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Image by Carlo Armanni from Pixabay

Nel maggio scorso ho partecipato all’Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana a Roma, invitato come esperto della missione ad gentes. Erano presenti circa 280 vescovi, per discutere su «La Chiesa in missione: ad gentes e qui tra noi», tema stabilito al Convegno ecclesiale di Verona nell’ottobre 2006: «I vescovi intendono sviluppare un’ampia riflessione sulla caduta nelle Chiese particolari in Italia dell’appello a una rinnovata missionarietà, più volte formulato da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI».

Nella nota pastorale Cei dopo Verona (giugno 2007) si legge: «Desideriamo che l’attività missionaria italiana si caratterizzi sempre più come comunione-scambio tra Chiese, attraverso la quale, mentre offriamo la ricchezza di una tradizione millenaria di vita cristiana, riceviamo l’entusiasmo con cui la fede è vissuta in altri continenti. Non solo quelle Chiese hanno bisogno della nostra cooperazione, ma noi abbiamo bisogno di loro per crescere nell’universalità e nella cattolicità… Abbiamo molto da imparare alla scuola della missione. Chiediamo pertanto ai Centri missionari diocesani di far sì che la missionarietà pervada tutti gli ambiti della pastorale e della vita cristiana».

Il grande interrogativo al quale dall’inizio degli anni Settanta la Chiesa italiana tenta di dare una risposta è: come rendere missionaria la Chiesa italiana? Ebbene, da quei cinque giorni passati con i vescovi italiani ho tratto alcune conclusioni personali. Eccole, brevemente.

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In primo luogo mi ha edificato e consolato il clima di cordialità e condivisione in assemblea, nei gruppi di studio e durante i tempi liberi. Ascoltando molti vescovi che parlavano delle loro diocesi in modo accorato e quasi chiedendo un aiuto concreto, ho toccato con mano, se così si può dire, situazioni difficili nell’evangelizzazione che già conosco, ma di cui si avverte la drammaticità quanto più si scende nel concreto. Un vescovo dice: «Nella mia diocesi circa la metà dei preti che sono nella pastorale vengono da altre parti d’Italia o dall’estero». Un altro: «Se non avessi trovato un po’ di preti polacchi, africani, indiani, latino-americani, non saprei come fare, perché da circa vent’anni non abbiamo ordinazioni di sacerdoti diocesane; fino a qualche anno fa cinque parrocchie della diocesi erano affidate a congregazioni religiose, tre delle quali hanno dovuto ritirarsi per mancanza di vocazioni».

Tutti credono che lo Spirito Santo guida la storia e la promessa di Gesù – «Sono con voi tutti i giorni, fino alla fine dei secoli» – rimane sempre valida. In tutti questi discorsi, la speranza non manca mai. La Chiesa certo non crolla, ma può crollare la Chiesa che è in Italia, magari sostituita da altre più giovani e più entusiaste nella fede.

«Abbiamo molto da imparare alla scuola della missione», dice la nota della Cei del giugno 2007. Ma nei giorni trascorsi con i vescovi italiani, ho sentito parlare pochissimo della missione «alle genti»: le affermazioni di principio trovano difficoltà a scendere nel concreto dell’azione pastorale. Si dice, ad esempio, che dalle giovani Chiese «riceviamo l’entusiasmo con cui la fede è vissuta in altri continenti»; ma non ci si chiede perché c’è questo entusiasmo. Gli esempi sono tanti: la semplicità e concretezza della predicazione sempre riferita alla vita, l’integrazione dei movimenti in diocesi e parrocchie, la formazione missionaria (andare ai lontani) del cristiano, gli spazi d’azione di preti e laici abbastanza ben distinti, un forte senso di appartenenza alla Chiesa che sostiene un impegno «militante»…

Purtroppo, di queste realtà delle missioni anche la stampa e l’animazione missionaria parlano sempre meno in modo esplicito, per la confusione sul termine stesso di «missione» e «missionarietà» (cfr M.M., maggio 2007, pp. 26-29). È inefficace, non produttivo, parlare tanto di missionarietà della Chiesa italiana, se non si specifica che la missione ecclesiale è portare gli uomini e le donne a Cristo, non tanto fare azione sociale, politica o culturale. Per cui, quando i vescovi chiedono «ai Centri missionari diocesani di far sì che la missionarietà pervada tutti gli ambiti della pastorale e della vita cristiana», dovrebbero anche spiegare chiaramente che questo vuol dire soprattutto il primo annuncio di Cristo ai non cristiani e ai non credenti.

Piero Gheddo

novembre 2007

Pubblicato con il permesso del Pime
(18/7 R. Perin – Direttrice dell’Ufficio Storico del Pime)

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