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Intervista a mons. Cesare Bonivento vescovo di Vanimo

Cari amici di Radio Maria, questa sera vi presento la missione alle genti proprio dove nasce la Chiesa: la diocesi di Vanimo in Papua Nuova Guinea, della quale dal 1992 è vescovo mons. Cesare Bonivento, missionario del Pime della diocesi di Chioggia. L’ho intervistato a lungo qui a Milano, quando nell’ottobre scorso è tornato per un po’ di vacanza dalla lontana isola dell’Oceania.

La mia catechesi si svolge in tre punti:

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  1. “Quando il Papa comanda bisogna obbedire”: da Watuluma a Vanimo
  2. “L’entusiasmo della fede nei miei cristiani”
  3. Un seminario diocesano esemplare in Papua Nuova Guinea

I) – “Quando il Papa comanda bisogna obbedire”

La Papua Nuova Guinea è estesa una volta e mezzo l’Italia ma con solo 6 milioni di abitanti. Una nazione che è nata nel 1975 quando è diventata indipendente dall’Australia, quindi è ancora ai primi passi della vita civile e religiosa. Nella letteratura inglese la Png è definita “the last unknown”, l’ultima parte del mondo inesplorata, la frontiera estrema della terra e anche dell’umanità, perché i popoli che la abitano, con circa 700 lingue ed etnie diverse sono giunti al mondo moderno quasi direttamente dalla preistoria.

Infatti il ministro degli esteri del primo governo della PNG, Albert Maori Kiki (1931-1993), ha scritto un libro intitolato “Ten thousand years in a lifetime”, “Diecimila anni nello spazio di una vita”: lui stesso era nato nel tempo della preistoria e in pochi decenni si è ritrovato nel mondo moderno.

La prima missione del Pime in Oceania (1852-1855)

La Papua Nuova Guinea è un “paese cristiano”, almeno così è scritto nella Costituzione nata dopo l’indipendenza ed è vero nel senso che la maggioranza dei papuani sono battezzati dalle molte Chiese protestanti e anche sette nate dal cristianesimo; ma i non cristiani animisti sono ancora molti e anche fra quelli che si dichiarano cristiani, il Vangelo non è penetrato in profondità. Tre sono i segni che indicano questo:

  1. La fede in Cristo, che spesso è forte ed entusiasta, si è sovrapposta alle credenze, superstizioni e mentalità pagane, che sopravvivono.
  2. I costumi sono ancora in buona parte dipendenti dall’antica cultura pagana.
  3. È facile e frequente il passaggio da una Chiesa all’altra, da una setta all’altra.

Mons. Bonivento dice: “Sono stato parecchie volte in Birmania a anche là il cristianesimo è iniziato più o meno nella seconda metà dell’Ottocento. Però le comuntà cristiane hanno maggior solidità e tradizione cristiana che in Papua, forse perché, vivendo in un paese buddhista, i cristiani sono stati quasi obbligati a compattarsi di più per avere una precisa identità. In PNG il cristianesimo non è nato nel confronto e anche nella persecuzione con una grande religione, si è sovrapposto alle antiche credenze e costumi. Il vero confronto viene adesso con le sette, che sono spesso anti-cattoliche e creano una grande confusione, e il mondo moderno laicizzato, materialista e trasgressivo della morale cristiana.

“Però, continua l’amico Cesare, vicino ad un’Asia massicciamente pagana, l’Oceania è un continente cristiano e questo, strategicamente, ha la sua importanza. Oggi il compito della Chiesa è di educare e formare cristiani adulti, che possano assumere la responsabilità di portare avanti il Vangelo e la vita cristiana nel loro paese. La realtà cristiana della PNG è piena di promesse, ma ha anche molte debolezze”.

Cesare Bonivento è nato a Chioggia nel 1940 ed è diventato sacerdote del Pime nel 1965. Veniva dal seminario diocesano di Chioggia in II teologia e da giovane sacerdote è stato con me redattore di “Mondo e Missione” per alcuni anni, poi i superiori l’hanno mandato all’Università cattolica di Friburgo in Svizzera dove si è laureato in teologia nel 1972, con specializzazione nei temi della missione alle genti. Tornato in Italia ha fondato l’ISA (Istituto Studi Asiatici) e insegnava nel seminario teologico del Pime a Milano. Poi è stato a Roma come segretario per la formazione della Direzione generale dell’Istituto e infine ha insegnato missiologia e catechesi all’Università Urbaniana.

Nel 1978 il prefetto di Propaganda Fide, card. Rossi l’ha incaricato di fondare l’Istituto per i catechisti, che dura tuttora: Istituto per la Catechesi Missionaria,così padre Cesare ha iniziato l’ “Istituto per la Catechesi”, nel quale studiano i catechisti mandati dalle missioni. Quando nel 1980 è stato destinato dal Pim a iniziare la missione nella Papua Nuova Guinea, era direttore dell’Istituto di Catechesi e vice decano della facoltà di Missiologia all’Urbaniana.

Nel 1980 ha ricevuto il Crocifisso dal Papa Giovanni Paolo II e nel febbraio 1981 è partito per gli Stati Uniti per studiare l’inglese. Nello stesso febbraio 1981 veniva inviato in PNG il fondatore della missione, padre Giulio Schiavi, missionario del Pime che dal 1963 era in Bangladesh. Bonivento giunge a fargli compagnia nell’agosto 1982 dagli Stati Uniti e assieme iniziano e costruiscono la prima missione del Pime in PNG a Watuluma, nell’isola di Goodenough e l’altra missione di Bolu Bolu nella stessa isola. Così è nata la missione del Pime in Papua Nuova Guinea.

Cari amici, voi sapete che il Pime è stati fondato nel 1850 da mons. Angelo Ramazzotti a Saronno e la sua prima missione era proprio nelle isole che oggi fanno parte della Papua Nuova Guinea: Woodlark e Umboi. Una missione durata solo tre anni perché su sette missionari, uno è morto di febbri malariche, fratel Giuseppe Corti e l’altro è stato ucciso il beato padre Giovanni Mazzucconi. Propaganda Fide ha mandato il Pime in Borneo, in India e poi ad Hong Kong.

Più d’un secolo dopo, negli anni settanta, il nunzio apostolico mons. Andrea Montezemolo ha invitato il Pime a ritornare in Papua. Nel 1979 il superiore generale padre Fedele Giannini è andato a vedere e poi ha mandato me e nel 1980 ci sono andato con padre Giancarlo Politi che veniva da Hong Kong, visitando anche l’isola di Woodlark e varie isole della diocesi di Alotau, dove poi l’anno dopo sono andati padre Schiavi e padre Bonivento a iniziare ufficialmente la presenza del Pime.

Il “cuore” della presenza Pime in Papua Nuova Guinea è la missione di Watuluma sull’isola di Goodenough. Alle normali attività della parrocchia, oggi retta dal missionario indiano padre Berchman John Baskern, si accompagnano la scuola professionale dei Missionari Laici del Pime (Roberto Valenti e Mario Fardin), la scuola media e l’ospedale retti dalle Missionarie dell’Immacolata: un complesso unico nel panorama ecclesiale della Papua Nuova Guinea in ambiente rurale.
Watuluma è cresciuta in fretta grazie all’intensa collaborazione del Laboratorio Missionario “Beato Giovanni Mazzucconi” di Lecco. Tra i volontari, che si sono alternati nella realizzazione delle varie opere, la gente ricorda soprattutto la figura di Severino Mapelli, scomparso il 20 aprile 2006 a 75 anni, per lunghi anni maestro di vita e di lavoro per centinaia di ragazzi.

Primo: portare la pace dove c’è l’odio e la guerra

Nel 1992 padre Bonivento era parroco a Watuluma quando riceve la comunicazione che il Papa l’ha nominato vescovo di Vanimo e oggi dice: “Non sapevo nemmeno che esistesse la diocesi di Vanimo. Ma quando il Papa decide e comanda, aggiunge, non resta che obbedire e raccomandarsi al buon Dio che aiuti”. A Vanimo hanno lavorato diversi missionari del Pime, membri dell’Istituto o associati. Al momento c’è padre Francesco Raco, italo-americano che viene dalla diocesi di Kammameth in India, e poi diversi altri sacerdoti di varie nazionalità.

Quando il 10 maggio 1992 mons. Bonivento venne consacrato vescovo di Vanimo, era il terzo vescovo di Vanimo e ha preso una diocesi nata nel 1966, ma rimasta senza vescovo da quattro anni, in una situazione difficile anche perchè era invasa dai profughi che scappavano dalla provincia di Irian Jaya dell’Indonesia e ha dovuto affrontare avvenimenti drammatici che l’hanno portato a fare da mediatore fra la PNG e l’Indonesia. Mons. Cesare ricorda i suoi primi anni a Vanimo spesi anzitutto per riportare la pace. I guerriglieri si fidavano solo di lui, il governo papuano e quello indonesiano lo riconoscevano come mediatore “ma quanti fatiche e

quanti viaggi, aggiunge, alla capitale Port Moresby, nella città indonesiano di Jayapura e poi all’interno delle foreste dove i guerriglieri avevano i loro campi. Però, grazie a Dio, si sono ottenuti due risultati positivi:

  1. La PNG ha accettato i profughi indonesiani, ha dato loro delle terre e li ha sistemati sul nostro territorio papuano.
  2. I profughi si sono impegnati a non fare più la guerriglia contro l’Indonesia, che è inutile e letale per il popolo, in quanto l’Onu ha riconosciuto che Irian Jaya è territorio indonesiano”.

Chiedo a mons. Bonivento di presentarmi la sua diocesi. Ecco le sue parole: “E’ estesa 30.000 kmq., più della Sicilia o del Piemonte (ambedue 25.000 kmq.), che sono le due regioni più estese d’Italia, ma con soli 110.000 abitanti, dei quali circa un terzo cattolici, gli altri sono protestanti o ancora animisti. La Diocesi di Vanimo si può dividere in due parti: la parte lungo la costa dove le comunicazioni sono abbastanza facili; e quella del “bush”, il territorio dell’interno, dove ci sono montagne e foreste quasi senza alcuna strada. La costa è in maggioranza cattolica, anche se le sette si sono infiltrate, sono come piranha che vanno dove c’è la preda.

Invece nell’interno del territorio si è verificato il fenomeno opposto. I protestanti non più seguiti, e gli animisti, vogliono farsi cattolici. Migliaia di persone vogliono farsi cattoliche. Se noi avessimo sacerdoti, suore, catechisti e mezzi, li prenderemmo tutti. All’interno del territorio hanno in qualche modo sperimentato i protestanti, che però hanno abbandonato i loro fedeli, non li seguono da vicino come facciamo noi, con una rete diffusa di parrocchie e di opere.

I protestanti, arrivando prima di noi cattolici, hanno usato una tattica intelligente. Si sono estesi nell’interno e hanno messo l’etichetta ai vari paesi: “Questo è territorio protestante”. Naturalmente allora c’erano solo loro e la gente li ha accolti e adesso è difficile entrare in quelle zone, perchè c’è quella tradizione e poi bisogna mantenere la pace e l’accordo fra tutti. Però i protestanti sono statici, fanno poco o nulla per l’educazione, la sanità, lo sviluppo. Oggi tutti guardano alla Chiesa cattolica perchè sanno che con la chiesa e il parroco arriva la scuola, arrivano le suore, il dispensario medico e l‘ospedale, le attività sociali ed economiche.

Gli animisti sono tantissimi anche se spesso portano l’etichetta “protestante”, ma in grande maggioranza non sono battezzati, non partecipano alle funzioni religiose (molto meno dei cattolici). Sono gruppi che si riconoscono in quella denominazione, il pastore va a visitarli una volta ogni tanto, ma non hanno attività spirituali né di aiuto alla società, alla crescita umana dei fedeli.

L’ideale evangelico deve radicarsi di più nelle culture oceaniche, perché è venuto dopo e si è messo sopra alle radicate credenze che hanno secoli o millenni di vita. Tutti sono o si dichiarano cristiani, credono e amano Cristo, c’è una realtà cristiana bella, entusiasta, capace di grandi sacrifici e lunghe preghiere, ma non si sa fino a che punto è penetrata in profondità nelle mentalità, nei costumi, nelle credenze.

Le sette creano una grande confusione

Nella mia diocesi sono state contate 44 sette cristiane, sono da tutte le parti. Debbo dire che n questi tempi noi cattolici abbiamo subito delle perdite, ma i guadagni che abbiamo fatto sono molto maggiori. Vanimo è una città di frontiera con l’Indonesia, quindi vengono in molti ad investire soldi per la pesca, le miniere e altri prodotti locali, quindi ci sono anche membri delle sette che fanno propaganda facendo grandi promesse di guarigioni, di benessere. Molta gente è semplice e ci crede, in tutta l’Oceania le sette creano una grande confusione. Però la struttura della Chiesa cattolica è molto forte, con le scuole e tutto il resto. In città a Vanimo abbiamo avuto delle perdite, compensate con altri ingressi.

La città di Vanimo ha circa 18-20.000 abitanti, poi ci sono i villaggi intorno che sono tutti cattolici. Se vai nell’interno invece prevalgono gli animisti. Le sette, bisogna dire, sono poi quasi sempre ridotte come numero i fedeli, a volte si tratta di un gruppetto di 3-4-5 famiglie con un capo che ha certo carisma. Le nostre cerimonie e celebrazioni impressionano tutti, attirano anche i membri delle sette. Poi la Chiesa ha strutture forti, come le scuole, la sanità, la radio, il seminario. Penso che quest’ultima sia la più importante perché le sue attività culturali e formative danno identità e orientamento pastorale a tutta la diocesi. I musulmani sono pochi e isolati, non rappresentano un problema.

La Papua Nuova Guinea è ancora un paese molto giovane e in formazione, con tante etnie e lingue diverse. Chiedo a mons. Bonivento se nella sua diocesi ci sono lotte tribali e dice che l’arrivo delle Chiese cristiane è stato positivo per portare la pace. “In passato – dice – c’era odio fra le varie tribù che vivono nell’isola, che nasceva del fatto che ciascuna etnia, ciascun villaggio, doveva difendere se stesso. Non era razzismo, ma sopravvivenza. Non c’era lo Stato, non c’era nessuna autorità morale, la lotta, la guerra, gli assalti ai villaggi o alle capanne erano vita normale.

Quando sono venute le Chiese protestanti e quella cattolica, una delle primissime preoccupazioni è stata di pacificare le etnie. Il messaggio evangelico di perdonare, di andare d’accordo, che siamo tutti fratelli perché creati dallo stesso Padre che sta nei cieli, ha portato ad un cambiamento di mentalità e ad un’atmosfera di pacificazione. Oggi il governo vede bene che la Chiesa si diffonda fra tutti i popoli della PNG, perché ha sperimentato, che il messaggio di amore e di perdono ha una grande efficacia nel portare la pace, nel vedere tutti gli altri come nostri fratelli. Se non c’è il Dio unico e Padre e Creatore di tutti gli uomini, come si può vivere in pace? Trionfa l’egoismo dei singoli e delle tribù.

C’è un secondo motivo. In questo tempo di grande sviluppo economico, quando c’è l’assalto delle compagnie internazionali verso la PGN, che è ricchissima di minerali, di uranio, di oro, di petrolio, di legni pregiati. Ebbene, in questa situazione, la PGN è oggi il paese più assaltato dall’esterno per le sue ricchezze, non c’è dubbio che la presenza della Chiesa cattolica è positiva per il popolo papuano, perché lo unisce, lo istruisce, lo rende prudente e avveduto, diciamo lo coscientizza di fronte a tutte le presenze esterne sul nostro territorio. La Chiesa dà stabilità e continuità sociale e crea la base religiosa e morale per un popolo unito.

Perché le Compagnie, anche se si presentano col sorriso sul volto e i guanti di velluto, sono sempre avide, ingorde e prepotenti. E tutti capiscono che l’unica difesa è la Chiesa. Anche il governo, naturalmente, ma a volte nei politici prevale l’egoismo, il desiderio di guadagno immediato. La Chiesa esercita un ruolo importantissimo dal punto di vista dello sviluppo e della crescita umana dell’uomo papuano e dello stato della PNG.

II) “L’entusiasmo della fede nei miei cristiani”

In Italia e nell’Europa cristiana ci sono molti battezzati e un certo numero di fedeli “praticanti”, ma in genere possiamo dire che si è perso l’entusiasmo della fede che avevano nelle prime comunità cristiane, come leggiamo negli Atti degli Apostoli. Anche nei buoni fedeli che in Italia frequentano le nostre parrocchie ci sono molti valori e virtù, molta saggezza popolare ed evangelica, ma non viviamo la fede con lo stupore e la commozione che hanno i neofiti là dove la Chiesa oggi sta nascendo.

Anche i cattolici parlano nelle piazze”

Mons. Cesare Bonivento dice: “Un aspetto tipico e sorprendente della Papua Nuova Guinea è l’entusiasmo della fede in chi si converte a Cristo e la voglia di parlare, di comunicare la loro esperienza religiosa, l’amore a Cristo”. E racconta che le sette pentecostali (di origine protestante) “convertono” rapidamente molti tribali portando loro la Bibbia (o alcune parti di essa) e lasciando a tutti piena libertà di parola. Nelle assemblee delle sette, tutti parlano, predicano, proclamano la loro fede e i nostri cattolici a volte dicono: “Non possiamo partecipare così alle funzioni, perché parla sempre il prete”.

E’ vero perché la liturgia della Chiesa cattolica è più strutturata e in chiesa parlano solo il sacerdote o il diacono. Ma – dice Bonivento – “al di fuori della liturgia c’è spazio per tutti. Anche i cattolici vogliono parlare nelle piazze e io li incoraggio a dare la loro testimonianza di fede e di conversione a Cristo, dicendo sempre che non parlano a nome della Chiesa, ma per raccontare come mai si sono convertiti a Cristo”.

“Allora – continua Bonivento – i cattolici si organizzano e parlano nelle piazze, nei mercati, dove si raduna la gente. Questi gruppetti di cattolici portano con sé anche i suonatori, la banda musicale per fare un po’ di baccano, portano gli altoparlanti e poi predicano e la gente è contenta, vengono a sentirli. Io dico sempre a loro che la predicazione deve essere accompagnata dalla testimonianza della loro vita e dalla preghiera, altrimenti non funziona e può anche scandalizzare.

“Ma il dato fondamentale è che questa gente vuole esprimere se stessa, vuol comunicare agli altri la gioia di aver incontrato Cristo. Anche le donne, non solo gli uomini, predicano volentieri. C’è la direttrice delle poste di Vanimo, persona colta e laureata, che predica e racconta a tutti la storia della sua conversione a Cristo. Vengono a chiedere a me vescovo non il permesso, ma se non ho niente in contrario. Io dico di no ma faccio le raccomandazioni necessarie.

Non soltanto loro predicano volentieri, ma la gente è contenta di questo. Se vai nella capitale Port Moresby, trovi predicatori da tutte le parti. Un po’ lo fanno per i loro interessi, ma c’è anche l’aspetto positivo, anche nelle sette. Perchè parlano e predicano per convinzione personale: per loro l’incontro con Cristo e la conversione a Cristo è un fatto rivoluzionario che cambia la vita, sperimentano la dolcezza e la bellezza di aver trovato il Messia. In tutto questo c’è una componente fortemente emozionale, Gesù Cristo lo sentono profondamente e vogliono raccontarlo a tutti”.

Chiedo all’amico vescovo com’è la predicazione dei sacerdoti in chiesa, se deve adattarsi a questo modo di predicare non teorico ma molto concreto. Risponde: “La nostra predicazione in PNG è molto diversa da quella in uso in Italia, che è più teorica, là è molto pratica e fatta di episodi, di fatti, di esperienze. Nella predicazione viene usata molto la Bibbia e poi i fatti della vita. Ho dei sacerdoti che vengono dall’India e sono fantastici. Predicano e raccontano delle storie e la gente li ascolta volentieri. Quali storie? Storie bibliche o evangeliche, loro storie personali, fatti che tutti conoscono, parabole, episodi quotidiani, esempi di santi. Il Vangelo è trasmesso attraverso il racconto, la notizia, la vita. La predicazione dev’essere molto concreta. Tu non puoi andare in Papua con un documento della Chiesa o del Papa e leggerlo. No, devi trasmettere quel contenuto attraverso una storia, come Gesù quando racconta la parabola del buon samaritano o tante altre parabole”.

Per noi missionari è un modo di predicare difficile, bisogna adattarsi, faticare, mentre loro lo fanno naturalmente. Noi siamo abituati a trasmettere la verità teorica, loro parlano della vita e il Vangelo va incarnato in quel modo di predicare. Loro condividono con gli altri quello che hanno nel cuore, non hanno vergogna di parlare della loro esperienza religiosa, non hanno vergogna di appartenere alla Chiesa cattolica e di dire che sono devoti di Gesù e della Madonna. Per loro essere cattolici è un grande dono ricevuto da Dio e debbono trasmetterlo ad altri”.

Un vescovo “entusiasta” della sua diocesi

In Italia c’è una cultura secolarizzata – continua mons. Bonivento – per cui la fede è un affare privato, un hobby di cui non si deve dire nulla per non fare brutta figura. In Papua invece, molti cristiani sono proprio neofiti e la fede è la gioiosa scoperta della loro vita, che li rende entusiasti. Raccontano la loro conversione e lo fanno per condividere il dono ricevuto anche a quelli che non credono. Io dico sempre che devono anche dire che la forza per rimanere fedeli a Cristo e alla Chiesa la ricevono dai Sacramenti, dalla partecipazione alla S. Messa. Questo perché gli altri predicatori cristiani parlano contro i Sacramenti e noi dobbiamo raccontare come i Sacramenti della Chiesa sono la via attraverso cui lo Spirito Santo ci dà la forza per rimanere fedeli di Cristo. Bisogna ancora dire che nostri cattolici non predicano mai contro le altre Chiese o sette. Parlano di Gesù Cristo e della sua Madre, della loro conversione al Vangelo, ma senza attaccare gli altri cristiani. Mentre gli altri predicatori spesso attaccano la Chiesa cattolica.

Comunque, in generale, quello che accomuna tutti i papua che credono in Cristo è di comunicare agli altri la fede ricevuta come un dono. Credo che anche i cristiani d’Italia dovrebbero testimoniare la loro fede anche con la parola, oltre che con la vita. Cioè parlarne liberamente quando è opportuno e forse necessario, senza vergognarsi del Vangelo”.

L’amico mons. Cesare si dichiara “entusiasta della mia diocesi. E’ vero che le pecorelle del mio gregge hanno molti difetti e peccati, potrei farne un lungo elenco. Ma quello che mi consola è l’orgoglio di far parte della Chiesa cattolica. Hanno alle spalle la loro storia, sanno che la Chiesa qui è stata portata e fondata da stranieri, ma sanno anche che la fede cattolica e la Chiesa sono oggi l’unica speranza di questo popolo. Del governo e della politica in genere sono delusi. Sanno e vedono tutti i giorni che dove arriva il prete e la Chiesa c’è una novità benefica per la società, quindi hanno una tale stima e un tale orgoglio di far parte della Chiesa cattolica che è incredibile. E tutti mi chiedono: “Mandaci un sacerdote!”, perché sanno che con il prete arriva tutto il resto, le suore, i catechisti, la scuola, le novità sociali che migliorano la vita. Nei villaggi preparano loro la cappella, la casa del padre, strutture molto povere, per poter avere la Chiesa. Purtroppo abbiamo pochi preti e poche suore!

Abbiamo però i catechisti che sostituiscono i preti. Li prepariamo nel centro catechistico e pastorale diocesano e anche questo è un costo notevole perché dobbiamo portarli in aereo a Vanimo, stanno due-tre mesi e facciamo dei corsi e poi tornano a casa. Abbiamo il catechista “Prayer leader” che guida la preghiera nei villaggi e poi i catechisti più formati che vanno a visitare i villaggi, incontrano i cristiani e i non cristiani, sostituiscono bene il prete quando non c’è.

“Io ho parecchie zone nelle quali il terreno è già preparato per l’arrivo di un prete e delle suore. Loro preparano tutto e chiedono il prete. La Chiesa cattolica è stimata da tutti e a volte anche invidiata, perché sanno che quando parla il vescovo la sua parola è ascoltata e ha un peso. Il vescovo, dicono, non può dire bugie e io debbo stare attento quando vado a visitare i villaggi.

“Sono gente semplice, che ti prende alla lettera, quindi non posso sbagliare. Ad esempio, se ti chiedono di fondare la scuola in un villaggio e con prudenza dici: “I will think about” (ci penserò), per loro quella è già un’approvazione, non puoi più tirarti indietro. Sono esperienze che ho fatto più volte in vari casi come questo. Se il governatore dice qualcosa, non ci fanno caso, perché dicono che il governatore dice bugie. Ma il vescovo no, non può sbagliare.

La cosa bella è che la Chiesa cattolica è riconosciuta come autorità religiosa e morale anche da chi non è cattolico. In Europa si vogliono togliere i crocifissi dalle scuole e dagli ospedali e la BBC ha dichiarato che non diranno più: il III secolo dopo Cristo, ma il III secolo dell’era comune! Il confronto umiliante per noi cristiani!

L’unica prevenzione sicura contro l’Aids”

Una delle lotte più impegnative che si sostiene oggi nelle missioni è di aiutare la gente ad evitare l’Aids, che è diffuso anche in Oceania e nella PNG. Come tutti sanno, e nella nostra diocsi è stato sperimentato, l’uso del condom non serve contro l’Aids, anzi in qualche modo diffonde questo rischio dell’infezione, perchè pensano che col condom ne sono immuni e allora seguono il loro istinto. E’ una questione molto dibattuta.

Ci sono molte persone che si mettono a disposizione per andare in tutta la diocesi a propagare l’insegnamento della Chiesa, che richiama la fedeltà nel matrimonio, come unica e sicura prevenzione contro l’Aids. Ogni parrocchia ha i suoi gruppi di uomini e donne che si dedicano a questo e sono bene attrezzati con vari strumenti didattici, per far conoscere il metodo cattolico e convincere la gente della bontà di quanto dice la Chiesa. Abbiamo il Family Center e l’Heath Center che lavorano per questo e abbiamo anche i “Family Groups” parrocchiali che si impegnano nella lotta contro l’Aids, propagandando la fedeltà matrimoniale, visitando tutti i gruppi cattolici sul territorio.

Pare, bisogna dire “pare” perché qui le statistiche non sono precise come in Italia, che la nostra regione di Vanimo sia la meno intaccata in PNG dal flagello dell’Aids e questo lo sanno anche le autorità civili e a volte me lo dicono. Tutto è dovuto all’entusiasmo con il quale i nostri cristiani diffondono l’insegnamento della Chiesa a tutti. La cosa è risaputa in PNG e tutti ammirano la convinzione di questi laici che diffondono il metodo approvato dalla Chiesa per sfuggire l’Aids. Nota che questi gruppetti parrocchiali sono decine e decine che lavorano gratuitamente, senza alcun stipendio! Questo è proprio il servizio al Vangelo e al popolo papuano, secondo l’insegnamento della Chiesa e di Gesù Cristo.

Nasce una parrocchia e il vescovo non lo sa

Nella mia diocesi ci sono 12 parrocchie, due delle quali in città. Ogni parrocchia (in media 4-5.000 kmq., come la Liguria) ha molte cappelle e comunità cristiane disperse sul territorio, che i missionari visitano andandoci a piedi. Da Vanimo si va in aereo verso l’interno, poi bisogna proseguire a piedi. C’è anche un grande fiume, in alcune parti si può andare in barca. Non ci sono strade, solo sentieri che solo loro conoscono. Io vado in aereo nella missione centrale, poi proseguo a piedi. Il cavallo è pericoloso perché è tutta foresta, si usa solo in alcune praterie nell’altopiano centrale. Visito tutti gli anni le parrocchie e le missioni e sono facilitato perché uso l’aereo, che però costa molto”.

Le conversioni, grazie a Dio, ci sono, ma è difficile seguirle, formarle. Anche il catecumenato è poco organizzato, non è come ad Hong Kong dove ho ammirato il metodo, i contenuti, i tempi abbastanza precisi per ammettere i catecumeni al battesimo. Nella diocesi di Vanimo il catecumenato può durare un anno come tanti, fino a che il catecumeno è pronto e si decide. Non siamo legati ad uno schema, perché tutto dev’essere adattato ai posti, alla lingua, alla mentalità della gente. Abbiamo in media circa 1.200 battesimi l’anno. La difficoltà principale della diocesi sta nella scarsezza di sacerdoti e di suore (come diremo più avanti).

Anche il territorio della diocesi è difficile: una piccola parte in pianura lungo la costa, dove la vita delle famiglie e delle parrocchie può essere organizzata; e l’altra parte, maggioritaria, su ripide montagne e foreste. Ci sono parrocchie,come quella di Yapsei, che è chiusa dalla foresta e dai monti, si esce solo con l’aereo, a piedi no!

“Però, nonostante queste difficoltà, il Signore mi dà spesso la consolazione di toccare con mano l’azione dello Spirito Santo. Ad esempio, ho inaugurato una parrocchia della quale non sapevo nulla. In una parte della diocesi considerata “territorio protestante”, un gruppo di cattolici fervorosi lavorano per una Compagnia che viene dalla Malesia e disbosca la foresta. Vivono in un campo di baracche di legno con le loro famiglie, ma senza la chiesa. Così vanno dal datore di lavoro e gli dicono che hanno bisogno di una chiesa cattolica. Il datore di lavoro tergiversa un po’, poi capisce che la costruzione della chiesa è utile alla Compagnia, perché quando c’è la religione e la chiesa, viene il prete e la gente è più contenta, lavora meglio.

Il datore di lavoro, che è un protestante malesiano, costruisce la chiesa in legno, ma fatta bene, solida, elegante, bella” . Mons. Bonivento continua: “Sono andato in quell’accampamento e sono rimasto davvero meravigliato. Pensa che io, come vescovo cattolico, non avrei mai osato avventurarmi in quel territorio che i protestanti si erano riservati. Invece, nasce una parrocchia cattolica, proprio in una posizione centrale per il territorio, dalla quale si possono visitare facilmente molti villaggi. Comunque sono andato ad inaugurare la chiesa ed è stata una bella festa, sono venuti tutti, cattolici e protestanti, animisti e musulmani, non ho mai visto una chiesa così strapiena. Non passava più nessuno, bambini da tutte le parti. Una gioia dirompente. In quel buco nella foresta, dove sorge l’accampamento, dove non succede mai niente, la presenza di un vescovo in paramenti solenni e poi l’inaugurazione della chiesa ha messo tutti d’accordo.

“Dopo la Messa e l’inaugurazione, abbiamo fatto i discorsi e la consegna dei doni. Dopo il discorso del governo, arriva il discorso del proprietario di quella terra che era un uomo grande e grosso. Io avevo paura perché in Papua il problema della terra è complicato, conflitti e guerre di famiglie e tribali nascono spesso dai problemi della terra. Poteva dire che non era d’accordo e che dovevamo distruggere la chiesa. Infatti incomincia a dire: “Vorrei ricordare subito al vescovo, che questo è un territorio protestante. Io lo dico a tutti e anche al vescovo”. Io pensavo: qui va a finir male! Invece l’uomo continua: “Però dico anche che sono contentissimo che venga qui la Chiesa cattolica e se qualcuno ha qualcosa in contrario, venga da me e gli spiegherò perchè”. Gli applausi e le grida di gioia salivano al cielo”.

“Naturalmente il proprietario della terra è contento perchè quando arriva la Chiesa cattolica le cose vanno meglio per tutti, arrivano il prete e poi le suore che sono a servizio della gente. La Chiesa dà sicurezza, stabilità, continuità, educa i figli e cura i malati, porta la mediazione e la pace. Insomma, la situazione migliora in senso morale, ma anche educativo. Ad esempio, in quella nuova “parrocchia” i cattolici hanno subito fatto domanda alla società che gestisce i lavori di fare una scuola primaria, cioè elementare e media, per i molti bambini e ragazzi che ci sono nell’accampamento e anche per tutti i giovani che dei villaggi vicini senza scuola.

“Quando avremo questa scuola, fra un anno o due, la parrocchia diventerà un centro di penetrazione evangelica. Tutto questo mi ha convinto di una grande verità. Io vescovo non avrei mai potuto organizzare una cosa simile, non l’immaginavo nemmeno. Lo Spirito Santo ha agito attraverso dei buoni cattolici e ha portato il vescovo a ringraziare Dio per il grande dono di questa nuova parrocchia”.

         III)  Un seminario diocesano esemplare in P.N.G.

     Quando in un paese non cristiano la Chiesa è nella fase iniziale del suo cammino, una delle maggiori difficoltà è la scarsezza dei consacrati locali, preti, fratelli e suore, come si vede bene in Papua Nuova Guinea. I neofiti sono entusiasti dell’aver incontrato Cristo, ma mancano ancora di solide basi per una cultura e tradizione cristianae quindi per una consacrazione della propria vita al Vangelo e alla Chiesa. Nella tradizione del Pime, istituto missionario nato nel 1850 dai vescovi lombardi e poi del Lombardo-Veneto, la formazione del clero locale è sempre stata prioritaria nella missione alle genti. Lo stesso è successo nella diocesi di Vanimo.

         “Il seminario diocesano mio impegno primario”

      Chiedo all’amico vescovo Cesare come ha trovato la sua diocesi quando è diventato vescovo nel 1992: “Sono molto riconoscente ai Passionisti australiani, che hanno fondato la diocesi a partire dal 1960. Prima c’era qualche sporadica presenza di missionari SVD e poi Francescani che però non si fermavano a Vanimo. I Passionisti hanno fatto miracoli perchè era un ambiente molto difficile. Hanno fondato la Chiesa e anche dal punto di vista strutturale hanno costruito tanto. Poi sono arrivato io e ho avuto altre difficoltà e anche tante nuove possibilità. Ma nella Chiesa c’è stata continuità. Lo dico sempre ai miei fedeli: siamo riconoscenti e preghiamo per i Passionisti, che sono stati i fondatori della Chiesa locale di Vanimo”.

      Fin dall’inizio del suo episcopato a Vanimo mons. Bonivento ha capito che il problema numero uno era la mancanza del seminario diocesano. Aveva otto o dieci sacerdoti, ma tutti stranieri. E aggiunge: “Forse l’impegno più grande del mio apostolato a Vanimo è stato ed è il seminario. Ho cominciato col seminario minore e la scuola media (high school) e il 2011 è il secondo anno consecutivo nel quale la scuola media e il seminario sono dichiarati dal governo nazionale la miglior scuola media della PNG. La nostra scuola è molto apprezzata per i contenuti educativi e la disciplina. Ci siamo impegnati molto con la scuola, gli insegnanti, i testi scolastici, ecc. e questi, dopo vent’anni, sono i primi frutti.

     “Questo è anche un motivo di orgoglio per i nostri cattolici. Noi siamo stranieri e io debbo dire che non mi hanno mai fatto sentire che sono straniero. Però la mancanza di sacerdoti pesa e anche se non lo dicono, lo sentono. Allora, quando vedono il vescovo che si impegna per il seminario, allora capiscono che la Chiesa è lì, non per fare una colonia, ma per educare e lasciare a loro la guida della Chiesa locale. E siamo sulla linea d’arrivo. Attualmente ho un solo sacerdote diocesano, ma l’anno venturo incomincio ad ordinare i diaconi e poi tra qualche anno, spero, con la grazia di Dio, di avere 3-4 sacerdoti nuovi ogni anno, che in PNG è una cosa meravigliosa, perché soffriamo tutti molto per la mancanza di preti. In PNG  ci sono circa 600 sacerdoti, ma almeno la metà sono ancora stranieri. In diocesi ho venti preti, ma spero l’anno venturo di averne 22-23. Ho visitato recentemente molti paesi dell’Asia per trovare preti. Ho con me solo un prete italiano, padre Raco del Pime che viene dall’India, e poi preti indiani, indonesiani, filippini, argentini, birmani, europei. Tutte le diocesi della PNG sono impegnate a trovare preti, alcune sono più fortunate perchè in passato hanno avuto una fioritura di preti locali, che adesso diminuisce.

     ”Il governo ha favorito molto lo sviluppo delle scuole, ovunque vi sono scuole medie e licei, per cui il numero dei seminaristi è calato e anche quello dei sacerdoti. A Vanimo ho subito voluto il seminario minore e la sua scuola interna e poi il ginnasio superiore e il liceo con la scuola interna, con professori laici e tre suore indiane delle Suore della Presentazione di Como che sono bravissime; e poi professori laici scelti e trattati bene. Il seminario minore è nato per primo e ha un bell’edificio, mentre quello maggiore è ancora un po’ accampato. Ma la cosa migliore è che il seminario dà un orientamento a tutta la pastorale diocesana.

     “Ho due seminari, minore con 50 studenti e maggiore con una ventina e l’anno venturo a febbraio (2012) quando comincia l’anno scolastico (che finisce a novembre) spero di averne 22-23. E’ un numero molto grande, data la situazione della mia diocesi, una delle ultime nate in PNG. Il nostro seminario è diocesano, mentre i seminari regionali sono sotto il patrocinio di Propaganda Fide. Sono fortunato, perché ho cominciato quasi subito il seminario, appena entrato in diocesi.

     “La formazione dei sacerdoti è importante e non facile perchè negli ultimi tempi si è affermato in PNG il movimento che si definisce “My culture”: la PNG, dopo l‘indipendenza ha acquistato una coscienza nazionale in campo politico e culturale. Per cui, specie le persone colte, dicono spesso “my culture”, questa è la mia cultura e tutto finisce lì, cioè: sono orgoglioso della mia cultura e non ammetto nessun altro modo di vita. Il Concilio Vaticano II ha ammesso l’importanza delle culture locali, con le quali la Chiesa deve misurarsi de inculturarsi nei modi di vita della cultura locale. Nei seminari si è lasciato molto spazio con risultati che sono discutibili”.

      Cosa intendi per modi di vita?

      “Lo dico con molta prudenza. Ad esempio, ubriacarsi è un vizio comune tra la gente e sta diventando comune anche tra il clero e i seminaristi. Quindi, per essere uno di loro bisogna anche ubriacarsi, masticare la betel nut, la noce che si mastica e dà un certo eccitamento e fa sputare la saliva rossa. Io mi sono messo d’impegno a proibire queste abitudini: in un contesto formativo non puoi diventar prete se non ti mortifichi. Il seminario dev’essere un luogo di formazione alle virtù cristiane. E poi, il fumare o l’ubriacarsi non fanno parte della cultura locale, sono stati importati. Ma fanno comodo e si etichettano come “my culture”.

     “A questo aggiungi la tendenza di concedere ai giovani, nei seminari in PNG, una certa libertà che, nel tempo della formazione, non ha senso. Io non ho fatto niente di speciale. Ho iniziato i miei due seminari per seguire le indicazioni del Concilio sui seminari e ancor oggi noi agiamo in consonanza con le indicazioni della Chiesa.

     ”Un’altra cosa che ha fatto difficoltà ad essere introdotta è il padre spirituale. Il seminario deve avere un padre spirituale per poter dare ai seminaristi un orientamento in tutti gli aspetti della vita, in preparazione al sacerdozio. Dire ai seminaristi che debbono andare dal padre spirituale ogni 15 o al massimo ogni 20-30 giorni, all’inizio era una cosa che non capivano e rispondevano “mi save”, io so: mi save, mi save, mi save…. E’ un ritornello che sentivo spesso, adesso molto meno.

     “Oggi nei nostri seminari i giovani sono contenti e sentono che la loro vita sta prendendo un orientamento più preciso per diventare buoni sacerdoti. Così nel seminario minore, fin dall’inizio ho detto: “Questo è un seminario, non una High School qualsiasi. Chi ha qualche intenzione di farsi prete, venga, chi invece esclude in modo positivo di diventare sacerdote, non venga da noi”. Quindi la scuola ha acquisito una sua identità come seminario ed è diventato più logico e più semplice mettere certe regole sulla preghiera, sulla vita spirituale, ecc.

     “All’inizio abbiamo molto faticato a dare questa identità formativa al seminario minore, che era un’ottima scuola e molte famiglie volevano mandarci i  figli, Oggi è chiaro a tutti cosa è il seminario minore. E gli alunni che dal minore salgono al maggiore sanno che si preparano al sacerdozio, capiscono che debbono accettare una vita austera e mortificata, che debbono obbedire, pregare, studiare, ecc. Capiscono che per diventare sacerdoti, con l’aiuto di Dio  debbono fare delle rinunzie, dei sacrifici e vanno avanti solo se sono disposti a questo”.

      Ti hanno criticato per questa tua linea formativa?

     “Certo, era inevitabile. A coloro che mi criticano rispondo che non ho fatto altro che seguire le indicazioni della Chiesa e del Concilio Vaticano II, in particolare il Decreto conciliare sulla formazione sacerdotale “Optatam totius”. I ragazzi lo sanno e va avanti chi con sincerità vuol vivere quelle norme, quello stile di vita. Altrimenti, puoi anche avere dei preti formati in qualche modo, ma poi ti penti di averli ordinati perché non danno buon esempio.

     “E dico anche che, a parte il problema morale e spirituale, il prete  è una professione e tutte le professioni hanno le loro norme e regole da osservare. Il pilota dell’aereo, ad esempio, non può bere, se gli piace il vino o la birra e si ubriaca, non può diventare pilota e se lo è già gli tolgono la patente. Possibile che per i preti non si riesca a pretendere la stessa severità? Noi in seminario dobbiamo educare a questo, dare ai giovani una precisa identità e coscienza del sacerdozio e dei sacrifici che questa professione, questa missione richiede.

     “La grande mancanza nel mondo moderno, rispetto ai giovani, penso che sia la mortificazione, il sacrificio, la rinunzia. Il prete che non sa sacrificarsi non fa ua buona missione. Noi tentiamo di educare a questo e i giovani ci seguono. Anche il discorso che alcuni fanno che il sacerdote dev’essere inserito nella vita del mondo moderno è un discorso giusto, ma va inteso cum grano salis. Ci vuole inserimento e ci vuole separazione dal mondo. Il prete non è un eremita, ma non è nemmeno un giovanotto o un uomo come gli altri”.

     Hai fatto il tuo seminario e hai ottenuto, con l’aiuto di Dio, un certo risultato positivo. Tu pensi che questo abbia influenzato gli altri vescovi?

     “Influenzati certamente. Ho detto ai vescovi di non mandare i loro seminaristi nel mio seminario, ma di farsi il proprio seminario A volte dicono che io ho molti soldi e io rispondo che, se uno s’impegna, i soldi li manda il buon Dio. Ma il dato fondamentale è questo: non ho avuto paura di iniziare questa linea formativa, non ho avuto paura di fare brutta figura e di sentirmi criticato. Sono andato avanti perché questo è quel che vogliono la Santa Sede e il Concilio.

     “E poi dico che ho visitato tutte le Chiese dell’Asia vicine alla nostra: Indonesia, Filippine, India, Birmania, ecc.  Tutte queste Chiese e diocesi hanno il seminario minore e anche i religiosi hanno il seminario minore. Il problema è che noi siamo stati fortemente influenzati dall’Australia, che a sua volta è influenzata dalle Chiese d’Europa che si considerano progressiste. Adesso parecchi vescovi si pentono, ma ricostruire uno stile severo di seminari secondo il Concilio non è facile”.

     La tua diocesi è l’unica delle 19 diocesi della PNG con il seminario minore?

     “Sì, l’unica, perché 7-8 anni si sono aboliti i seminari minori inter-diocesani che esistevano, fidandosi delle scuole medie statali (High School).  Allora dicevano: queste scuole medie sono alternative ai nostri seminari minori e hanno abolito i seminari! Adesso dalle scuole medie statali non vengono più vocazioni e gli alunni nel seminario maggiore nazionale diminuiscono continuamente.

     “Purtroppo adesso si fa fatica a cambiare, perché per fare un seminario che funzioni ci vogliono almeno dieci anni, creare una tradizione, trovare il personale giusto, dare norme e farle osservare, ecc. Il Signore mi ha aiutato. Il seminario di Vanimo oggi è considerato da tutti e fa riflettere. Quando il mio seminario minore di Vanimo, l’ultima città della PNG, da due anni di seguito è dichiarato dal governo la miglior scuola media del paese e dà vocazioni al seminario maggiore, ne ringrazio il Signore”.

      Gli alunni del seminario maggiore perseverano?

      “Sì, fino ad oggi perseverano perché sono educati bene nel minore e perché sono setacciati bene prima di arrivare al maggiore. Tutti i vescovi oggi sono angosciati da questa situazione e tentano loro iniziative private, ma che sono insufficienti. Guarda, il seminario o è fatto bene, o lo butti via. Io non so come ho fatto a resistere, perché erano tutti contrari alla mia linea, ma io ripetevo che era la linea del Concilio e della Chiesa oggi. Il seminario deve avere norme precise e bisogna educare gli alunni ad osservarle, se vogliono diventare preti.

     “Io dicevo: non chiudete i due seminari minori inter-diocesani perchè dopo non avrete più vocazioni nel seminario maggiore. Ed è quello che si è tragicamente verificato. Non abbiamo più preti, ad esempio, per fare i nuovi vescovi.Al seminario teologico nazionale di Port Moresby ci sono 40 alunni per sei anni di studi e per 14 diocesi (poi c’è il seminario maggiore inter-diocesano di Rabaul per cinque o sei diocesi).  Quindi in media ogni diocesi non ha nemmeno un prete all’anno!”.

       E’ difficile la formazione al celibato?

     “Direi di si’ perche’ avere una discendenza e’ importantissimo per chiunque in Papua New Guinea. D’altra parte c’e’ un altro dato molto importante che non va sottovalutato: la gente non accetta un sacerdote che non sia celibe. Il sacerdote che avesse una doppia vita viene decisamente rifiutato dai fedeli. Cio’ e’ indubbiamente un elemento che aiuta la formazione al celibato”.

  Per la carenza crescente dei sacerdoti, qualcuno ipotizza l’idea di uomini sposati che possano esercitare il ministero sacerdotale. Anzi dicono che non c’e’ nessun impedimento teologico tra sacerdozio e matrimonio. Tu cosa dici?

     “Dire che tra matrimonio e sacerdozio non c’e’ alcun impedimento teologico è smentito da tre fatti storico-teologici a favore del celibato o della continenza nel caso di uomini sposati: l’insegnamento degli Apostoli ricordato da 1 Tim, 3,1-8, Tit, 1, 1-7, 2 Ts 2,15; l’insegnamento dei Padri della Chiesa dei primi sette secoli; e la disciplina della Chiesa universale dei primi sette secoli che ha sempre concesso il sacerdozio o ai celibi o agli sposati che promettevano la continenza sacerdotale.

     “Questa disciplina ecclesiastica e’ stata ribadita  dal Concilio di Elvira del 306, e da quello di  Cartagine del 392 e da innumerevoli altri sinodi e Concili della Chiesa dei primi sette secoli. Essa e’ stata sottolineata dall’insegnamento esplicito di Papa Siricio I, Innocenzo I, Leone Magno e Gregorio Magno. Per di piu’ questa disciplina non e’ stata mai abbandonata dalla Chiesa Latina, anche quando la Chiesa ortodossa ha deciso col Secondo Concilio Trullano del 691 di seguire una disciplina diversa da quella della Chiesa di Roma. A questo proposito bisogna osservare che Il clero uxorato degli Uniati o Cattolico-Ortodossi non ha niente a che fare con gli sposati che nella Chiesa Latina hanno chiesto nel corso dei secoli di accedere agli ordini Maggiori: a questi ultimi la Chiesa latina ha sempre chiesto la continenza sacerdotale, vale a dire la separazione dalla moglie.

      “Fare delle eccezioni a questa disciplina piu’ che millenaria della Chiesa Latina, penso sia una decisione che solo il Papa e un Concilio Ecumenico possono prendere“.

      Quindi tu sei in favore del mantenimento del celibato?

     “Decisamente sì. Anzitutto per i motivi teologici ora accennati, ma anche per motivi pratici: primo fra tutti il fatto che la nostra gente non apprezzerebbe il sacerdote cattolico sposato, e quindi correremmo il rischio di avere ancora meno sacerdoti degli attuali. Il ricordare la possibilita’ di avere nella Chiesa latina i viri probati sull’esempio dei cattolico-ortodossi non fa altro che creare una grossa illusione e dei grossi problemi alla formazione dei seminaristi dovunque nel mondo”.

Padre Gheddo su Radio Maria (2012)

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