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Sono diventato sacerdote nel 1953 e fino al 1966 si celebrava in latino. Le prime parole del sacerdote mi commuovevano sempre: “Ad Deum qui laetificat iuventutem meam” (“a Dio che riempie di gaudio la mia giovinezza”); parole che esprimevano bene la mia felicità di essere prete, nonostante tutte le difficoltà di quell’età. Il sentimento dominante nella mia vita, fino ad oggi, è stata ed è la gioia, il senso di aver realizzato pienamente la mia piccola e povera persona donandomi al Signore Gesù, alla Chiesa e al Pime, ai popoli che hanno tutti bisogno di Cristo.

Giovane prete, redattore e poi direttore delle riviste del Pime a Milano, studiavo a Roma all’Università Urbaniana e vivevo con padre Giovanni Battista Tragella, che mi ha trasmesso la passione missionaria e degli studi missionari. Genovese severo e ruvido, di carattere non facile ma dalla grande fede e dall’acuta intelligenza, era stato due volte per poco tempo ad Hong Kong, ma aveva dovuto rinunziare alla missione perché soffriva di asma e non resisteva a quel caldo umido. Sacerdote della diocesi di Genova nel 1911, entrato nel Pime nel 1912 e lo stesso anno partito per la missione, ritorna in Italia definitivamente nel 1914: a 29 anni incomincia ad aiutare il beato padre Paolo Manna, direttore della stampa del Pime, e si rivela ben presto studioso profondo di temi missionari e teologici e scrittore efficace. Nei tempi in cui la Chiesa cercava le sue vie di rinnovamento prima del Vaticano II, Tragella era di tendenze teologiche liberali e “moderniste”, come dimostrano i suoi rapporti, ad esempio, con Ernesto Buonaiuti col quale intrattenne una frequente corrispondenza e che aiutò economicamente quando perse la cattedra universitaria per aver rifiutato di fare il giuramento di obbedienza al Partito Fascista.

Tragella lamentava spesso l’arretratezza degli studi teologico-biblici in Italia, la rigidità della Curia romana e l’eccessiva lentezza delle riforme nella Chiesa. Frequentava università e istituti cattolici tedeschi e della Svizzera di lingua tedesca (ha tradotto alcuni libri dal tedesco), era preoccupato per il dialogo ecumenico che non avanzava e a volte non condivideva quello che faceva Pio XII; ma diceva sempre che dobbiamo essere figli obbedienti del Papa e della Chiesa. Una volta mi confidò che, prima della proclamazione pontificia del dogma dell’Assunzione in cielo di Maria Vergine (1950), aveva avvicinato alcuni vescovi e cardinali importanti e poi scritto una lettera alla Segreteria di Stato per dire che giudicava inopportuna questa definizione del Papa, perché avrebbe peggiorato i rapporti ecumenici. Gli fu risposto che la decisione era già stata presa con l’approvazione di quasi tutti i vescovi cattolici e quindi di starsene tranquillo. Cosa che Tragella fece pur essendo un tipo battagliero che diceva sempre quel che pensava.

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Ho sempre desiderato di poter scrivere una biografia di Tragella, che ha lasciato un forte ricordo tra i missionari del Pime, come fondatore degli studi missionologici in Italia, direttore di “Le Missioni Cattoliche” (oggi “Mondo e Missione”), storico e artefice dell’Archivio generale dell’Istituto, preziosa miniera di documenti, testimonianze, ricordi dei missionari. Col difficile carattere che aveva, ebbe una vita piena di contrasti, di umiliazioni, di fallimenti e poi di malattie, di sofferenze: ma era sempre ottimista e pieno di coraggio. Negli anni dal 1954 al 1958 a Roma servivo la S. Messa a padre Tragella, che iniziando la celebrazione diceva: “Ad Deum qui laetificat iuventutem meam”. Allora aveva poco più di 70 anni, ma era invecchiato nell’aspetto. Una volta gli dico: “All’inizio della Messa lei dovrebbe dire: “Ad Deum qui laetificat senectutem meam” (la mia vecchiaia). “Tu non capisci niente!” risponde (era una delle sue frasi abituali): “La giovinezza che Dio dà non è quella del corpo, ma dell’anima. Il corpo invecchia, ma la gioia di essere prete ce l’hai a trent’anni e ancora di più a settanta!”.

Oggi che i settanta li ho passati anch’io, capisco che il mio indimenticabile Tragella aveva ragione! Quando si parla di vocazioni al sacerdozio (o alla vita consacrata), bisognerebbe sempre presentare questo aspetto positivo della scelta per Dio: è bello fare il prete, è bello fare il missionario. L’ha promesso Gesù a chi sceglie di seguirlo radicalmente donandogli tutta la sua vita: “Avrete il cento per uno in questa vita e poi la vita eterna” (Marco 10, 30; Luca 18,30).

Piero Gheddo

dicembre 2006

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