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Padre Clemente Vismara (1897-1988), missionario per 65 anni in Birmania, viveva fra 200-250 orfani e orfane che raccoglieva nei villaggi spopolati dalla guerra o dalla fame. E’ stato da poco beatificato. La EMI ha pubblicato “Il Santo dei bambini” (pagg. 158, Euro 10,00), con 44 racconti di Clemente sui suoi orfani e una lunga introduzione sul suo metodo educativo. E’ un buon regalo natalizio per i giovani, ma piacerà anche agli adulti. Il suo metodo educativo era di dare grandi ideali ai giovani e poi lasciarli liberi di realizzarli a modo loro; ed era basato sull’amore gratuito, tenerissimo. Vismara rispettava il bambino nelle sue libere scelte, nella sua maturazione psicologica e nel cammino di fede. Si mette sullo stesso piano dei suoi piccoli; è anche lui un poveretto, un orfano. Se un bambino gli dice che non ha più famiglia lui replica: “Anch’io sono come te, non ho più nessuno. Vieni, ci vorremo bene”.

  La vera novità evangelica di padre Vismara, nel mondo pagano in cui è vissuto, è stata di amare senza pretendere di essere amato, donare senza aspettarsi riconoscenza. U Sai Lane, testimone buddhista al suo processo di canonizzazione e grande amico di Vismara a Mongping, ha dichiarato: “Quando gli dicevo: ‘Tu dai da mangiare a tanti bambini, ma quando diventeranno grandi, loro non ti daranno niente’; lui rispondeva: ‘Io faccio questo non per me, ma solo per Dio. Io lavoro per Dio. A me basta amarli come li ama Dio. E se se ne andranno, non importa. Basta che siano brave persone, che credono in Dio, che pregano e cercano di essere buoni’”.

Non si capisce padre Vismara, se non si parte dalla sua grande fede in Cristo, che per lui non era solo un fatto intellettuale, ma un sentimento appassionato che si traduceva nell’amore al prossimo più povero e abbandonato. Questo libro si legge con interesse e anche commozione. Clemente è sempre originale, avventuroso, poetico, sa trasfigurare le realtà più miserabili fino a dar dignità alle persone più umili. Bellissimo e commovente l’articolo in cui racconta che un padre disperato gli vende la sua piccolissima bambina, poi chiamata Angiolina: la quale era in “un mucchietto di cenci sudici e maleodoranti, ma nel mucchietto c’era qualcosa che si muoveva da sé”. Era Angiolina. Amorevolmente allevata ed educata dalle suore, ne viene fuori “una cuffia bianca di suora”. Eppure veniva “da un mucchietto di cenci! Cenci?! – commenta Clemente. – Cenci siamo un po’ tutti”.

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Possiamo dire che questi racconti sono il Vangelo incarnato nella vita del missionario, nuove parabole del buon samaritano. Ma non sono racconti di fantasia. Qui c’è un uomo, un eroe della prima guerra mondiale (tre medaglie) che ha realizzato il comandamento dell’amore datoci da Gesù. L’augurio è che si realizzi per tutti i devoti e i lettori di Clemente quello che lui diceva del missionario: “E’ una creatura fatta non per essere felice, ma per rendere felici gli infelici”.

Quand’è con i suoi piccoli, diventa il nonno affettuoso, parla loro come se fossero adulti. Gli portano un bambino di pochi mesi gravemente denutrito. Racconta: “A pizzico, a pizzico, gli misi in bocca un cucchiaio di zucchero. Non mi riuscì di farlo sorridere. Sicuro, bimbo mio – gli dico – la vita è seria, ma questo non lo sapeva tua madre, come lo puoi sapere tu? A ogni modo la carestia per te è passata, soffrirai di meno. Qui ci sono tre suore, ti faranno da mamma. E per incominciare a farti star bene, domani, che è S. Marco, ti battezzerò e ti chiamerò Marco”.

“Marco fu figlio di Dio per 4 mesi e mezzo, fu soldato di Cristo per un sol giorno, giacché gli amministrai la S. Cresima; ora da tre giorni, vive beato in Paradiso. Riposa in pace, Marco; tu hai sofferto tanto e non lo sapevi. Mai né baci, né carezze sfioravano la tua pallida guancia. Una suora ti cullava e tu non lo sapevi. Maternamente una bianca mano di vergine ti chiuse gli occhi e ti compose nella bara e tu non t’accorgevi. Sei volato in Paradiso e non lo sapevi. Prega per noi, Marco, prega per noi che ci par di sapere!”.

Ci sono dei racconti bellissimi, che mettono in risalto la sua fiducia profonda nella capacità di redenzione dei suoi orfani, che venivano da situazioni spesso disumane, intollerabili; non solo di povertà estrema, ma anche di degradazione a causa dell’oppio. Clemente vedeva in tutti l’uomo, la donna, creati da Dio “a sua immagine e somiglianza”. I suoi racconti dimostrano quanto diceva San Giovanni Bosco: “Non si può educare senza amare”. Dava la vita per i suoi “orfanelli” e quindi era nella situazione migliore per amarli, per condividere i loro pensieri e sentimenti, per capirli fino in fondo. Clemente trasmetteva anche senza volerlo i tratti caratteristici della sua personalità: l’amore alla vita e la gioia di vivere, prorompente e straripante pur nelle situazioni più drammatiche. I suoi ragazzi lo chiamavano “il prete che sorride sempre”. Pubblicando i suoi articoli, spesso mi sono commosso e mi son chiesto come si potrebbe caratterizzare tutta la sua vita: “Il santo dei bambini” o “Il santo della carità” o “Il santo della gioia” o “Il santo della Provvidenza”? Non è necessario dare una risposta, ma è solo per mettere in risalto questo sentimento di serenità e gioia che lui stesso infonde ai lettori dei suoi scritti.

Piero Gheddo

dicembre 2004

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