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Nel 2016 sono cent’anni dalla nascita del missionario laico che Papa Francesco ha proclamato Venerabile. La Fondazione dott. Marcello Candia ha festeggiato la ricorrenza con un concerto alla Scala: il maestro Chailly ha diretto il Requiem di Verdi. Ecco il mio ricordo di  come ho conosciuto e amato l’industriale italiano che ha speso tutta la vita e i suoi beni per gli “ultimi” dell’Amazzonia brasiliana.

Ringrazio Dio della grande grazia che mi ha fatto di conoscere bene il Venerabile dottor Marcello Candia, ed aver poi scritto la sua biografia dopo la morte (31 agosto 1983), per incarico della famiglia e della Fondazione Candia, che ne continua il ricordo e l’opera di carità.

Marcello era un uomo di vita evangelica fin da giovane. Un suo consulente, il professor Siro Lombardini, in un’intervista per la causa di canonizzazione di Marcello mi diceva: «Aveva un fiuto straordinario per i soldi, tutto quello che toccava diventava oro!». Poteva rimanere a Milano, gestendo l’industria chimica ereditata dal padre. Invece, ha venduto tutte le sue proprietà ed è partito come missionario laico per l’Amazzonia, dove ha vissuto solo 18 anni, dando tutto quel che aveva e tutto se stesso per i più poveri ed umili.
Partì per Macapà nel 1965, a 49 anni, quando il Pime, allora, non mandava in Amazzonia missionari sopra i 35 anni per le difficoltà di ambientarsi in un clima equatoriale costantemente caldo umido e l’estrema miseria dei caboclos e indios.

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Sono andato a visitarlo nell’estate 1966. Viveva in una stanzetta nella residenza (in costruzione) del vescovo, monsignor Beppe Maritano, con scatole, borse e baule personali portati dall’Italia ancora nel corridoio, da aprire e sistemare. A Milano ero stato a cena da lui tre volte: viveva in un grande e ricco appartamento, con diverse persone di servizio. In Amazzonia non aveva acqua corrente in stanza, i servizi e la doccia erano in fondo al cortile, e sul muro c’era un rubinetto al quale doveva riempire una brocca d’acqua per lavarsi e farsi la barba. Il pane non c’era tutti i giorni, la carne si vedeva poche volte, perché non c’erano frigoriferi, il formaggio (di cui era goloso) a Macapà non esisteva, il cibo base era: riso (quando c’era) e la mandioca bollita (che ha il gusto della segatura).

Mi faceva pena. Gli chiesi se si stava adattando alla vita di missione. Mi disse: «Quando mi viene la nostalgia della mia casa a Milano, penso a tutte le miserie che vedo ogni giorno fra i lebbrosi e i poveri di Macapà e mi ripeto: chi ha molto ricevuto deve dare molto. Io ho ricevuto moltissimo, incomincio a rendere qualcosa a questi poveri che mi circondano e dovrò dare tutto».
Marcello, innamorato di Gesù Cristo, vedeva nei poveri e nei lebbrosi l’immagine di Cristo: si inginocchiava di fianco a loro, li baciava, amava stare con le persone più umili.

1. L’ospedale e il ciclone

Un giorno del 1966 lo accompagno a visitare alcuni ammalati di lebbra di Macapà che sono ancora nelle loro capanne (in seguito li porterà nel lebbrosario di Marituba). C’è una vecchietta già sfigurata dalla lebbra, accudita dalla figlia in una capanna dove il fetore di carne marcia e di pus toglie il respiro. Dopo pochi minuti devo uscire all’aperto. Marcello si inginocchia accanto al letto dell’anziana signora, le parla e prega con lei.
Quando esce, gli dico che l’ammiro per quel gesto così spontaneo ed eroico. Risponde: «Vedi, se con l’aiuto di Dio non mi sforzassi di vedere Gesù in tutti i poveri che incontro, ritornerei subito in Italia. Pregando chiedo sempre questa grazia. Non è facile vivere qui, ma questa è la via che il Signore mi ha indicato e la percorro con la gioia che mi viene da Dio».

Candia era il santo della carità cristiana, ma a me è apparso subito, fin da quella prima visita, come il santo della Croce. Stava costruendo il più grande ospedale dell’Amazzonia (a quei tempi), una costruzione monumentale e maestosa. In una cittadina di 25.000 abitanti com’era Macapà nel 1965 (oggi sono 600.000!), in buona parte ancora formata da capanne di fango e paglia o casupole di legno (anche la casa dei missionari del Pime era di legno), con 20-25 case in muratura a uno o due piani. L’ospedale di Candia a due piani (in cemento armato) misurava 120 metri di lunghezza sulla pubblica via e 97 metri di profondità.

Quando arriva a Macapà nel giugno 1965, il giorno dopo è già al lavoro per l’ospedale, la cui costruzione l’aveva iniziata monsignor Pirovano tre anni prima. Non poteva studiare e conoscere il portoghese, ma era di esempio a tutti per le virtù che esercitava in modo esemplare: umiltà, spirito di sacrificio, pazienza, fedeltà alle preghiere e soprattutto la convinzione e l’entusiasmo che metteva in ogni sua azione. Lavorava veramente per Dio e non per se stesso. Quando l’ho visitato nel 1966, si era già affermato come un sant’uomo e, a parte le critiche per l’ospedale, lo ammiravano, ne erano edificati. Marcello, fin dall’inizio, aiutava nella costruzione di chiese, sosteneva il giornale e la radio cattolica e altri progetti dei missionari. Aveva molto di suo, ma si accorse subito che, in Amazzonia, le spese erano molto superiori del previsto.

Nel dicembre 1966, Marcello ritornò a Milano e iniziò la sua “campagna invernale” per l’animazione missionaria. Noi che gli eravamo vicini, parlavamo del “Ciclone Candia” in arrivo, ci preparavamo ad accettarlo, come si accetta un fenomeno naturale – un ciclone, appunto -, contro cui non c’è rimedio. Il cataclisma, però, era di natura benefica. Ma quando Marcello era in arrivo bisognava tenersi liberi per accompagnarlo in una continua girandola di incontri – che il Centro missionario Pime gli procurava (cioè il direttore, padre Giacomo Girardi) – in parrocchie e scuole, seminari e centri culturali, interviste con giornalisti, in radio e Tv, volantini e opuscoli da preparare, articoli da scrivere. Marcello finanziava questo lavoro con generose offerte per la stampa e il Centro Pime.

2. «Piero, ricordati, la fede non basta mai!»

E poi, diciamo la verità, piaceva e faceva bene, a noi giovani missionari del Pime, portare in giro un “santo”, presentarlo, sentirlo parlare, vedere la commozione che suscitava nella gente. Una volta l’ho portato a Rai Uno. Il giornalista che lo intervistava, presentandolo, dice:

«Lei è innamorato dei poveri e dei lebbrosi, ci racconti di quando è andato nel lebbrosario di Marituba».
«Scusi», risponde Marcello, «io non sono innamorato dei lebbrosi. Sono innamorato di Gesù Cristo, che mi aiuta a vedere in ogni lebbroso e in ogni povero Gesù in Croce. Questo spiega tutta la mia vita».

Il suo spirito di sacrificio era esemplare. Dopo il 1973, quando è venuto ad abitare nella nostra comunità di missionari (nel secondo Centro missionario di via Mosè Bianchi a Milano), ci imbarazzava mica male con i suoi ritmi di lavoro e di preghiera. Lavorava dalle 12 alle14 ore al giorno, tutti i giorni. Dormiva pochissimo, eppure era sempre sorridente con tutti. Non l’abbiamo mai visto prendersi una giornata di riposo, alla sera non vedeva il telegiornale, andava subito in stanza per fare una telefonata urgente (aveva una sua linea telefonica e le sue telefonate erano tutte “urgenti”!). Le sue giornate erano travolgenti.
Un pomeriggio d’inverno, con neve e gelo, dovevo portarlo a Piacenza per un incontro, e saremmo tornati dopo mezzanotte. Entra in auto premendosi le due mani contro il petto per il mal di cuore. Gli dico: «Marcello, non puoi venire col mal di cuore. Stai a casa, vado io e parlo per te, ci vediamo domani». Niente da fare, vuol venire lui. In genere recitavamo il Rosario, ma quella sera non si sente bene e dice: «Ripeto la giaculatoria che mi ha insegnato mia mamma: “Signore, aumenta la mia fede”». Io gli rispondo: «Marcello, tu di fede ne hai tanta, hai venduto tutto e spendi tutto per i poveri. A Milano non hai più una tua casa…». E lui, sempre tenendosi le mani premute sul petto replica: «Piero, ricordati, la fede non basta mai!».
Aveva tanta fede. Una volta gli chiedo: «Non pensi che tu moltiplichi le tue opere e come farai poi a mantenerle?». Lui risponde: «Non mi pongo questo problema. Io lavoro per il Signore, quindi ci pensa lui».

Marcello si definiva «un semplice battezzato»: non apparteneva ad alcuna associazione o movimento ecclesiale. Aveva preso sul serio il suo Battesimo. Era un uomo libero, con una spiritualità profonda ma elementare (pur essendo tre volte laureato), che s’è santificato con le preghiere del “Manuale del buon cristiano”: recitava tutti i giorni a memoria “Le Preghiere per la buona morte” e altre. Gli bastava poco per mettersi in contatto con Dio, con Gesù e lo Spirito Santo, con la Madonna di cui era devotissimo. Quando si immergeva nella preghiera non voleva essere disturbato, erano i suoi tempi, dai quali traeva la forza di andare avanti in una vita frenetica per moltiplicare le opere di bene.

Il primo viaggio a Macapà è del 1950 (poi a Milano lo chiamano “il dottor Macapà”) e per 15 anni si prepara per andare con Pirovano e realizzare l’ospedale, programmato e poi iniziato dal vescovo Pirovano. Ma, quando lui arriva in Amazzonia nel giugno 1965, Pirovano è da tre mesi superiore generale del Pime e il vescovo Maritano (un sant’uomo anche lui, che gli voleva bene davvero), arriva a Macapà sei mesi dopo Marcello. Lui rimane solo ad affrontare un mondo che gli rimane estraneo, lo ostacola, come le autorità militari, in quel tempo di dittatura militare (iniziata nel 1964), che sospettavano avesse un secondo fine: lo sorvegliavano, lo umiliavano, non gli davano i permessi necessari, eccetera.

Eppure, la santità di Marcello si impone in pochi anni in Italia e in Brasile. Negli anni riceve molti premi e riconoscimenti dal nostro Paese. Nel 1980 Giorgio Torelli pubblica Da ricco che era, di cui sono state vendute 120.000 copie in pochi anni (circa 50.000 diffuse dal Centro missionario Pime di Milano), Marcello Candia diventa «il missionario italiano più conosciuto e più amato». Non solo, Torelli crea il mito di “Marcello il leggendario”. Il suo libro penetra nelle case come un amico, parla al cuore della gente, entusiasma, interroga, mette in crisi, suscita rimorsi o rimpianti, dà a tutti il senso della bontà e della grandezza di Dio. Il personaggio “leggendario” è creato, Marcello ha lasciato una traccia profonda di cristianesimo vissuto ed ha ricevuto con gioia una quantità di offerte, donazioni, lasciti, eredità.

Da quel lancio iniziale, la Fondazione Candia ha dichiarato più volte che, anche dopo la sua morte, il vero miracolo di Marcello è che gli aiuti ricevuti dai suoi amici e devoti hanno continuato ad aumentare. Tanto che, dalle 14 opere nel Brasile dei poveri che Candia aveva lasciato, la Fondazione ne ha iniziate altre ed è giunta a finanziarne una trentina.

In Brasile Candia diventa ben presto una personalità conosciuta e stimata a livello nazionale, pur vivendo in un angolo sperduto dell’Amazzonia. Nel 1971 il Presidente del Brasile, generale Garrastazu Medici, conferisce a Marcello il “Cruzeiro do Sul” (Croce del sud), la massima onorificenza nazionale data ai benemeriti della nazione e per la prima volta ad uno straniero. Nel 1975, il più importante settimanale illustrato brasiliano, Manchete, gli dedica un lungo servizio intitolato “L’uomo più buono del Brasile”, con questa motivazione: «Il nostro Paese è terra di conquista per finanzieri e industriali italiani. Molti vengono da noi ad impegnare i loro capitali allo scopo di guadagnarne altri. Marcello Candia, ricco industriale milanese, vive in Amazzonia da dieci anni, vi ha speso tutte le sue sostanze, con uno scopo ben diverso: per aiutare gli indios, i caboclos, i lebbrosi, i poveri. L’abbiamo eletto l’uomo più buono del Brasile per l’anno 1975».

Sono ritornato per la quinta volta in Amazzonia nel gennaio-marzo 1996. Rivedo il lebbrosario di Marituba, l’ospedale e le altre opere costruite e finanziate da Candia a Macapá e Belem, parlo con tante persone. Gli incontri più belli sono quelli di Marituba, dove i lebbrosi che hanno conosciuto Candia, tredici anni dopo la sua scomparsa (là dove la vita dura molto meno che in Italia), non sono più molti. Ma il ricordo di lui si tramanda dall’uno all’altro, Marcello è diventato una figura mitica anche per i ragazzi delle scuole. Il lebbroso Adalucio, di grande saggezza umana e cristiana, più volte eletto capo dei lebbrosi di Marituba, mi dice: «Marcello non solo ci ha aiutati economicamente e con le opere sanitarie e sociali, ma ci ha voluto bene: in lui vedevamo l’amore di Dio anche per noi lebbrosi, rifiutati da tutti».

Chiedo ad Adalucio perché lui e gli altri lebbrosi considerano Candia un santo e lo pregano per ottenere grazie. Risponde: «Perché faceva tutto per amore di Dio. Non aveva nulla per sé, non cercava nulla per sé, ma tutto per gli altri, i poveri, gli ammalati, i lebbrosi. Era eroico nella sua donazione al prossimo. Lui ricco, colto e importante nel mondo, veniva a spendere la vita fra noi che non potevamo dargli nulla in cambio. E non per un motivo umano, altrimenti non avrebbe resistito, sarebbe rimasto deluso: ma solo per amore di Dio. Noi pensavamo: se lui è un uomo così buono, quanto più dev’essere buono Dio!».

3. La causa di canonizzazione

L’eredità più bella e intramontabile che Marcello ha lasciato non sono le opere, pur ottime e provvidenziali, ma il ricordo della sua santità e gli esempi della sua vita eroica per servire i più poveri. La Chiesa lo studia per proporlo, a un miliardo e più di cattolici e poi al mondo intero, come modello di cristiano che ha vissuto il Vangelo in modo integrale, per servire i poveri, gli ultimi. E chiede da Dio un “segno” straordinario che confermi la santità di Marcello, cioè il cosiddetto “miracolo”, in genere una guarigione da grave malattia, inspiegabile alla scienza medica. Occorre quindi che i devoti di Marcello Candia non si accontentino di ammirarlo e di aiutare le sue opere, ma si propongano di imitarlo nelle sue virtù e lo preghino per ottenere grazie per sua intercessione.

Il 12 gennaio 1991 (otto anni dopo la sua morte), il cardinale Carlo Maria Martini istituisce il tribunale diocesano per l’inizio della sua Causa di canonizzazione (ne ero il Postulatore) e afferma: «È un modello di laico impegnato, coraggioso, capace di prendere sul serio la parola di Gesù, che ha messo la sua professionalità a servizio degli ultimi. È dunque per noi un testimone straordinario, un cristiano esemplare, un modello nel nome del quale vorremmo avviarci verso il terzo millennio per incominciarlo con speranza». L’8 febbraio 1994, chiudendo il processo diocesano, dirà: «La Chiesa ambrosiana esprime ufficialmente il desiderio di poter un giorno annoverare tra i suoi santi e beati questo suo figlio».

Il lungo cammino della causa di canonizzazione termina l’8 luglio 2014, quando la Congregazione dei Santi promulga il decreto sul riconoscimento delle virtù eroiche del Servo di Dio dottor Marcello Candia, che diventa Venerabile. Manca solo un “miracolo”, riconosciuto come tale, per la beatificazione. Questo è il tempo delle preghiere per chiedere grazie per sua intercessione. Marcello è sepolto nella sua chiesa parrocchiale dei Santi Angeli custodi in via Colletta a Milano, in un semplice ma solenne mausoleo, per iniziativa della Fondazione dott. Marcello Candia, che ha sede nei locali della parrocchia.

Quando Marcello Candia, a Dio piacendo, verrà elevato alla gloria degli altari, sarà un santo tipico del nostro tempo: industriale di successo, ha dimostrato che anche un ricco può diventare un santo, usando i  capitale e le tecniche manageriali non per servire i propri interessi, ma per il prossimo più povero e abbandonato. La biografia di Marcello Candia: P. Gheddo, “Marcello dei Lebbrosi ”, Prefazione di Giorgio Torelli, De Agostini Novara, 5° edizione 1994, pagg. 328 + 32 pagg. di fotografie, Euro 20. Il Card. Carlo Maria Martini ha scritto: “Suggerisco la lettura di Marcello dei Lebbrosi. Emergerà non solo la commovente storia della sua santità, ma anche la geniale intraprendenza con cui la carità ha animato la vita sociale milanese”. Il volume, purtroppo, è praticamente esaurito.

Padre Gheddo sul Blog (2016)

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