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Quella di padre Piero Gheddo è una grande storia italiana, prima ancora che cristiana. Dalle pagine di questo appassionante libro, che pur non essendo una biografia racconta la sua vita attraverso i suoi scritti e la sua diretta testimonianza, emerge in tutta evidenza l’impossibilità di incasellare l’instancabile missionario nei cliché che paralizzano oggi una parte del mondo cattolico: quelli che cercano di tenere in vita con accanimento terapeutico vecchi slogan ideologici svuotati del loro senso, e quelli che esistono e consistono in funzione del «nemico», quotidianamente intenti a costruire steccati propugnando una fede tutta Law & Order.

Sono tanti gli aneddoti e gli episodi curiosi e inediti contenuti nel volume. Fin da ragazzo Piero sogna di essere prete, ma non manca di curiosità, beccandosi i rimproveri del parroco di Tronzano Vercellese per aver saltato le Quarantore andando ad ascoltare l’onorevole Oscar Luigi Scalfaro, uno dei «padri costituenti», allora già molto noto nel vercellese, che parlava in parrocchia nella vicina Santhià. Viene minacciato di espulsione dal Pime, perché va a prendere la carta necessaria per stampare il giornalino del seminario senza permesso.

Diventato sacerdote scrive tanto e negli anni del Concilio collabora con «L’Osservatore Romano» che però gli censura, per intervento della Segreteria di Stato, due importanti interviste: quella con il cardinale Agostino Bea, presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani, e quella con il vescovo brasiliano Hélder Câmara. Bea aveva detto al missionario-giornalista Gheddo che «è pazzesco predicare il Cristo diviso».

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Particolarmente significativo è l’incontro con Câmara, arcivescovo di Recife. L’intervista, che non comparirà mai sul quotidiano vaticano, ma sarà pubblicata in un libro di padre Gheddo, inizia con la descrizione del vescovo: «Un uomo che riuscirebbe a intendersi anche con chi parlasse solo cinese o tamil. Piccolo e minuto, con un volto espressivo e cordiale, si esprime in un francese “un po’ speciale”, come dice lui stesso, accompagnando il suo dire con ampi gesti esplicativi: una semplicità e immediatezza di linguaggio, una carica tale di comunicativa, da non lasciare quasi spazio alle domande di chi lo intervista».

Câmara è conosciuto come «vescovo delle favelas», per la sua azione pastorale e sociale a favore dei diseredati. Insiste sulla necessità di favorire il dialogo tra mondo sviluppato e quello in via di sviluppo: «Occorre far prendere coscienza ai popoli dell’Occidente della fame e miseria nel mondo, in tutta la sua vastità e drammaticità… Questa la situazione del mondo: un terzo dei popoli hanno raggiunto un livello di vita degno di un uomo, gli altri due terzi vivono a un livello sotto-umano». Bisogna «in nome del Vangelo, risvegliare la coscienza della loro dignità umana alle masse sottosviluppate, nessuna elevazione umana è possibile quando ancora non c’è nemmeno la coscienza di vivere a un livello sotto-umano e di aver diritto a una vita degna dell’uomo. È nostro dovere di cristiani: anche se gli agitatori e i mestatori non esistessero (ed essi esistono), anche se i comunisti non fossero al lavoro (ed essi lo sono), noi avremmo lo stesso il dovere, come portatori del messaggio di Gesù, di aprire gli occhi alle masse diseredate».

Sarà proprio Gheddo a far scoprire la figura del vescovo brasiliano in Italia e oggi padre Piero è felice per l’avvio del processo di beatificazione, denunciandone le strumentalizzazioni della sinistra, ma difendendolo pure da quel cattolicesimo che ha sempre visto come fumo negli occhi ogni forte impegno per i poveri gridando «al lupo» per il pericolo comunista. Come se i poveri non ci fossero nel Vangelo. Come se ricordare il «protocollo» sulla cui base tutti saremo giudicati, quella pagina straordinaria del capitolo 25 di Matteo (ero affamato, assetato, nudo, forestiero, carcerato…) fosse un pericoloso esercizio di ideologico «pauperismo».

Il lettore attento, troverà in queste pagine vere e sincere anche una sacrosanta rivalutazione della Teologia della Liberazione, che non è stata mai «condannata in blocco» dalla Santa Sede, come ricordano invece a ogni piè sospinto i propugnatori dello status quo.

Insomma un uomo e un prete vero, mai ideologico, lontano dai salotti dell’intellighenzia progressista ma anche da quelli del perbenismo conservatore. La sua forza è stata per tutta la vita e continua a essere la disponibilità a lasciarsi ferire, mettere in discussione, dalla realtà. La disponibilità di chi non sa già tutto, non ha già pre-giudicato tutto, non ha soltanto da sciorinare la dottrina imparata a memoria, ma conosce la fatica – anzi il travaglio – di confrontarsi sempre con le situazioni concrete e più difficili. È tutta da leggere, nel capitolo intitolato «Le mie crisi», la reazione di padre Gheddo di fronte alla fame, alla miseria, alla morte.

Nel 1969 visita per la prima volta l’Uganda con Paolo VI e vede le conseguenze della siccità e della fame. «Ho già visto la fame in India, ma non in questa spaventosa situazione: uomini, donne, bambini, anziani, seduti per terra in tutte le costruzioni, nei corridoi, nelle stanze, nel cortile sotto un sole impietoso, per avere due volte al giorno una fetta di polenta di mais con un po’ di peperoncino e un litro d’acqua per famiglia. La fame autentica (che poi proverò in Angola) torce lo stomaco, rende l’uomo disumano. Ho pensato a Gesù crocifisso. Questi poveri scheletri umani sono in Croce con Gesù. Mi sento colpevole, responsabile di quella tragedia. Penso a tutto quel che Dio ha dato a me e nulla a quei poveri in Croce con Gesù. Provo vergogna, piango e prego per loro». Piangere, piangere per chi soffre e con chi soffre. In Burkina Faso, diversi anni dopo, durante la grande siccità e carestia nel Sahel, nel cortile della missione vado ecco «tre uomini e una donna anziana con un fagottino in braccio vengono verso di noi. Hanno camminato per ore nella notte. La donna apre gli stracci del fagottino: c’è un bambino tuareg di pochi mesi che sta morendo, perché, morta la mamma da alcuni giorni, non ha più avuto il latte. Le suore accolgono la nonna e i due uomini, danno da mangiare e da bere agli adulti e due suore immergono il bambino in una vaschetta d’acqua tiepida, lo frizionano per farlo sorridere, mettono nella sua boccuccia un po’ di zucchero e poi il biberon con il latte, gli fanno una iniezione di acqua nelle vene. Il piccolo ha qualche reazione e sorride, ma poi muore nel pomeriggio. Mentre lo osservo impotente nella sua agonia, povero ragnetto pelle e ossa, mi commuovo e prego: “Padre nostro che sei nei Cieli, l’hai creato tu questo povero bambino, come hai creato me. Perché a me hai dato tanto e a questo piccolo uomo hai dato niente? Non siamo tutti e due figli tuoi allo stesso modo? Io ho ricevuto tutto e lui niente… ma tu, Padre santo, vuoi bene anche a lui come vuoi bene a me?”». Lasciarsi ferire dalla realtà, provare compassione, lottare con Dio nonostante (o forse proprio perché) si è al suo servizio con dedizione totale e consacrata.

E come non ricordare l’intuizione allora profetica che porta oltre quarant’anni fa questo missionario sui generis e globe trotter a intitolare su «Mondo e Missione» un servizio speciale intitolato «A scuola dalle giovani Chiese». «Ricordo – racconta Gheddo – che le molte lettere ricevute esprimevano in maggioranza sconcerto e anche scandalo per quel titolo e i contenuti dello studio: pareva impossibile che noi, dopo duemila anni di cristianesimo, dovessimo andare a scuola da giovani cristiani senza alcuna esperienza di fede, di vita cristiana, di teologia, di esegesi biblica». Ancora oggi, quasi mezzo secolo dopo, a qualcuno pare ancora oggi difficile ammettere che le vecchie Chiese europee devono imparare e persino essere ri-evangelizzate dalla testimonianza di quei fratelli ai quali secoli fa avevano donato il Vangelo. E persino vedere seduto sulla cattedra di Pietro, per la prima volta, un Papa sudamericano.

Padre Gheddo, «visitatore apostolico» in senso letterale e non canonistico, è un prete in grado di commuoversi di fronte a una giovane Chiesa che nasce, di fronte a una comunità cristiana che inizia a piccoli passi il suo cammino. «La commozione davanti a una giovane Chiesa che nasce: come vivere al tempo degli “Atti degli apostoli” È l’idea che mi sono fatto visitando da cinquant’anni le missioni nel sud del mondo. A volte mi dico: “Piero, tu stai vivendo gli Atti deli Apostoli! Qui nasce la Chiesa; qui lo Spirito Santo si vede in azione tutti i giorni: non va mai in pensione, non si stanca mai, non dorme mai. Qui ci sono le prime comunità cristiane che sono come quelle che San Paolo fondava negli Atti”».

È lo stupore di fronte alla realtà, ai doni inattesi di Dio, alle testimonianze del suo amore nelle condizioni più difficili e umanamente insostenibili, a fare di questo vecchio missionario piemontese quasi novantenne, prete e giornalista, un cristiano giovane e mai incasellabile in un cliché.

di Andrea Tornielli

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