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Indonesia, Costa d’Avorio, Pakistan: i valori evangelici emergono e si affermano perché non esistono in altre culture. «Voi cristiani sapete parlare di pace perché avete il senso del perdono, del gratuito e dell’universale, cioè affermate il bene pubblico al di sopra di tutte le divisioni etniche, tribali, culturali, religiose».

In Italia si dice spesso che vi sono molte religioni e che l’una vale l’altra. Non è così. Lo dimostra il fatto che i popoli si orientano sempre più verso i valori espressi dal modello di Cristo. Nella Redemptoris Missio (n. 3) Giovanni Paolo II, come segno di «una umanità più preparata alla semina evangelica», nota l’affermarsi tra i popoli di quei valori evangelici che Gesù ha incarnato nella sua vita (pace, giustizia, fraternità, dedizione ai più piccoli). Si può aggiungere l’atteggiamento di Gesù nei confronti della donna e il valore del perdono, che è ostacolo quasi insormontabile per accettare il cristianesimo, in popoli nei quali la vendetta è un valore sacro (l’ho sentito diverse volte in Giappone e nei paesi dell’islam).

E’ evidente che i «valori evangelici» emergono e si affermano perché non esistono in altre religioni e culture. Nel tempo della globalizzazione, il fascino dei valori evangelici ricordati dal Papa orienta i popoli verso il Vangelo, come succede in Giappone dove spesso è quasi sempre citato come “best seller” dell’anno. Però la conversione religiosa a Cristo è altra cosa: la fede riguarda la coscienza di ciascun uomo.

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Nel febbraio 2003 in Indonesia (210 milioni di abitanti in gran parte musulmani) ho visto che quando scoppiano scontri e conflitti fra le varie etnie, il governo forma dei «comitati di pacificazione» che fanno incontrare i capi villaggio e capi clan per metterli d’accordo. Vengono sempre inseriti dei cristiani. Come mai, in un Paese islamico, i cristiani sono ritenuti testimoni credibili della riconciliazione e della pace? Una personalità islamica di Sumatra mi ha risposto: «Voi cristiani sapete parlare di pace perché avete il senso del perdono, del gratuito e dell’universale, cioè affermate il bene pubblico al di sopra di tutte le divisioni etniche, tribali, culturali, religiose».

Ho sentito dire molte volte, in Paesi non cristiani, che a parità di condizioni i cristiani sono più pacifici, più gioiosi, più umani, più evoluti di altri. Le Beatitudini, anche se non perfettamente vissute (siamo tutti peccatori!), indicano il cammino verso un umanesimo più autentico: convertendosi al modello di Cristo, l’uomo diventa più uomo e la donna più donna. In Costa d’Avorio, padre Giovanni De Franceschi, che vive da trent’anni fra i baoulé ed è autore di testi antropologici e linguistici, mi dice che il pagano vive la religione animista in un’atmosfera di terrore, sempre temendo che gli spiriti misteriosi lo colpiscano con una disgrazia, una malattia; che i suoi nemici o qualche stregone gli facciano il malocchio. «Sapessi – mi dice – il senso di liberazione che avvertono quando sinceramente si convertono a Cristo e capiscono che in Cielo c’è il Creatore e Padre amoroso che ci vuole bene, ascolta le nostre preghiere, ci aiuta e ci protegge: allora incominciano a vivere sereni, anche nelle difficoltà».

Nella pianura del Punjab pakistano sono rimasto alcuni giorni nel villaggio interamente cristiano di Kushpur, con circa 7.000 abitanti. Il parroco mi porta a visitare alcuni villaggi islamici vicini, abitati da gente della stessa etnia dei battezzati. Mi accorgo subito della differenza: il villaggio cristiano ha strade e case più pulite; le donne che si fermano, parlano e sorridono (impossibile altrove); la vivacità dei ragazzi e delle ragazze a scuola, nei giochi; l’unità delle famiglie che permette di promuovere progetti di sviluppo. Il livello di vita è decisamente più alto, non per una maggior ricchezza, ma per una diversa mentalità. Il parroco, padre Anthony Ryffin, mi dice: «Vengono gruppi di uomini da altri villaggi a visitare Kushpur, per rendersi conto di come sono libere le donne e gli uomini che lavorano. A volte dicono loro: “Ma voi siete sposati e avete figli. Perché lavorate ancora?”». Non ricordiamo più che la nobiltà del lavoro materiale è un altro dei valori portati dalla Bibbia e da Gesù: nella Roma antica i liberti non lavoravano la terra, ma gli schiavi. Gesù è l’unico fondatore di una religione che ha lavorato manualmente fino a trent’anni.

In Occidente si idealizzano culture e religioni dei popoli non cristiani. Si dice che hanno dei «valori» e certamente è vero; ma non si tiene conto della differenza abissale che passa fra culture cristianizzate e culture non ancora purificate dal modello e dalla grazia di Cristo. Il mondo greco-romano, che pure aveva raggiunto una nobile e raffinata cultura in molti campi (filosofico, giuridico, tecnico, artistico, letterario, ecc.), è stato purificato e capovolto dall’incontro col cristianesimo (basta leggere il capitolo 1° della prima Lettera ai Romani). L’Occidente cristiano ne è uscito profondamente cambiato, anche se poi, nel corso di due millenni, ha in parte tradito le sue radici ed oggi va rievangelizzato. Allo stesso modo, la vita tradizionale dei popoli non cristiani è segnata dal paganesimo: prevalgono mentalità conservatrici, strutture sociali ingiuste, rassegnazione e fatalismo, religioni disincarnate dalla vita. Ma soprattutto le culture «pagane» sono rivolte al passato, mancano del senso del progresso, non sono progressiste ma conservatrici. Il loro ideale è di conservare la società come l’hanno ereditata, perché l’età d’oro è nel mitico passato degli antenati. La Parola di Dio, al contrario, indica all’uomo una meta ben precisa: costruire il Regno di Dio che incomincia qui su questa terra.

Quando dico queste cose, documentandole più ampiamente di quanto posso fare qui, c’è sempre qualcuno che obietta: «Allora lei dice che noi cristiani siamo migliori di quelli che non credono o non hanno ricevuto l’annunzio di Cristo?». Rispondo: «Assolutamente no! Anzi, ritengo che noi cristiani, avendo ricevuto il dono della fede senza alcun nostro merito, abbiamo una grande responsabilità verso l’umanità intera: dobbiamo testimoniare con la vita l’amore e la gioia di Cristo,convertendoci dal nostro egoismo. Se non siamo testimoni del Vangelo, siamo moralmente peggiori di chi non conosce Cristo».

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«All’interrogativo: perché la missione? noi rispondiamo con la fede e con l’esperienza della Chiesa che aprirsi all’amore di Cristo è la vera liberazione. In lui, soltanto in lui siamo liberati da ogni alienazione e smarrimento, dalla schiavitù al potere del peccato e della morte. Cristo è veramente «la nostra pace», (Ef 2,14) e «l’amore di Cristo ci spinge», (2 Cor 5,14) dando senso e gioia alla nostra vita. La missione è un problema di fede, è l’indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore per noi».

(Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio, 7 dicembre 1990, n. 11).
Piero Gheddo
Il Timone – 2004

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