese locali e tutti i battezzati in Cristo.

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     La mia catechesi si svolge in tre punti:

     1) Il Vaticano II ha riformato la tradizione missionaria

     2) Giovanni Paolo II ha reso la Chiesa tutta missionaria

     3) La Redemptoris missio aggiorna l’Ad Gentes 25 anni dopo  

I)                  Il Vaticano II ha riformato la missione ai non cristiani

     Angelo Roncalli di Sotto il Monte (1881-1963) aveva un cuore e una formazione davvero missionari. Col Concilio Vaticano II Giovanni XXIII ha reso la Chiesa tutta missionaria. Veniva da una diocesi, quella di Bergamo, che ancor oggi dà un gran numero di vocazioni missionarie alla Chiesa cattolica. Ricordo un episodio della vita di Papa Giovanni perché ero presente da giovane sacerdote.

     Il 18 marzo 1963, tre mesi prima di morire (3 giugno 1963), donò la sua casa natale al Pime e volle benedire, in Vaticano, la prima pietra del seminario che è stato poi costruito accanto alla casa natale, oggi conservata come era in passato e meta di tanti pellegrinaggi. Una cerimonia intima fra il Papa e una ventina di missionari del Pime. Papa Roncalli disse: “Se fate in fretta a costruire, vengo io a inaugurare il seminario”. E poi aggiunse che nel seminario di Bergamo si leggevano le riviste missionarie, diversi bergamaschi erano entrati nel Pime e venivano a parlarci delle missioni. Io stesso – aggiungeva – ero innamorato delle missioni e ho chiesto al mio vescovo – Giacomo Radini-Tedeschi – di poter entrare nel vostro istituto. Lui mi rispose di continuare gli studi teologici in seminario per essere ordinato sacerdote diocesano, poi potevo andare con i missionari. Però, quando mi ordinò sacerdote, mi nominò suo segretario particolare e ho seguito la santa obbedienza della volontà di Dio”. Nel 1921, mons. Roncalli venne chiamato a Roma da Benedetto XV e nominato Direttore dell’Opera della Propagazione della Fede; fino al 1925 riorganizzò i segretariati diocesani per le missioni e fondò la rivista “La propagazione della Fede nel mondo” che in breve raggiunse le 150.000 copie mensili. Gli anni venti e trenta del Novecento, dopo l’enciclica missionaria di Benedetto XV “Maximum Illud” (1919), erano il tempo in cui l’Occidente cristiano si infiammava di amore alle missioni e mons. Roncalli contribuì molto a potenziare le strutture e lo spirito di quella che a quel tempo era la “propaganda missionaria”, diffondendo l’Unione missionaria del Clero (fondata dal Beato padre Paolo Manna nel 1916 al Pime di Milano), alla quale, da semplice sacerdote, era stato fra i primi dieci preti ad iscriversi.

     Un altro grande segno di amore alle missioni, Papa Roncalli lo diede quando era cardinale patriarca di Venezia, il 3 marzo 1958, sei mesi prima di essere eletto successore di Pio XII, quando portò a Milano le spoglie del fondatore del Pime, il servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti (1800-1861), che era morto da Patriarca di Venezia. Il 3 marzo 1958. In quell’occasione, il card. Roncalli pronunziò un importante discorso missionario, ricordando i precedenti della sua vita che spiegavano il suo amore per le missioni e i missionari.

      Le Chiese locali responsabili delle missioni      

      Nella storia delle missioni moderne, Giovanni XXIII rappresenta il passaggio dalle missioni, concepite come appendice della Chiesa e opera dei missionari, che partivano dall’Occidente per annunziare Cristo e fondare la Chiesa, all’impegno missionario dei giovani cristiani verso i loro stessi compatrioti.

     Nell’omelia della sua incoronazione a Pontefice romano ( 4 novembre 1958), Papa Roncalli affermava che la qualità più importante del Papa è lo zelo apostolico verso le pecorelle che non sono nell’ovile di Cristo. E aggiungeva: “Ecco il problema missionario in tutta la sua vastità e bellezza. Questa è la sollecitudine del Pontificato romano, la prima, anche se non la sola”. Molti i testi di questo genere all’inizio del suo pontificato. Infatti, una delle sue prime encicliche è la “Princeps Pastorum” (28 novembre 1959), pubblicata un anno dopo essere stato eletto Papa e nel 40° anniversario della “Maximum Illud” (1919).

     Questo testo molto importante è il primo dedicato quasi esclusivamente al clero e ai laici locali delle missioni. Gli aiuti e i missionari occidentali erano ancora indispensabili, ma il Papa poneva l’accento sulla vitalità la responsabilità delle giovani Chiese, per dare nuovo vigore al primo annunzio di Cristo in popoli e culture vergini. Già Pio XII con la “Evangelii Nuntiandi” (1957) aveva parlato del “laicato missionario”, ma si riferiva ai volontari laici venuti dall’Occidente per aiutare i missionari. Invece, solo due anni dopo, Giovanni XXIII tratta della formazione spirituale e missionaria, prima del clero e poi, soprattutto del laicato locale. Afferma che la formazione dei battezzati deve rispondere “alle esigenze dell’epoca e metterli in grado di accettare la responsabilità che dovranno affrontare per il bene e lo sviluppo della Chiesa locale”. In altre parole, Giovanni XXIII, dopo aver descritto lo sviluppo storico positivo della missione alle genti, afferma che le giovani Chiese locali sono ormai mature per assumere in pieno l’opera missionaria verso il loro stesso popolo: il primo annunzio di Cristo e le opere di carità, educazione, cultura e le varie attività di evangelizzazione e formazione cristiana.

     La “Princeps Pastorum” è un’enciclica profetica. Le precedenti encicliche missionarie erano appelli dei Papi al mondo cattolico a favore del mondo non cristiano: missionari e suore, laicato cattolico internazionale, preghiere, aiuti alle missioni, invio di preti “fidei donum” e gemellaggi delle diocesi cattolico con quelle delle missioni. Papa Giovanni, pur non tacendo questo aspetto, si sviluppa in una linea diversa. Partendo dai risultati già raggiunti, rivolge la sua attenzione ai giovani cristiani, rendendoli protagonisti della missione alle genti nei loro paesi. Passaggio fondamentale, perché ha dato importanza massima ai catechisti, all’Azione cattolica e altre associazioni di formazione laicale (come la ”Legione di Maria” allora molto attiva nelle missioni).

      Il Vaticano II ha riformato la Chiesa per la missione

      La novità fondamentale del Papa di Sotto il Monte, per l’evangelizzazione di tutti i popoli e tutti gli uomini, è stata la convocazione del Concilio Ecumenico Vaticano II il 15 gennaio 1959, tre mesi dopo essere diventato Pontefice della Chiesa universale. Convocando il Concilio, Giovanni XXIII proponeva allo stesso tre fini:

1)    il rinnovamento interno della Chiesa (“aggiornamento”),

2)    la riunione di tutti i cristiani per mezzo dello Spirito Santo e di iniziative ecumeniche,

3)    La manifestazione al mondo non cristiano di una Chiesa credibile che annunzia la “Buona Notizia” del Vangelo di Gesù Cristo, Salvatore di tutti gli uomini.

     Visto a distanza di 50 anni, il Concilio è stata un’impresa di dimensioni colossali per la piccola Santa Sede di quel tempo, nel senso della scarsa disponibilità di finanze di personale e di spazi disponibili. Per tre mesi all’anno, per quattro anni consecutivi (1962-1965), venivano a Roma 2.500 Padri conciliari e circa 500 osservatori, collaboratori, invitati, periti conciliari; tutta gente da ospitare dignitosamente e mantenere, poiché anche le spese dei viaggi aerei inter-continentali erano a carico della Santa Sede. Solo le Chiese più ricche d’Europa e del Nord America coprivano le loro spese. Infatti, nell’estate 1963, tra la II e la III sessione conciliare, Paolo VI aveva deciso che il Concilio finisse con la III sessione, poiché i debiti dello Ior (la banca del Vaticano) davano le vertigini. Molti vescovi hanno protestato e il Concilio ha potuto proseguire, per l’intervento decisivo dei vescovi nord-americani, fino alla IV ed ultima sessione, cioè fino al 7 dicembre 1965.

     Ho partecipato al Concilio come giornalista dell’Osservatore Romano e “perito” per le missioni, nominato da Giovanni XXIII nel settembre 1965, quindi ho partecipato agli incontri della Commissione che scriveva e riscriveva l’Ad Gentes”, che è stato riscritto sette volte e poi approvato nell’ultima assemblea conciliare (7 dicembre 1965) quasi all’unanimità, con soli 5 contrari (su 2.394 votanti!).

   Nel volume “Missione senza se e senza ma” (Emi 2013, pagg. 255) spiego bene le difficoltà incontrate dall’Ad Gentes, dovute alla diversa visione che avevano della missione ai non cristiani i vescovi che venivano dalle missioni e dall’America Latina (circa 800) e gli altri; non c’è stato il tempo necessario per maturare bene l’Ad Gentes (considerato fra i documenti secondari del Concilio), che è un buon Decreto, ma incompleto e questo spiega bene perché Giovanni Paolo II, nel XXV° anniversario dell’Ad Gentes (1990), ha voluto pubblicare l’enciclica “Redemptoris Missio”, appunto per “aggiornare” e “contestualizzare” l’Ad Gentes ai tempi nuovi del mondo non cristiano. Lo vedremo nella III parte di questa catechesi.

      Il Vaticano II ha suscitato entusiasmo e tante speranze

      Il Concilio è stato una meravigliosa esperienza di fede e di missione universale della Chiesa, aveva suscitato grandi speranze in tutti i credenti, ma specialmente nel mondo missionario. Per me, che ho vissuto il Concilio dal di dentro con fede e passione, vivendo nella casa del Pime a Roma con i nostri 14 vescovi missionari dell’Istituto, il Concilio ha portato una carica supplementare di entusiasmo per la missione alle genti. Mi pareva quasi che il mondo intero fosse pronto a ricevere l’annunzio di Gesù Cristo e mi veniva spesso in mente lo slogan, che indicava una meta, col quale all’inizio del Novecento si era concluso il primo Congresso mondiale delle Chiese e società missionarie protestanti: “Convertire il mondo a Cristo entro il 2000”. Allora mancava un secolo, al Concilio Vaticano II mancavano 40 anni, ma a me la meta pareva plausibile, dato il volto trasparente della Chiesa cattolica.

     Questo entusiasmo era giustificato. Il Concilio aveva riformato profondamente la Chiesa e la missione. Chi non ha vissuto nella Chiesa prima del Concilio non riesce a capire questo cambiamento. Sono stato ordinato sacerdote nel1953 e nel 1962 avevo nove anni di sacerdozio molto attivo e a contatto con tanti ambienti laici (soprattutto quelli del giornalismo, delle case editrici e delle radio), vissuti in un Istituto missionario, dove c’era una certa aria di rinnovamento. Ma la Chiesa e la vita cristiana erano bloccate in uno spirito di chiusura verso l’esterno, di schematismo e di giuridismo, di autosufficienza, che, se li ricordo oggi, mi fanno tenerezza. Si pensava che noi possediamo la verità, tutta la verità, la nostra vita è regolata dalle leggi e dai precetti evangelici, dalle regole e dai canoni del Diritto canonico, dalle preghiere e dal servizio al Vangelo. Poi, certo, dovevamo convertirci, quando sbagliavo mi confessavo, chiedevo perdono, cercavo di migliorare, praticavo rinunzie e penitenze. Ma insomma la fede e la coscienza della propria autosufficienza nell’ovile di Cristo era fortissima.

     Il Concilio ci ha portati, specialmente noi giovani preti, ad una visione diversa, che ci apriva orizzonti nuovi, prospettive rivoluzionarie, ci faceva capire quanto eravamo ancora lontani dal Vangelo e dal modello di Gesù Cristo. E questo, se ben inteso, con spirito di fede e di umiltà, esaltava lo spirito missionario e dava appunto una carica nuova di entusiasmo al nostro sacerdozio.

     Alcuni esempi che sono stati provvidenziali, nel senso che mi hanno cambiato nel profondo, avvicinando la missione alle genti al modello di Gesù, primo pastore e èrmo missionario:

     1) La Nostra Aetate, dichiarazione sulle religioni non cristiane: prima si diceva che erano nemiche di Cristo, il Concilio diceva che sono una preparazione a Cristo.

     2) Il Decreto Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa: la missione è una proposta che lascia libero il non cristiano o non credente di accettarla o rifiutarla. Protagonista della missione è lo Spirito Santo, non spetta a noi “convertire le anime”, ma allo Spirito. Una grande scoperta!

     4) La Costituzione Sacrosantum Concilium sulla Liturgia, che spalancava porte e finestre ad altri riti e forme di preghiera, valorizzando vari modi di altre religioni e introduceva le lingue locali nella S. Messa e nella liturgia.

     5) La Gaudium et Spes sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, che esaltava la povertà c il coinvolgimento della Chiesa e degli uomini di Chiesa nelle vicende del mondo, degli uomini, delle famiglie, valorizzando quanto di buono si trova nelle varie culture e costumi umani.

     6) La Costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa, che decretava il passaggio dal Papa monarca assoluto al vertice della piramide ecclesiale, al Papa come centro attorno a cui convergono tutti i battezzati, vescovi, preti, diaconi, laici, con strumenti di consultazione e di scambi di esperienze. La prima enciclica di Paolo VI, Ecclesiae Sanctae (1964), era dedicata al dialogo con i non credenti, i non praticanti, i non cristiani.

     7) Il Decreto Inter mirifica (sui mezzi di comunicazione sociale), dove la Chiesa riconosceva in giornali, radio e Tv strumenti preziosi per trasmettere l’annunzio di Cristo. Per me, ormai immerso in questo settore, è stato davvero rivoluzionario (prima era più comune condannare che apprezzare) e mi ha convinto della bontà di quanto mi chiedevano i superiori del Pime, quando chiedevo di partire per l’ India dove ero stato destinato: “La tua missione è questa”.

     8) E poi, naturalmente, il Decreto Ad Gentes, che presentava un’altra immagine delle missioni ai non cristiani, dal missionario fondatore e protagonista al missionario a servizio delle giovani Chiese e tanti altri aspetti.

      Un giovane, o una persona sotto i 65-70 anni, che oggi legge questi testi, non trova nulla di originale, sono cose che più o meno tutti sanno. Ma noi giovani preti durante il Concilio, e io che vedevo nascere, discutere e approvare queste idee e modi nuovi di essere Chiesa e missione, tutto questo era fonte di gioia e di un continuo rendimento di grazie al Signore, che mi aveva concesso di partecipare all’epoca nuova della missione, con grandi orizzonti e speranze per noi missionari. La storia poi è andata in altro senso, ma i Papi, ancor oggi con Papa Francesco, continuano a ripetere: ritorniamo al Vangelo e al Concilio, per vivere gli orientamenti e le norme del Vaticano II, che non sono ancora diventati vita di tutti noi e della Chiesa.

             Giovanni Paolo II ha reso la Chiesa tutta missionaria

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  Il Concilio Vaticano II è terminato suscitando grandi speranze e prospettive per la missione alle genti. Questo era lo scopo primo del Concilio, secondo Giovanni XXIII e Paolo VI: purificare, riformare, ”aggiornare” la Chiesa (come diceva il Papa di Sotto il Monte), per renderla trasparente e credibile e poter così testimoniare e annunziare Cristo a tutti i popoli. La missione era l’orizzonte universale di tutti i battezzati e coinvolgeva diocesi e parrocchie. Giovanni XXIII aveva previsto quando diceva: “Il Concilio sarà una nuova Pentecoste della Chiesa” e molte pecorelle nell’ovile di Cristo sognavano. Noi missionari eravamo convinti che la nostra vocazione era quanto mai attuale ed esemplare per tutta la Chiesa.

     Invece, è successo tutto il contrario. I testi conciliari son ottimi per promuovere lo spirito missionario, ma non hanno dato quella spinta verso il primo annunzio di Cristo ai tre quarti dell’umanità, che anche Paolo VI aveva previsto nel suo viaggio a Bombay (2-5 dicembre 1964), per il Congresso Eucaristico Internazionale,

      Il terremoto che ha sconvolto l’Occidente

      Il Concilio Vaticano II finisce il 7 dicembre 1965 e pochi mesi dopo Paolo VI pubblicava, col Motu proprio “Ecclesiae Sanctae” (6 agosto 1966), le norme per applicare le decisioni conciliari alla vita quotidiana dei fedeli e di diocesi, parrocchie, istituti religiosi. Questo era il testo e il tema da vivere e far vivere ai fedeli della Chiesa cattolica, Ma già nascevano convegni teologici, riviste specializzate (ad esempio “Concilium”) e pubblicistica ecclesiale che iniziavano la “fuga in avanti” non commentando, spiegando e invitando ad applicare i documenti del Concilio, ma su cosa volevano realmente dire i Padri conciliari. Si scriveva che “lo spirito del Concilio” superava ampiamente i testi conciliari, troppo timidi e incompleti, per cui sorgevano “profeti” che dividevano il popolo cristiano parlando del “Concilio Vaticano III” che avrebbe dovuto completare il Vaticano II e portarlo a compimento, ipotizzando forme nuove di vita cristiana e sacerdotale. Nascevano comunità di credenti che vivevano “secondo lo spirito del Concilio”, non obbedivano al vescovo ed erano motivo di divisione e di scandalo, amplificato dai mass media.

     Due anni dopo il Concilio, nell’autunno 1967, inizia in Italia e in Occidente il “Sessantotto”, un miscuglio di grandi ideali (la pace e la giustizia nel mondo), di utopie spesso assurde (abolire tutte le armi) e di comportamenti a volte violenti, che manifestavano la profonda insoddisfazione per la nostra società occidentale. Anche qui, si sognava il “mondo nuovo” e si incominciava a distruggere quello che c’era, si proclamava la pace e si manifestava per le vie cittadine, a volte con violenze contro la polizia, le vetrine dei negozi, le auto parcheggiate. Era una protesta generalizzata di giovani, specialmente studenti, contro la società in cui vivevano, bloccata dai poteri forti e dai detentori del potere, i “baroni” delle cattedre, i “padroni” delle industrie e tutte le autorità. Lo spirito sessantottino si è infiltrato anche nella Chiesa cattolica, a molti sembrava un movimento provvidenziale per il bene della politica, della società e della Chiesa.    

     Erano tempi di grande confusione, dubbi, incertezze: iniziava il periodo di crisi della fede e della vita cristiana di cui siamo ancor oggi testimoni addolorati, diminuiva la pratica religiosa, non pochi sacerdoti abbandonavano il sacerdozio, per sperimentare “un modo nuovo di essere prete”. Una certa teologia disincarnata dalla realtà minava le fondamenta dell’ideale missionario, come inteso dal Vaticano II. Per esempio, si proclamavano come verità ipotesi del tutto false:

–         Le giovani Chiese debbono annunziare Cristo ai loro popoli, i missionari sono superflui; nasceva una campagna di stampa per il “moratorium” delle missioni in Africa, per lasciar libere le Chiese locali.

–         I non cristiani sono anche in Italia, la missione alle genti è qui da noi.

–         Manchiamo di sacerdoti in Italia, perché voi missionari andate a portare Cristo in altri continenti, quando lo stiamo perdendo noi italiani?

–         Non è importante che i popoli si convertano a Cristo, purchè prendano il messaggio di amore e di pace del Vangelo.

–         Ogni religione ha i suoi valori e tutte portano a Dio, che senso ha il “proselitismo” missionario in popoli di altre religione?

–         Bisogna fare in modo che il cristiano sia un miglior cristiano, il musulmano un miglior musulmano, un buddhista un miglior buddhista…

      Paolo VI il Papa martire del 1900

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      Paolo VI era il Papa del Concilio, aveva portato avanti e chiuso un evento straordinario che apriva orizzonti nuovi alla Chiesa; uomo colto, mite, umile, che aveva capito i tempi moderni, comunicava in modo comprensibile da tutti (si leggano i suoi documenti!) e con la sua prima enciclicaEcclesiae Sanctae” (1964) indicava il dialogo col mondo (dare e ricevere) come metodo di annunzio del Vangelo nei tempi moderni. Eppure, all’inizio degli anni settanta, dopo le contestazioni violente e sprezzanti (da parte di cattolici) seguite alla “Humanae Vitae” (1968), che l’avevano toccato nel vivo, di fronte al marasma di quei tempi era intimidito, si sentiva mancare le forze per reagire e riportare il gregge di Cristo a vivere secondo gli orientamenti dati dal Vaticano II. Tanto più che non pochi intellettuali e teologi, associazioni e gruppi ecclesiali, seguivano la travolgente onda culturale che portava verso il laicismo, il relativismo, la lettura “scientifica” della società (cioè marxismo). Nessuno più osava dire forte e chiaro che un “mondo nuovo” è possibile, ma solo a partire da Cristo. Paolo VI lo diceva, lo ripeteva, ma la sua voce era ascoltata solo dai semplici credenti e da coloro che venivano definiti “papalini” in senso negativo.

     La crisi dell’ideale missionario nell’Occidente cristiano è nata nella crisi di fede che squassava la Chiesa intera. ha preso tutti alla sprovvista e ha diviso profondamente le forze missionarie (istituti missionari, riviste, animazione missionaria, ecc.). Un esempio significativo (ne ricordo tanti!). Nell’estate 1968, come già diverse volte in precedenza, ho partecipato alla Settimana di Studi missionari a Lovanio (“Liberté des Jeunes Eglises”), organizzata dall’indimenticabile amico gesuita padre Joseph Masson, docente di Missiologia della Gregoriana. Diverse voci non di missionari sul campo, ma di studiosi, teologi, missiologi mi ferivano, perchè esprimevano forti dubbi sul mandare missionari europei in altri continenti; molto meglio, si diceva, lasciare che le giovani Chiese raggiungano una loro maturità e si organizzino secondo le loro idee e culture. Pensavo: com’è possibile sostenere questa tesi, quando solo tre anni fa la totalità dei vescovi delle missioni si sono espressi in modo radicalmente opposto, chiedendo nuovi missionari? Conoscevo bene gli interventi dei vescovi missionari. Non uno aveva detto qualcosa di simile, anzi, con l’indipendenza dei loro paesi, sentivano la necessità di avere più forti legami con la sede di Pietro e le Chiese cattoliche antiche. E’ solo un esempio della mentalità che si è infiltrata e diffusa nella Chiesa in quel tempo post-conciliare.

     La crisi della “missio ad gentes”, e quindi dell’animazione missionaria (e delle riviste missionarie), si è manifestata anche nella chiusura delle tre “Settimane di studi missionari” che si tenevano a Milano dal 1960 (esperienza chiusa nel 1969), a Burgos (1970) e a Lovanio (1975), che venivano da una lunga tradizione (a Lovanio dagli anni venti), per i forti contrasti e divisioni fra gli specialisti delle missioni.

      “Giovanni Paolo II è il centravanti della missione”    

      Nell’ottobre 1978 entra in scena il secondo Santo Pontefice, Giovanni Paolo II, che veniva dalla Polonia, una Chiesa del tutto diversa da quelle dell’Europa occidentale, Il Sessantotto l’aveva vissuto col popolo polacco come uno stimolo per la liberazione dal comunismo, l’opposto da quanto avveniva in Italia, dove esistevano addirittura i “Cristiani per il Socialismo”. Infatti, fin dall’inizio, grazie anche alla carica vitale dei suoi 58 anni, dimostra una forza e un coraggio che spiazza tutti.

     L’esempio più eclatante è quello di cui sono stato testimone a Puebla in Messico nel gennaio 1978, quando ha aperto l’Assemblea del Celam (dei vescovi latino-americani). Il documento di preparazione era impostato sul tema “Vedere, Giudicare, Agire”, che portava ai problemi economico-politico-sociali: vedere la situazione dei popoli d’America Latina, giudicare di chi è la colpa e poi agire per liberare i popoli da ogni oppressione. Il Papa, nel discorso iniziale dice che lo schema di preparazione va cambiato: “Per liberare i popoli latino-americani, ripartiamo da Cristo”.

     Riaffermava chiaramente che la missione della Chiesa è di natura religiosa, portare la salvezza in Cristo, liberando l’uomo prima dal peccato personale e poi cambiando la società oppressiva attraverso l’azione e la testimonianza dei credenti in Cristo. Era una forte critica alla prima “Teologia della Liberazione” che politicizzava l’azione sociale della Chiesa e aveva diviso le Chiese e i credenti d’America Latina. Ma il Papa polacco non negava affatto l’aspetto positivo di quel movimento teologico; la Parola di Dio è strumento di liberazione dell’uomo da ogni male, il peccato personale e sociale. E’ stata l’impostazione di fondo dei molti viaggi nei paesi non cristiani: “I miei viaggi in America Latina, in Asia ed in Africa – ha scritto nel messaggio per la giornata missionaria del 1981 – hanno una finalità eminentemente missionaria. Ho voluto annunziare io stesso il Vangelo, facendomi in qualche modo catechista itinerante e incoraggiare tutti coloro che sono al suo servizio”. Giovanni Paolo II era profondamente innamorato di Gesù Cristo, di cui parlava come una persona viva che egli aveva incontrato e di cui si era innamorato. Ai vescovi e sacerdoti dell’America Latina diceva: “Lasciatevi prendere dall’amore di Cristo; lasciatevi penetrare, coinvolgere, illuminare e cambiare dall’amore di Cristo; nella misura in cui sarete tutti di Cristo, sarete anche tutti degli uomini”.

     Il Papa polacco ha rilanciato la “missione alle genti” in modo teologico e programmatico nell’enciclica “Redemptoris Missio” (di cui dirò nella III parte), ma soprattutto nei suoi 62 viaggi missionari cioè extra-europei (e una quarantina in Europa), quando ha rinfrancato e incoraggiato le giovani Chiese in paesi non cristiani. Si diceva che il Papa viaggia troppo, ma chi diceva questo non è stato nei paesi da lui visitati dopo un suo viaggio.

     Il titoletto “Giovanni Paolo II è il centravanti delle missioni” è quanto mi diceva padre Schiavone, un anziano missionario domenicano toscano, che nel 1982 era in Pakistan da una quarantina d’anni. L’ho incontrato a Faisalabad e mi raccontava la visita che il Papa aveva fatto l’anno precedente a Karachi, allora capitale del Pakistan, e dell’entusiasmo che aveva suscitato nello stadio cittadino pieno di giovani musulmani ad applaudirlo. Diceva: “Noi missionari che siamo in questo paese da decine d’anni, tollerati e a volte perseguitati, non avevamo mai nemmeno immaginato di poter essere testimoni di una scena simile: una folla di musulmani che applaudiva il nostro Papa! Abbiamo pianto di gioia”. E concludeva dicendo: “Noi missionari abbiamo trovato il nostro centravanti!”.

     Giovanni Paolo II ha lottato con tutte le sue forze, affinchè l’Europa riconoscesse le radici cristiane nella sua Costituzione, ma capiva che la civiltà di radici cristiane che si è sviluppata nel nostro continente nell’ultimo mezzo millennio, non aveva più la forza e la gioia della fede per portare Cristo ai miliardi di uomini e donne che ancora non lo conoscono. Ma aveva una visione profetica della missione e viaggiava il più possibile nelle giovani Chiese, proprio per promuovere il primo annunzio e il dialogo interreligioso. chiamando i giovani e le giovani Chiese ad esserne protagonisti. Alla X Giornata missionaria dei giovani a Manila (5-10 gennaio 1995) ha gridato: “A ciascuno di voi Cristo dice: ‘Io mando voi’. Ecco l’ideale del giovane cristiano: sentirsi mandato da Cristo, avere nella vita lo scopo ben preciso di realizzare il mandato di Cristo. Non si può vivere senza ideali. I giovani (ma anche i non più giovani) hanno bisogno di dare senso ed entusiasmo alla vita, proporsi grandi mete, sentirsi protagonisti di grandi conquiste, spaziare per grandi orizzonti. Ecco, la missione è tutto questo”.

     “Il mondo è stanco delle vecchie ideologie” ha detto Giovanni Paolo II visitando Cuba nel 1998 e si riferiva evidentemente al comunismo e spiegava che la missione non è un’ideologia, ma un ideale che viene dall’avvenimento che ha cambiato il corso della storia: la fede in Gesù Cristo unico Salvatore dell’uomo. La dimensione missionaria pè essenziale per essere cistiani autentici e aggiungeva che la Chiesa non può non essere missionaria. Ma come? La missionarietà va intesa in due modi, come ha detto il Papa a Manila nel 1995:

   1) Anzitutto verso i non cristiani, le masse umane dell’Asia soprattutto, che ancora attendono di conoscere la Buona Notizia della nascita del Salvatore. Il Papa si è rivolto ai giovani filippini e a tutti i giovani cattolici del mondo, indicando la missione in Asia come la sfida prioritaria per la Chiesa oggi. Questo orizzonte sconfinato del continente dove vivono il 60% di tutti gli uomini e l’85% di tutti i non battezzati è tale da allargare il cuore del cristiano alle dimensioni del mondo, di tutta l’umanità. La Chiesa ha bisogno di missionari per annunziare Cristo alle genti, quelle che, come ha detto il Papa, “anelano all’autentica liberazione e realizzazione. I poveri cercano giustizia e solidarietà; gli oppressi chiedono libertà e dignità; i ciechi invocano la luce e la verità”. La missione verso i non cristiani è la giovinezza della Chiesa. La famiglia e la parrocchia in cui nasce una vocazione missionaria hanno dato il massimo contributo alla salvezza dell’uomo e dei popoli.

     2) C’è un secondo modo di realizzare la missione: “Essere missionari nella nostra società”, come diceva il titolo del Forum giovanile a Manila. C’è una “missione nel quotidiano” a cui dobbiamo educarci: testimoniare e annunziare Cristo con la nostra vita nella famiglia, nella società, nella scuola, sul lavoro, in politica. Ma per esercitare questa missione dobbiamo andare contro-corrente (il Vangelo è sempre all’opposizione rispetto allo spirito del mondo). Il Papa, nel discorso della Veglia di preghiera a Manila, ha ammonito i giovani con forza: “Attenti ai falsi maestri! Appartengono alle élites intellettuali della scienza, della cultura e dei mass media. Presentano un anti-Vangelo che dichiara morto ogni ideale. Vogliono che voi siate come loro: dubbiosi e cinici”. “Chi ci ha rubato le ali?” chiedeva un giovane filippino. Il Papa a Manila ha proposto, per volare, due ali ai giovani credenti: fede e missione.

     Il Presidente americano Jimmy Carter, ricevendolo alla Casa Bianca nel 1979, gli diceva: “Lei ci ha costretti a riesaminare noi stessi. Ci ha ricordato il valore della vita umana e che la forza spirituale è la risorsa più vitale delle persone e delle nazioni”. Il “New York Times” scriveva: “Quest’uomo ha un potere carismatico sconosciuto a tutti gli altri capi del mondo. E’ come se Cristo fosse tornato fra noi”. E’ il più bell’elogio che si possa fare del successore di Pietro.

     Giovanni Paolo II viaggiava per dare un messaggio, oltre che di fede e di conversione a Cristo, di fraternità e di solidarietà a livello universale; per portare alla ribalta tutte le sofferenze e le ingiustizie del mondo. Quando il Papa parlava ai “favelados” di Rio de Janeiro, ai lebbrosi di Marituba in Amazzonia, agli indios di Oaxaca in Messico o ai pescatori di Baguio nelle Filippine; quando condannava con forza ogni violazione dei diritti dell’uomo davanti a dittatori come Marcos (Filippine), Pinochet (Cile), Stroessner (Paraguay), Mobutu (Zaire), Fidel Castro (a Cuba), i Sandinisti (in Nicaragua); quando parlava del valore della cultura africana (in Benin) e dello “sviluppo dal volto umano” (in Gabon), egli incideva fortemente sulle coscienze dei popoli. Quante volte un popolo sofferente e umiliato (penso alla Guinea Equatoriale appena uscita dalla spaventosa dittatura di Macias Nguema) ha ricevuto dalla visita del Papa il provvidenziale stimolo a riprendere con coraggio la via della riconciliazione e della ricostruzione.

     25 anni dopo la Redemptoris Missio aggiorna l’Ad Gentes (1990)

      Nel settembre 1989, mentre ero nella redazione di Mondo e Missione a Milano, squilla il telefono: «Sono il segretario del Papa. Guardi la sua agenda: lei è libero il 3 ottobre prossimo?». «Sì, sono libero, perchè?». «Il Papa la invita a un incontro con lui e a pranzo, per discutere della nuova enciclica missionaria che ha programmato».

     La telefonata mi sembra improbabile, penso che sia uno scherzo. Invece, fatti i necessari controlli, è proprio vero. Così è nata la mia collaborazione alla “Redemptoris Missio”, come redattore della stessa. Abitavo nella casa generalizia degli Oblati di Maria Immacolata (OMI) col superiore generale padre Marcello Zago. Avevo diversi schemi dell’enciclica e le note preparate da una commissione che aveva interrogato Conferenze episcopali, facoltà teologiche, istituti missionari, altri enti interessati; e alcune pagine di Giovanni Paolo II su cosa intendeva dire.

    L’avventura di scrivere l’enciclica missionaria

    Così, dal 3 ottobre al 7 dicembre 1989 ho lavorato 12-13 ore al giorno alla macchina da scrivere. Non leggevo nemmeno i giornali né vedevo il telegiornale per non distrarmi. Un lavoro appassionante anche se faticoso, una corsa contro il tempo interrotta solo dalla preghiera e da una passeggiata alla sera dopo cena nel vasto parco con padre Zago. Quando finivo di scrivere un capitolo, Zago lo leggeva, mi suggeriva alcune correzioni o aggiunte e poi lo portava in Segreteria di Stato e al Papa; alcuni giorni dopo ricevevo le osservazioni del Papa, scritte a matita o con la biro: qui aggiungi questo, spiega meglio il concetto, cita questo passo del Vangelo…

     Due volte trovo scritto: «Si legge bene, vai avanti così». E ancora: «Bravo, è scritto veramente bene». Ci mettevo tanta passione e impegno che il lavoro non mi pesava affatto, anzi quel servizio diretto al Papa e alla missione alle genti mi esaltava: non sono mai riuscito ad andare in missione per fare il giornalista e finalmente questa obbedienza ai superiori mi ricompensava. Dopo una decina di giorni abbiamo convocato anche padre Domenico Colombo del Pime, specialista di teologia missionaria ed esperto di ecumenismo e di dialogo con le religioni non cristiane: ha dato un contributo notevole, inventando anche nuove impostazioni di alcuni temi.

     Consegnata al Papa la prima stesura dell’enciclica il 7 dicembre 1989, sono stato richiamato a Roma un mese per la seconda stesura (marzo 1990) e una ventina di giorni per la terza (luglio 1990): il primo e il secondo testo, infatti, sono stati mandati alle persone ed enti consultati. Ciascuno mandava le sue osservazioni, il Papa poi dava direttive per procedere alla seconda e terza stesura del documento. La Redemptoris Missio porta la data del 7 dicembre 1990, XXV dell’ Ad Gentes, ma presentata il 22 gennaio 1991, per dare tempo alle traduzioni e stampa in varie lingue.

     Qual è stato il mio lavoro? Molto modesto: trascrivere i concetti e le indicazioni del Papa in uno stile facile, immediato e, come mi ha detto Giovanni Paolo II, «giornalistico». Sono rimasti alcuni slogan spesso citati: «La fede si rafforza donandola» (n. 2); «La missione è un problema di fede» (n. 11); «Dio sta preparando una nuova primavera cristiana» (n. 86); «Il vero missionario è il santo» (n. 90)…

     Avevo tentato di dare un tono più personale a quanto voleva dire il Papa. Alcuni approcci sono rimasti, altri no. Una volta, riferendomi alle cancellature con preghiera di riscrivere varie espressioni, ho detto ad un personaggio della Segreteria di Stato:

     –   Il Papa aveva chiesto un’enciclica scritta in stile giornalistico.

     –   Sì, ma queste espressioni non sono adatte ad un Papa.

     –   Ma questo lo dice Giovanni Paolo II o lo dite voi della Segreteria di Stato?.  

     –   Non si preoccupi – fu la risposta – lei faccia quel che le diciamo di fare e basta.

 

     Qualcuno mi ha chiesto: scrivendo l’enciclica, non ci hai messo dentro qualcosa che volevi metterci? Assolutamente no, l’enciclica è di Giovanni e di nessun altro; ma Marcello Zago, Domenico Colombo e io, un certo influsso l’abbiamo avuto, specie nel modo di impostare i problemi e le soluzioni (il Papa aveva un approccio più dottrinale, noi più pragmatico); e qualche volta anche nel proporre di introdurre temi che gli schemi precedenti avevano trattato in tono minore o sottinteso, e il Papa poi conveniva. Ad esempio, nel Capitolo VI su «I responsabili e gli operatori della pastorale missionaria», i numeri 65 e 66 su «Missionari e Istituti Ad Gentes» sono stati proposti da noi e accettati dal Papa. Nello schema precedente i missionari ad gentes erano inglobati fra i religiosi o fra il clero diocesano in missione. Ho ricordato che la Commissione missionaria al Vaticano II ha distinto bene la ventina di Istituti non religiosi e senza altro scopo al di fuori delle missioni fra i non cristiani. Il Capitolo IV dell‘Ad Gentes («I missionari») riafferma la «vocazione speciale» alle missioni estere, mettendo in risalto la specificità degli istituti esclusivamente missionari, che era contestata dai religiosi.

   Questa esperienza di impegno con la Santa Sede mi ha lasciato ammirato del lavoro che si svolge, per anni (per la Redemptoris Missio tre-quattro) attorno ad un’enciclica. Poi il documento è opera del Papa perchè decide lui quel che lui vuol dire e come lo vuol dire. Però con la mediazione e il consiglio di molti. Nella prima, ma anche nella seconda e terza stesura del documento, ho esaminato il materiale giunto in risposta agli interrogativi del Papa e ai testi già preparati. Materiale ricco e interessante, che Giovanni Paolo II ha letto, valutato e giudicato meritevole o no di passare nell’enciclica. È un fatto notevole, di cui credo pochi hanno notizia. Il che indica che l’organizzazione creata per i documenti pontifici dalla Santa Sede, attraverso la Segreteria di Stato e le Nunziature, è incredibilmente attenta e precisa.

    “La missione alle genti è ancora agli inizi” (R.M. 30)    

      La Redemptoris Missio è stata giudicata l’enciclica più rappresentativa del pontificato di Giovanni Paolo II, che con tutti i suoi viaggi, fino agli estremi confini del mondo, dava plasticamente l’idea di essere il Pontefice della Chiesa cattolica, cioè universale, missionaria. Diversi ne hanno lodato lo stile semplice e immediato. Il card. Godfried Daneels di Bruxelles ha scritto che è «il programma di lavoro per il prossimo millennio». Il cardinal JosephTomko, prefetto di Propaganda Fide, aveva ottenuto un’enciclica per il XXV dell’Ad gentes, l’unico fra i 16 documenti del Vaticano II aggiornato con un’enciclica. L’idea ricorrente a quel tempo, nelle alte sfere della Curia romana, era che un’enciclica per le missioni era troppo: non è più il momento di porre in risalto l’urgenza e il valore specifico della missione alle genti, poichè tutta la Chiesa è missionaria e tutti i popoli hanno bisogno di missione.

     Anche nell’opinione pubblica occidentale (e cattolica) l’enciclica ha avuto uno scarso impatto. Giovanni Paolo II l’ha firmata il 7 dicembre 1990, ma l’enciclica è stata presentata alla stampa il 22 gennaio 1991, quando infuriava la prima “Guerra del Golfo” fra Stati Uniti e Iraq, il conflitto occupava le prime pagine dei giornali e delle Tv; e poco dopo è stata pubblicata in’altra enciclica, la “Centesimus Annus”, nel centesimo anniversario della “Rerum Novarum” di Leone XIII sui problemi sociali. L’enciclica missionaria non ha quasi fatto notizia e anche in seguito, la stampa cattolica e missionaria l’hanno quasi dimenticata, penso perché, secondo i primi affrettati commenti, non diceva nulla di nuovo rispetto all’Ad Gentes. Ricordo che anche parecchio tempo dopo, riviste teologiche cattoliche scrivevano che era una rilettura del Decreto conciliare.

     E non è vero. Il card. Joseph Tomko, in una cena con me e padre Colombo, diceva che Giovanni Paolo II aveva scelto di scrivere l’enciclica “per chiarire la confusione teologica sorta intorno alla missione alle genti, al dialogo con le religioni non cristiane e al rapporto fra l’annunzio di Cristo e lo sviluppo dell’uomo e dei popoli”. Infatti la Redemptoris Missio sviluppa questi e altri punti, riportando la missione al suo valore primario, annunziare la salvezza in Cristo a tutti i popoli, con tutte le conseguenze positive per l’uomo e la storia umana che ne discendono. Impossibile sintetizzare l’enciclica, un libretto di 82 pagine, in poche battute.

   Invito a rileggerla per capire come il Papa polacco andava contro corrente lanciando un messaggio rivoluzionario per le antiche Chiese d’Europa e del Nord America, valido anche oggi. Il fatto che il Papa abbia voluto un’enciclica specifica sul primo annunzio del Vangelo ai non cristiani, è un segno di come aveva a cuore il tema missionario. Nell’enciclica dice: «Proprio il contatto diretto con i popoli che ignorano Cristo, mi ha convinto ancor più dell’urgenza di tale attività (missionaria)» (n. 1); e aggiunge diverse volte con varie espressioni questi concetti: «Vogliamo nuovamente confermare che il mandato di evangelizzare tutte le genti costituisce la missione essenziale della Chiesa» (n. 14); «La missione ad gentes… (è) un’attività primaria della Chiesa, essenziale e mai conclusa» (n. 31); «L’attività missionaria rappresenta ancor oggi la massima sfida per la Chiesa… La missione alle genti è ancora agli inizi» (n. 40).

   Quali sono le novità della Redemptoris Missio

      Ecco alcune novità della R.M. rispetto all’Ad Gentes e alla Evangelii Nuntiandi:

    1) Gesù Cristo unico Salvatore. Risponde a quei teologi che in vari modi esprimono l’idea che Gesù è una delle vie che conduce a Dio. La missione comunica alle genti la salvezza in Cristo, la fede e l’amore a Cristo, unico Salvatore dell’uomo, perché “Cristo è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini… Gli uomini quindi non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l’azione dello Spirito” (R.M. 5). L’enciclica riafferma la centralità di Cristo nella missione alle genti, non esistono altre vie per andare a Dio, secondo la concezione indù, che paragona le religioni a fiumi che confluiscono tutti nel mare dell’Assoluto, teoria assunta in qualche modo anche da una tendenza teologica del nostro tempo.

     2) Il Regno di Dio. Gesù è venuto ad annunziare il Regno di Dio, che dà il senso messianico del cristianesimo, si realizzerà nella vita eterna del Paradiso. E’ un Regno escatologico, che “esiste già e non ancora”. La missione della Chiesa annunzia il Regno di Dio e lavora per la sua progressiva realizzazione nella vita dei popoli. Questo dice il Concilio e la R. M., che nota l’errore di separare il Regno da Cristo e dalla Chiesa. I “valori del Regno” (amore, giustizia, pace, fraternità) sono accettati da tutti, ma Cristo fa problema, è la “pietra d’inciampo” che fa difficoltà. L’enciclica dice con chiarezza: “Se si distacca il Regno da Gesù, non si ha più il Regno di Dio da lui rivelato, ma si finisce per distorcere il senso del Regno che rischia di trasformarsi in un obiettivo puramente umano e ideologico” (RM 17). I contenuti del Regno sono la fede, la vita nuova in Cristo, amore, perdono, ecc.; che, con la grazia di Dio, trasformano la società: sono la rivoluzione portata da Cristo, basata sull’amore.

     Nel tempo della R.M., la “teologia della liberazione” vedeva la liberazione dei popoli in una dimensione essenzialmente politico-sociale-economica, sposando la teoria marxista del sottosviluppo e dello sviluppo. Non pochi teologi della liberazione e “comunità di base” erano impegnati in campo politico, appoggiavano la Cuba di Fidel Castro e i regimi del “socialismo reale”, le “guerriglie di liberazione”, ecc.

   3) Lo Spirito Santo protagonista della missione. Se è lo Spirito che fa la missione, il missionario deve pregare molto per essere obbediente alla voce dello Spirito Santo. La missione non è del missionario, ma dello Spirito che guida e illumina la Chiesa. Bisogna obbedire alla Chiesa, non costruire comunità e gruppi paralleli. Inoltre, lo Spirito Santo dà una dimensione di ottimismo e di speranza. Il missionario non deve mai scoraggiarsi quando non vede i frutti del suo lavoro,. Se semina bene, lo Spirito porterà a compimento la sua opera e farà fruttificare e suoi sacrifici, il suo martirio.

     4) Dov’è la missione alle genti? E’ anche qui in Italia? Tre criteri per giudicare:

     a) Criterio territoriale-geografico, cioè i paesi e i popoli non cristiani, che “anche se non molto preciso e sempre provvisorio, vale sempre” (n. 37). Soprattutto il Papa mette tre volte l’accento sulla missione ad Gentes in Asia, dove i cristiani, tutti assieme, raggiungono a male pena il 3% degli asiatici (il 62% dell’umanità!).

    b) Fenomeni sociali nuovi da evangelizzare: le metropoli “Il futuro delle giovani nazioni si sta formando nelle città” (n. 37/b), gli emigrati, i rifugiati politici, gli extra-comunitari, i giovani che sono la maggioranza della popolazione nei paesi poveri.

     c) Gli “aeropaghi” moderni, mass media, cultura e scienza, enti ed organismi internazionali (Onu), pace e sviluppo, diritti dell’uomo e della donna, giustizia sociale, i giovani, la cultura moderna creata dalla comunicazione, nuove tecniche e nuovi modi di comunicare un messaggio, ecc. Campi immensi!

   5) Per la prima volta la R. M. parla in modo articolato del dialogo con le altre religioni, mentre l’Ad Gentes vi accenna in modo generico e la Evangelii Nuntiandi non nomina nemmeno; d’altra parte, come dimenticare gli incontri con le altre religi0ni a partire da quello di Assisi nel 1986? E come dimenticare quando nel febbraio 1986, visitando l’India, si inginocchiò dinanzi alla tomba e mausoleo di Gandhi e vi rimase per 4-5 minuti e poi affermò: “Gandhi mi ha insegnato molto”?

L’enciclica destina tre paragrafi a questo tema (nn. 55-57) e altri tre alle culture dei popoli e a come incarnare il Vangelo in esse (52-54).

     6) La R.M. è l’enciclica che ha gestito il passaggio “dalle missioni estere alla Chiesa locale”, valorizzando le forze locali anche per la missione alle genti. La Chiesa universale, senza che ce ne accorgiamo, sta cambiando proprio per influsso delle giovani Chiese. Fra i giovani battezzati, l’entusiasmo della fede è il motore della vita cristiana che sta maturando. Il Papa è stato geniale quando ha scritto (R.M. 2) che vuole impegnare “le Chiese particolari, specie quelle giovani, a mandare e ricevere missionari” (n. 2); e ha dato piena fiducia alle giovani Chiese stimolandole con queste parole: “Siete voi oggi la speranza di questa nostra Chiesa che ha duemila anni; essendo giovani nella fede, dovete essere come i primi cristiani e irradiare entusiasmo e coraggio, in generosa dedizione a Dio e al prossimo… e sarete anche fermento di spirito missionario per le Chiese più antiche” (R.M., 91).

     7) La R.M. lega strettamente l’annunzio di Cristo all’umanizzazione. Nei numeri 58 e 59 Giovanni Paolo II sviluppa questo concetto: con la missione alle genti la Chiesa aiuta i popoli a svilupparsi, certo anche con gli aiuti economici e materiali, con le opere sanitarie e di educazione, ma soprattutto annunziando Cristo, perché “lo sviluppo dell’uomo viene da Dio e dal modello di Gesù uomo-Dio e deve portare a Dio. Ecco perché tra missione evangelica e promozione dell’uomo c’è una stretta connessione” (n. 59). E aggiunge che “il contributo della Chiesa e della sua opera evangelizzatrice per lo sviluppo dei popoli riguarda non soltanto il sud del mondo, per combatterli la miseria materiale e il sottosviluppo, ma anche il nord, che è esposto alla miseria morale e spirituale causata dal super-sviluppo”.

     Questo messaggio è fondamentale per capire i meccanismi dello sviluppo di un popolo (n. 58): ”Lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi”. Queste parole sono rivoluzionarie per capire lo sviluppo e il sottosviluppo dei popoli, che non è solo o quasi solo di soldi, di macchine, di tecniche, di commerci, ma di formazione col Vangelo, che rende l’uomo più uomo e lo sviluppa in tutti i sensi.
Piero Gheddo a Radio Maria (2014)

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