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Cari amici di Radio Maria, quest’anno voglio presentarvi alcuni missionari che vivono situazioni particolari, per far capire come la missione alle genti è molto varia ed è vissuta da noi missionari con grande libertà di spirito. L’importante è che ci unisce la fede in Cristo e la fedeltà alla Chiesa e alla nostra vocazione missionaria. Tutta la nostra vita dev’essere orientata alla diffusione del Vangelo e all’annunzio della Buona Notizia di Cristo che è venuto a salvare tutti gli uomini. Vi ho già presentato padre Antonio Grugni missionario in India (dicembre 2010), padre Giorgio Bonazzoli missionario in Papua Nuova Guinea (febbraio 2011) e questa volta vi presento padre Silvano Zoccarato missionario per trent’anni nel Nord del Camerun e dal 2006 vive nella città di Touggourt, in pieno deserto del Sahara algerino.

La mia catechesi si sviluppa in tre parti:

1) La prima missione fra i tupurì in Camerun (1971-2006)

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2) Missionario nel deserto del Sahara (2006-2011)

3) Perché una missione fra i musulmani?

I Parte – La prima missione fra i tupurì in Camerun (1971-2006)

Padre Silvano è nato nel 1935 a Campodarsego (Padova), studia nei seminari del Pime, è sacerdote nel 1959 e dopo alcuni anni di lavoro per l’istituto, specialmente nel seminario di Treviso, è destinato alla missione del Camerun. Tre mesi di studio del francese a Parigi (oggi si studia un anno di lingua), arriva in missione nel 1971 e lavora tre anni ad Ambam, nelle foreste tropicali all’estremo sud del paese. Una bella missione perché i cristiani rispondevano bene alle cure pastorali e i non cristiani si avvicinavano a Cristo e alla Chiesa. Il sud del Camerun, che è la parte più evoluta del paese, oggi è in maggioranza cristianizzato.

Nel 1974 il Pime voleva iniziare una missione nel Nord Camerun che si diceva fosse in maggioranza islamico. Poi non era vero, anche nel Nord l’islam non è maggioranza nemmeno oggi. Padre Silvano arriva nella diocesi di Yagoua nel marzo 1974 e, dopo alcuni mesi con gli OMI (Oblati di Maria Immacolata), inizia una nuova missione a Guidiguis fra la tribù dei tupurì, allora ancora animisti. Ecco come lui stesso racconta l’inizio della sua missione[1]:

“Quando mi stabilii a Guidiguis andai ad abitare presso un cristiano che mi ospitò in una capanna accanto alla sua, anch’essa fatta di terra col tetto di paglia. Non potevo costruirmi una mia capanna perché non avevo ancora avuto dal capo villaggio il permesso di iniziare una missione. Ero solo un ospite e nessuno poteva mandarmi via. Due anni dopo potei costruire la capanna di mia proprietà e vissi il mio inserimento da amico, come uno del villaggio. Andavo a procurarmi il cibo e l’acqua, coltivavo un piccolo orto,imparavo la lingua della gente e celebravo la Messa da solo o con qualche cristiano di passaggio. Quello che mi univa a quei bravi contadini era l’interesse per i problemi comuni della vita e un po’ anche la curiosità di quello stare assieme. Una convivenza genuina e libera da interessi”.

La caratteristica fondamentale di padre Silvano è di aver avuto, fin dall’inizio della sua vita missionaria fra i “tupurì” nel Nord Camerun, allora quasi totalmente pagani, la tendenza a entrare in dialogo con la gente comune, non solo per imparare la lingua, ma per immergersi nella loro cultura, nei loro costumi e tradizione religiosa. Capiva che l’annunzio di Cristo è un dialogo e si svolge in un’atmosfera di comunione e di condivisione. Ha poi portato questa esperienza nell’incontro con i musulmani dell’Algeria.

“In quei primi tempi dovetti lasciare nelle casse i miei libri di teologia. La mia prima evangelizzazione in Camerun non fu la predicazione, ma l’amicizia e il contatto umano con tutti. Anche se non sapevo ancora bene la lingua tupurì, visitavo i malati, mi lasciavo avvicinare dai bambini, salutavo sempre, aspettavo le vecchiette che volevano darmi la mano, mi fermavo con gli uomini a chiacchierare, a bere birra di miglio. Tutto questo mi fece diventare presto amico i tutti. Alla sera visitavo qualche famiglia e stavo ad ascoltare i loro racconti e le storie del villaggio.

“All’inizio questo adattamento mi risultava pesante, ma sentivo che il Signore voleva cambiare molte cose in me e mi lasciavo portare dagli avvenimenti. Lo stare ore seduto e in equilibrio su uno sgabello grande una spanna era una sofferenza; il dormire nelle capanne un tormento, con insetti, topi, lucertole, ragni, a volte vicino al pesce affumicato che puzza; il cibo africano mi sembrava immangiabile: tutti mettono le mani nell’unica ciotola per prendere un boccone di polenta di miglio e lo intingono nello stesso sugo! Poi, a poco a poco, tutto questo è diventato parte di me e ha acquistato un senso: era il mio modo di dialogare e di fare l’esperienza dell’altro”.

“Dopo due anni che avevo iniziato la missione a Guidiguis, il vescovo di Yagoua mi incarica di fare la scuola per catechisti a Doubané (a due-tre km. da Guidiguis). La cosa più bella è che questi 17-18 catechisti con le loro famiglie vivevano nel centro mantenendosi col loro lavoro soprattutto agricolo, avevamo un grande terreno e lo coltivavano. La missione dava loro qualcosa, ma veramente poco. Erano tre anni di formazione pagata da loro. Io ero con loro, mangiavo con loro e mi adattavo al loro cibo poverissimo, polenta di miglio, erbe e poco altro. Li preparavo al loro importante lavoro con una formazione biblica, catechetica e liturgica e loro mi hanno insegnato molte cose sulla cultura e religione dei tupurì.

“E’ stata una bella esperienza perché erano giovani veramente ben intenzionati e pieni di buona volontà. Quest’anno sarà ordinato prete del Pime il diacono Adolfo, figlio del mio collaboratore nella direzione del Centro di formazione dei catechisti. Dal 1974 fino al 2003 sono rimasto sostanzialmente sia a Guidiguis che a Dubané.

“Quando arrivai a Guidiguis, ho trovato cinque o sei cristiani che pregavano sotto un albero, venivano dalla parrocchia di Touloum che li aveva già preparati. Li battezzai nel Natale 1975. Nel gruppo c’era un uomo sordo, cieco e muto e gli altri mi dicevano; “Conosciamo la sua vita. Può essere battezzato”. E’ Dio che parla e prepara i cuori. “A Guidiguis sono stato il primo a celebrare la Messa sotto un albero. La Chiesa nasceva proprio sotto il miei occhi. Con altri padri del Pime, Piergiorgio Cappelletti, Mario Frigerio, Giuseppe Parietti, Giovanni Malvestio e altri, al Nord facevamo il primo annunzio di Cristo, perché in quella parte della diocesi di Yagoua, abitata dai tupurì, non c’era mai stata missione.

“La nostra pastorale era tutta centrata sul catechista. Se avevi un catechista bravo, ben formato, allora io completavo il suo lavoro, che era importante per formare i nuovi che vengono dall’animismo, cioè i neofiti, e prepararli al battesimo. A quel tempo (1975-1980 e anni seguenti), la missione viveva l’entusiasmo iniziale di quando nasce la Chiesa, per cui il battezzato stesso diventava missionario con la sua vita e la sua parola. In quel periodo era ancora forte la distanza o la differenza fra cristiano, animista e musulmano. I cristiani erano segni di attrazione alla fede, punti di riferimento per i non cristiani. Dopo, con l’aumentare del numero dei fedeli e col passare del tempo, questo entusiasmo iniziale diminuisce e a volta quasi scompare. Seguire Cristo richiede eroismo e costanza.

“Un’altra cosa che vorrei mettere in risalto è il rapporto che ho vissuto, che abbiamo vissuto noi del Pime con i sacerdoti fidei donum delle diocesi di Vicenza (ero andato a parlare col vescovo perché iniziassero una missione diocesana nel nord Camerun), poi la diocesi di Como (che nel Sud erano arrivati prima di noi), di Treviso e di altre diocesi. Non solo aiutarli ad iniziare, ma poi collaborare. Ad esempio quelli di Treviso il tupurì l’hanno imparato da me e da altri del Pime. Diventavamo proprio fratelli. Questo rapporto con i fidei donum è stato molto bello.

“Il clero indigeno di Yagoua e del Nord Camerun è aumentato. Nei primi anni noi eravamo quasi gli unici preti, dopo 40 anni la situazione si è capovolta, i preti locali sono aumentati e noi siamo diminuiti, com’è giusto. Oggi le diocesi del Nord hanno un certo numero di vocazioni locali che ultimamente studiavano al seminario maggiore di Maroua col rettore padre Giovanni Malvestio.

“Io avevo anche la passione dello studio. Quando sono arrivato nel Nord Camerun nel 1974, ho vissuto con questo popolo tupurì, che viveva ancora come ai tempi passati. Le loro tradizioni culturali, linguistiche, religiose erano molto vive. Nella prima lettera che ho scritto dal Nord ai superiori del Pime dicevo: i primi missionari che mandate, scegliete uomini che abbiano voglia di studiare. Infatti io e altri abbiamo studiato seriamente la lingua tupurì e abbiamo prodotto il lezionario della Messa e altri testi sacri.

“La Bibbia invece è in guizigà perché i protestanti stavano già studiando questa lingua del Nord Camerun e padre Antonio Michielan, che a Parigi ha studiato la linguistica africana, si è impegnato con loro. Il padre Giuseppe Parietti sta pubblicando altri testi liturgici e il dizionario fulfuldé-francese, la lingua franca più conosciuta nel Nord Camerun e in tutta l’Africa sotto il Sahara. Il nostro gruppo nel Nord Camerun, oltre a fondare la Chiesa e curare il primo annunzio ai non cristiani, ha fatto anche un buon lavoro di studio e di pubblicazioni in tupurì, bguizigà e fulfuldé.

“I tupurì sono una grande etnia di circa mezzo milione di abitanti nel Nord Camerun e in Ciad, che sta avvicinandosi e convertendosi al cristianesimo. Vivendo con loro mi sono accorto che i nomi delle persone sono molto importanti, perché attraverso i nomi la persona esprime la famiglia e la linea di vita della tradizione familiare, cioè i valori profondi di quella cultura. Così anche i proverbi, che nelle culture senza scrittura tramandano la saggezza secolare di quella etnia. Ho studiato e pubblicato volumi sui nomi e sui proverbi, conosciuti e citati anche nelle facoltà di studi africanisti in Francia.

“Verso la fine della mia permanenza in Camerun ero arrivato a insegnare alle comunità cristiane i valori della loro cultura tupurì, perché in essa si trovano proprio quei “semi del Verbo” che il Concilio ha ricordato come punto di partenza per un dialogo interreligioso. Tre soprattutto:

1) Il forte senso della presenza di Dio nella vita dell’uomo. Tutto viene da Dio, tutto dipende da Dio, questo lo sentono fortemente, per cui pregano quel Dio che non conoscono in ogni circostanza triste o lieta della vita. Qualunque cosa facciano, pregano, offrono sacrifici a Dio.

2) Il secondo è il senso della vita che esplode in danze frenetiche nelle feste del matrimonio, della nascita e perfino nella “festa” della morte. Molti popoli soffrono ancora per la povertà, le calamità, e le ingiustizie, ma continuano a credere nella forza e nella gioia della vita. Davanti a certe mamme, mi chiedo dove trovino ancora la pazienza e la fiducia.

3) Il terzo è il senso dell’altro. Se una famiglia qualunque sta mangiando e arriva un altro gruppo di persone in cammino, li ospitano subito e lasciano a loro tutto il cibo che avevano preparato. Questa ospitalità abrahamitica, che si trova spesso nell’Antico Testamento, è una preparazione a Cristo.

“Questi valori mi hanno impressionato e ho pensato che se avessi dovuto iniziare la missione in questa o altre etnie non ancora toccate dal Vangelo, per prima cosa avrei imparato la lingua, i nomi, i proverbi e i loro racconti, per rendermi conto dei valori che in quella etnia erano vivi. E partendo da queste basi da Antico Testamento avrei annunziato la novità di Cristo, che non abolisce le culture e le religioni, ma le purifica dal peccato e le innalza con la sua vita, morte e risurrezione. C’è ha ancora un lungo cammino da compiere per giungere ad un’autentica incarnazione del messaggio in quelle culture che, come dice il Vaticano II, sono una preparazione all’incontro con Cristo.

II Parte – Missionario nel deserto del Sahara

La missione del Pime in Algeria nasce nel 2004, quando il vescovo di Laghouat in Algeria, mons. Michel Gagnon dei Padri Bianchi, invita il Pime a prendere una missione nella sua grande diocesi sahariana (più d’un milione di kmq.), “iniziando una presenza missionaria ad Hassi Messaoud, cuore della produzione petrolifera algerina, che conta una popolazione locale di circa 30.000 abitanti e 3.000 stranieri di 40 nazionalità diverse, dove c’è una delle due chiese aperte al pubblico della diocesi”[2]. Il vescovo chiede tre padri, uno sui 70 anni, uno sui 50 e uno sui 30. In quell’anno padre Zoccarato era in vacanza in Italia dal Camerun e incontrando il vicario generale padre Luigi Bonalumi gli dice: “Per il padre di 70 mi offro io”, infatti nel 2005 compiva i 70 anni. Un anno dopo (2006), mentre era tornato in Camerun, i superiori prendono sul serio la sua offerta e lo destinano in Algeria.

Le Piccole Sorelle nel “quartiere dei ladri”

Così, con molta semplicità, nasce l’avventura apostolica del Pime in Algeria, fra non pochi contrasti, perchè i missionari dell’Asia avrebbero scelto gli inviti di vescovi della Corea, oppure di impegnare altro personale nell’interno della Cina, dove già vi erano alcuni del Pime; e i missionari in Africa, specie in Guinea Bissau, avrebbero preferito accettare l’invito di un vescovo italiano (mons. Angelo Dal Corso di Saurimo) in Angola, anche questa ex-colonia portoghese con grandi prospettive di lavoro missionario e di conversioni (gli angolani sono cattolici per circa il 60%).

Ma l’intenzione più volte espressa del superiore padre Gianni Zanchi e della direzione generale era di aprire una nuova presenza fra i musulmani che desse all’istituto l’idea di un modo nuovo di essere missionari, non più tanto nel fare, ma nell’essere. La presenza in Algeria è un modo diverso di fare missione, fra i musulmani ma valido per tutti i missionari fra i popoli non cristiani: non più la missione del fare, predicare, convertire, battezzare, costruire, curare, aiutare i poveri, insegnare; ma la missione dell’essere come Cristo per annunziarlo con la vita. Quindi richiamare a tutti i missionari la preghiera, la meditazione, la contemplazione, l’imitazione di Cristo. Senza l’intimità con Cristo, non c’è missione.

Padre Silvano arriva in Algeria il 23 settembre 2006 e un anno dopo, nell’estate 2007 giungono gli altri due missionari, padre Emanuele Cardani (diocesano di Novara associato al Pime) e padre Davide Carraro. Emanuele, già fidei donum in Ciad, parlava bene francese e ha trascorso un anno negli Stati Uniti per imparare l’inglese, mentre padre Davide (ordinato sacerdote nel 2006) era a Parigi a studiare il francese. Poi Davide è andato in Egitto a studiare l’arabo classico, Emanuele è rimasto un po’ con Silvano, poi ha iniziato il suo apostolato nel deserto ad Hassi Messaoud, per l’assistenza religiosa al personale dei pozzi petroliferi.

Appena arrivato in Algeria padre Silvano passa tre mesi con i Padri Bianchi a Wargla, periodo che, dice, “è stato per me un vero noviziato, con molta fatica per adattarmi, a 70 anni, ad un nuovo ambiente, ma anche una grande ricchezza, soprattutto perché c’era un padre anziano che era la storia dell’Algeria incarnata dal 1950 ai nostri tempi. Avevo già letto molto sull’Algeria, ma quel padre Denis, che è ancora sul posto, dice: “mi insegnava tante cose. In quei tre mesi, oltre allo studio dell’arabo, ho avuto la fortuna di imparare dal vivo la storia dell’Algeria e della Chiesa in Algeria, mi sono ambientato anche culturalmente. Soprattutto quei tre mesi mi hanno fatto comprendere la complessità del popolo algerino e delle situazioni sociale e politica del paese. L’Algeria è complessa anche per la sua identità: ha un’identità occidentale, ma anche arabo-musulmana. L’arabo è l’unica lingua ufficiale del paese, il francese è ancora parlato al Nord, ma nel deserto dove sono io no, cioè quasi niente”.

Dopo questi tre mesi padre Zoccarato va ad abitare nella residenza dei Padri Bianchi a quel tempo senza sacerdote a Touggourt, una città di circa 80.000 abitanti in pieno deserto, dove dal 1950 vivono le Piccole Sorelle del De Foucauld. Racconta: “Ho avuto un secondo noviziato di introduzione all’Algeria. Ho continuato a studiare l’arabo e ogni mattino andavo, come ancor oggi vado, dalle suore a celebrare la Messa, camminando per circa due chilometri. Mi fermo per colazione. Molto vivo il ricordo di suor Maddalena, che ha trascorso tutta la vita a Touggourt ed è diventata un personaggio famoso e benvoluto. Le suore sono a servizio della gente, specialmente delle famiglie più povere e abitano in un quartiere periferico, che era chiamato “Il quartiere dei ladri”, perchè i beduini facevano a volte qualche furtarello. La Maddalena ha preso le loro difese ed era talmente conosciuta in città e anche dalla polizia, che quando un beduino era arrestato, se dava alla polizia un foglio in cui suor Maddalena garantiva per quell’uomo, veniva rilasciato!”.

Cosa fanno quattro suore in una città totalmente musulmana, senza avere nessuna scuola o dispensario o attività pastorali. Hanno un palmeto di 60 palme e una suora è specialmente impegnata a mantenere la comunità curando le palme, che richiedono molta cura, e vendendo i loro datteri. La palma è bella e i musulmani la chiamano “la pianta del Paradiso”. Siamo nel Sahara e la produzione caratteristica di questa regione sono i datteri, che vengono esportati ma sono anche il cibo del deserto. La zona di Touggourt produce i migliori datteri dell’Algeria, che si vendono bene e vengono chiamati “dita di luce” perché sono belli chiari, luminosi, polposi e dolci. Ogni palma produce 200 chili di datteri all’anno e coltivando 60 palme le suore vi trovano buona parte del loro sostentamento, nella loro vita condotta in povertà.

“Le suore, dice padre Silvano, vivono con la gente e come la gente comune. Sono le mamme della città. Se c’è un ammalato vanno a visitarlo, se c’è una festa vengono invitate, se c’è qualche persona in difficoltà vanno a trovarla e la aiutano. Fanno tanti servizi alle famiglie, poi pregano e tutti sanno che sono donne consacrate a Dio nella verginità e in comunità. Prima di loro c’erano le Suore Bianche (dei Padri Bianchi) che al tempo della colonia francese avevano scuole e istituzioni sanitarie. Poi sono venute le suore del De Foucauld che nell’Algeria indipendente non potevano più fare quei servizi e allora vivono col popolo. C’è stato un tempo in cui una era ostetrica e molti sono nati nelle sue mani; un’altra, quando io sono arrivato, per mantenere la comunità andava a fare la cameriera nella casa di un medico. Una terza lavorava in un centro di artigianato artistico locale”.

Padre Silvano un eremita nella città

Parlando a lungo con padre Zoccarato, che nel 2010 ha compiuto i 75 anni (è nato in provincia di Padova nel 1935), mi accorgo di quanto è appassionato a questa sua seconda missione. L’avevo già intervistato nel 1976 nella missione di Guidiguis nel nord Camerun, dove ha lavorato con la consolazione di numerose conversioni a Cristo, la formazione cristiana dei catecumeni, le grandi feste della nostra fede celebrate in un popolo da poco battezzato ed entusiasta nella fede.

Ora a Touggourt vive in una città nel deserto, dove gli unici cattolici sono lui e le quattro suore del De Foucauld. In città c’è un altro battezzato che si tiene nascosto e viene una o due volte l’anno a trovarlo, e poi a volte turisti di passaggio. Padre Silvano è entusiasta della sua missione, ci crede e questo gli permette di sopportare tante limitazioni col sorriso sulle labbra, ad esempio anche il clima a volte caldissimo, il termometro arriva anche a 50 gradi all’ombra!.

Gli chiedo se ha il tempo di leggere. “Certo, dice, ricevo libri e riviste e quando padre Emanuele viene con me alcuni giorni leggiamo assieme qualche libro missionario. Ricordo quando abbiamo letto il tuo “Missione Birmania”, dove racconti le fatiche e gli eroismi dei nostri missionari in quel lontano paese asiatico. Fuori c’erano 50 gradi all’ombra. Nessuno per strada. Noi leggevamo commuovendoci quell’autentico libro di avventure tutte autentiche e chiedevamo al Signore di dare anche a noi quello spirito che ha animato fin dall’origine i missionari del Pime”.

Gli ho chiesto come spende il suo tempo, cosa ha fatto in questi quattro anni nel deserto fra i musulmani. Racconta: “All’inizio mi sono impegnato molto nello studio, sono arrivato a celebrare la Messa in arabo e dicono che lo pronunzio anche bene. L’arabo lo conosco per parlare con la gente, leggere i giornali, andare al mercato e anche insegnare a fare i compiti ad alcuni ragazzi che vanno a scuola.

“Insegno l’arabo, il francese e anche l’italiano a due-tre studenti o anche a uno solo. A volta l’inglese, ma non mi spingo troppo perché lo so poco anch’io. Mi è anche capitato di insegnare il latino ad un giovane medico, che voleva rendersi conto della radice di molti termini medici, che vengono dal latino o dal greco. La mia scuola è gratuita, mi portano da mangiare. Le mamme vengono con cuscus e altri cibi già preparati. A volte ricevo anche troppo cibo e allora invito qualcuno che soffre la solitudine, dicendogli: “Vieni ad aiutarmi”. Dopo le festività musulmane soffro la quasi persecuzione di aver continue visite per portarmi del cibo”.

“Ho iniziato la mia presenza a Touggourt con l’unico impegno di salutare e incontrare le persone, organizzarmi per vivere da solo e rendermi utile. Le Piccole Sorelle sono conosciute e anch’io comincio ad essere riconosciuto e aiutato. Quando vado a piedi al mercato per fare le spese, sono circa due chilometri. Ma tornando con borse molto pesanti, fermo una macchina, mi faccio portare a casa. Molti si fermano. Non ho l’auto e vivo benissimo senza. Le suore di De Foucauld e i Padri Bianchi hanno creato una bella atmosfera a Touggourt e adesso bisogna mantenerla. Accolgo tutti quelli che vengono a confidarsi per qualche motivo. Sono considerato il nonno buono e saggio.

”In passato, la chiesa di Touggourt è stata affidata alla Mezzaluna rossa (Croissant rouge), però solo la parte dov’erano i fedeli, divisa da un muro dalla parte dove c’era l’altare e la sacrestia, che è rimasta a noi. La uso come sala della preghiera. La gente si meraviglia che la chiesa sia stata data alla Mezzaluna rossa, quello era un luogo sacro e doveva rimanere aperto per i cristiani, ma venivano anche i musulmani a pregare. C’è gente che vorrebbe entrare a pregare e quasi ci rimprovera di aver dato via la chiesa. Poi, sulla cupola la grande croce in ferro è stata messa da parte. Ma i vicini musulmani, non vedendo più la croce, si sono messi assieme e l’hanno rimessa sulla cupola. E’ l’unica croce visibile che si trova a Touggourt.

“Perché la chiesa l’hanno data via come molte altre in Algeria? Perché in passato c’erano centinaia di migliaia di francesi cattolici che poi sono tornati in patria e le chiese adesso sono moschee, biblioteche, sale per incontri e conferenze, insomma locali pubblici. Era il momento del terrorismo ed era bene dare le chiese allo stato.

La casa “parrocchiale” è ad un solo piano, con un bel giardino interno e un cortile verso la strada, quattro stanze, la cappella, una sala di biblioteca e la cucina. C’è l’acqua corrente e l’elettricità. La casa è stata costruita parecchi anni fa, in modo che protegge dal caldo, dal freddo e dalla pioggia, con mura molto spesse, una intercapedine fra il tetto e il soffitto delle stanze e dei corridoi che permette all’aria di circolare. Andrebbe conservata perché è una delle poche case del passato che ancora sopravvivono in città, per far vedere come si costruiva nel deserto. “Abbiamo fatto alcune riparazioni – dice Silvano – ma la casa è quella di mezzo secolo fa. Il clima è sopportabile, l’unica cosa veramente fastidiosa è il vento del deserto molto pericoloso, sia che ti trovi per strada, che quando sei a casa. E’ una polvere finissima che penetra ovunque, te la trovi sotto le lenzuola, sotto il cuscino. Dopo un vento di sabbia, tutta la casa va ripulita. Per fortuna capita solo tre-quattro volte l’anno”.

Padre Zoccarato vive da solo, cura la casa, va al mercato a fare la spesa, si fa da mangiare, ma alcune volte, quando celebra la Messa al pomeriggio, si ferma dalle Piccole Sorelle per la cena. “Qui c’è molta frutta e verdura – dice – mi faccio dei grandi minestroni di verdura oppure pastasciutte con verdure. In città si trova tutto, non mangio molta carne, preferisco verdura e frutta, pasta e riso. In Algeria si coltiva tutto è un paese turistico, ci sono regioni che richiamano l’Umbria o la Puglia.

Pellegrinaggio ai luoghi del Beato De Foucauld

”Da Algeri aTouggourt sono circa 600-650 km. I primi 200-300 fra montagne, altopiani, colline e foreste sono molto belli, poi si entra nel deserto. A Touggourt siamo in pieno deserto, come a Wargla e Ghardaia, sono 200-300 km. di pieno deserto e qualche piccola oasi con palme. Le città sono nate sulle antiche oasi, dove c’è acqua abbondante e buona, il pozzo delle Piccole Sorelle è profondo 15 metri. Piove poco, ma quando piove a volte i fiumi e torrenti esondano e succedono disastri.

La città da visitare nel deserto è Ghardaia, meravigliosa. Fino ad una trentina di anni fa c’era un forte turismo verso questa città, poi la situazione dell’Algeria non ha più permesso questo turismo di massa. Gardaia rimane la città più turistica del deserto del Sahara, per le moschee, le costruzioni, la pulizia e l’ordine, la disciplina.

Per i 50 anni di sacerdozio, padre Silvano si è concesso un pellegrinaggio a Tamanrasset (1.320 metri sul livello del mare, 76.000 abitanti) dal 10 al 20 ottobre 2009, con un prete e una volontaria francesi. Il pellegrinaggio è duro, austero, impegnativo. 23 ore di pullman da Touggourt, 1600 Km di deserto e di montagna, soste in ambienti poveri. Nel deserto il clima è caldo di giorno, freddo di notte.

“I primi due giorni a Tamanrasset – racconta padre Silvano – visitiamo i luoghi di vita e di preghiera di Charles e nello stesso tempo veniamo a contatto con i Piccoli Fratelli e le Piccole sorelle. Si capisce De Foucauld e lo si sente presente quando si celebra l’Eucaristia nella sua minuscola cappellina di metri 1,70x 2,00. Vi celebriamo la sera del primo e dell’ultimo giorno. L’interno comprende anche sacrestia e studio (1,70 x 2,00), magazzino viveri (1,70 x 4,00). Tra il tavolino davanti alla finestra, dove De Foucauld ha messo insieme i quattro volumi del dizionario della lingua Tuareg, e il tabernacolo ci sono solo tre metri. Vi ha vissuto durante 12 anni con alcune soste dei viaggi in Francia, al fortino o all’eremitaggio.

Il 14 ottobre viaggio in auto a quattro ruote motrici verso l’Assekrem a 85 km. Sassi, sassi e poi sassi tra montagne di ogni forma: picchi, altopiani e in valli che non finiscono mai, qualche rigagnolo e piccoli laghi. Ma perché Charles ha voluto andare fino a quei luoghi isolatissimi? Proprio in alto a circa 2600 metri vedi l’eremitaggio dell’Assekrem. Padre Carlo ha scritto:

“La vista è la più bella che si possa dire o immaginare. Nulla può dare l’idea di una foresta di picchi e di guglie rocciose che si ha ai propri piedi. E’ una meraviglia. Non la si può ammirare senza pensare a Dio. Mi è difficile distogliere lo sguardo da questa vista ammirevole, la cui bellezza e impressione di infinito ci ravvicinano a Dio, mentre questa solitudine e questo aspetto selvaggio ci dimostrano quanto si è soli con Lui e siamo come una goccia d’acqua nel mare”.

Padre Carlo, come altri eremiti, ha reso conosciuto questo angolo della terra, che diventa luogo di incontro con Dio e coi fratelli. Ma c’è voluto un po’ di pazzia. I Tuareg dicono due proverbi: “La verità è nascosta tra le sabbie del deserto, affinché chi la scopre sia considerato un pazzo, la mente bruciata dalla solitudine e dal sole”. “Dio ha creato i luoghi ricchi di acqua perché l’uomo vi possa vivere e ha creato il deserto perché l’uomo vi possa trovare la propria anima…”.
Il piccolo fratello spagnolo Ventura mi accompagna al mio eremitaggio, a circa un km dall’eremitaggio di Fr. Carlo e di quello dei piccoli fratelli. In questa stanza di sassi passerò due notti e qualche altro tempo di solitudine. Non manca niente, niente è di più, tutto è pura semplicità. Dio parla ancora. Continua a dire le sue prime parole di Creatore: “Tutto è buono. Tutto è bello!”. Qui è facile pregare. Ed è meraviglioso constatare che l’uomo, creato ad immagine di Dio, parla e ascolta Dio.

Ho sfogliato un po’ il quaderno delle testimonianze che la gente lascia scritte all’interno dell’eremitaggio di padre Carlo, in tutte le lingue del mondo. In ogni scritto capisci chi è musulmano, cristiano, indù, buddista, ateo, in ricerca,ecc. Ma in tutti senti una sola cosa: La gioia di essere lì e la sorpresa di avvertire una grande novità nell’esistenza. Ne trascrivo solo due:

“Non sono credente, ma oggi sono arrivato qui all’Assekrem. Ho letto qualche parola di Charles de Foucauld. Mi sento vicino a Dio e all’anima, alla grande anima, all’uomo, al santo. All’Assekrem ho toccato con mano la grandezza dell’universo. Ne sono affascinato” H.H.

“Come non pensare al creatore universale davanti a tanto splendore. Un paesaggio lunare, una vista magica che porta all’umiltà. Sufficiente per ricordare all’uomo che è solo polvere e che deve tutto a Dio. Sufficiente per vivere felice” M.

I Piccoli Fratelli mostrano il lavoro di raccolta dell’acqua. Su quell’altipiano, a 2600 metri, dove piove raramente, è sufficiente raccogliere la pioggia per avere l’acqua tutto l’anno. Piccole dighe, un canale di raccolta e alcune cisterne coperte.

Scendendo dall’eremitaggio si passa davanti alle casette dei Piccoli fratelli che fanno trovare the e biscotti. Li ho gustati anch’io assieme ad austriaci, olandesi e … italiani.

La grande attività svolta dai Piccoli Fratelli all’Assekrem è la manutenzione della zona per rendere possibile l’accesso, quindi riassetto dei sentieri dopo le piogge, e sistemazione degli eremitaggi attorno a quello del Fratel Carlo anzitutto perché i loro confratelli e consorelle possano venire a vivere in solitudine e preghiera in alcuni periodi della loro vita. Ce ne sono una decina, distanti tra loro anche qualche Km. E lontani dai luoghi dei turisti. Oggi a questi eremitaggi accedono anche altre persone che vengono da ogni parte del mondo. Passare due giorni in solitudine, in preghiera, riflessione e contemplazione, significa ritrovare te stesso e parlare con Dio.

Anche la Chiesa deve ritornare a Nazareth. Così scriveva Joseph Ratzinger nel 1977: “La Chiesa non può né crescere né prosperare se ignora che le sue radici si trovano nascoste nell’atmosfera di Nazareth. Prima della ricerca accademica, Charles de Foucauld ha incontrato il vero “Gesù storico” e aprì così una nuova via per la Chiesa, la riscoperta della povertà e della preghiera. Nazareth ha un messaggio permanente per la Chiesa. La Nuova Alleanza non comincia nel Tempio, né sulla Montagna Santa, ma nella piccola casa della Vergine, nella casa del lavoratore a Nazareth. Solo partendo da lì la Chiesa potrà prendere un nuovo slancio e guarire. Non potrà mai dare la vera risposta alla rivolta del Novecento contro la potenza della ricchezza se, nel suo stesso seno, Nazareth non è una realtà vissuta. Joseph Ratzinger 1977”.

III parte – Perché prete fra musulmani in Algeria?

L’interrogativo del titolo non è teorico. Ce lo siamo posti noi missionari del Pime, abituati alle missioni fra i popoli che ancora non hanno ricevuto la Buona Notizia del Vangelo. In Algeria, come in quasi tutti i paesi islamici, c’è libertà di culto solo all’interno delle poche chiese aperte al pubblico, ma negli ultimi 40 anni i martiri cristiani si contano a decine, compresi i quattro Padri Bianchi uccisi a Tizi Ouzou il 27 dicembre 1994, il vescovo di Orano mons. Claverie il 1° agosto 1996, i sette monaci trappisti di Tibhérine il 26 marzo 1996 e tanti altri.

E questo a causa dell’estremismo islamico che il governo laico combatte, ma le difficili situazioni di disoccupazione e di miseria in cui si trovano soprattutto i giovani (che sono più del 60% degli algerini) ne favoriscono la diffusione. I fondamentalisti islamici si stanno diffondendo gradualmente nella società, soprattutto nelle grandi città, ma vi sono anche gli algerini (specie gli intellettuali) che continuano ad usare il francese come lingua quotidiana, hanno una mentalità francese e un approccio verso il cristianesimo più libero e amichevole.

Percorso difficile dopo l’indipendenza

Padre Zoccarato non parla della situazione politica dell’Algeria, ma è necessario sintetizzare la storia recente di questo grande paese, per capire la situazione in cui si trova la Chiesa algerina. Negli anni cinquanta e sessanta la “guerra di liberazione”, condotta dal “Fronte di liberazione nazionale”, suscitò grandi speranze ed entusiasmi, che dopo l’indipendenza sono rapidamente naufragati. Per due motivi, uno politico e uno economico. Il governo del Fln, salito al potere nel 1962, si definiva “non allineato” nella guerra fredda fra le democrazie occidentali e i paesi a regime comunista, ma in pratica ha instaurato un regime di “socialismo reale” molto simile a quello sovietico. Il primo risultato di questa scelta folle è stata la fuga dei 900.000 coloni francesi che erano in Algeria spesso da una vita e rappresentavano la parte più istruita e competente della popolazione. Il paese è precipitato nel caos economico e civile, al quale hanno posto rimedio i tecnici venuti dall’Europa orientale.

L’Algeria non ha mai conosciuto la democrazia, ma è passata dalla dittatura del Fln a un regime militare che governa tuttora il paese, sia pure con le autorità civili, il parlamento e vari partiti. L’errore fondamentale del Fln è l’adozione del “socialismo” alla sovietica con un’economia rigorosamente pianificata, che dava la precedenza all’industria pesante, per la quale mancava il personale preparato. Con le grandi somme sprecate per costruire cattedrali nel deserto (letteralmente!), i governi hanno trascurato l’agricoltura che era la prima vocazione del popolo algerino, da cui una sana economia doveva ripartire. Il reddito medio pro capite si è dimezzato in due decenni ed è ancora diminuito durante la “seconda guerra di Algeria” degli anni novanta, dopo che i militari hanno impedito al Fis (Fronte islamico di salvezza) di governare, avendo vinto con largo successo le elezioni politiche del 1991.

Nei feroci scontri degli anni novanta si calcola che circa 200.000 algerini vennero uccisi, una mattanza che ha sparso nel popolo semi di altre violenze. Oggi l’Algeria, dopo aver raggiunto nel 2006 la pace fra i due fronti combattenti con la firma della “Carta per la pace e le riconciliazione nazionale”, è ancora tormentata dal terrorismo dei gruppi islamici estremisti, in particolare da “Al Qaida nel Maghreb” (il nuovo gruppo per la predicazione e il combattimento), che non hanno accettato l’accordo di pace. Le attività di guerriglia raggiungono anche il Sud del paese, sconfinando in Mali e Mauritania. L’insicurezza in cui vive il paese ostacola gli investimenti per lo sviluppo e il turismo, una delle principali risorse del paese. Inoltre, la disoccupazione che supera il 25% della forza lavoro, la corruzione delle classi dirigenti, la miseria di buona parte del popolo, con una classe media benestante e una élite economica pronte a difendere i loro privilegi con ogni mezzo, sono altri elementi che rendono incerto il futuro dell’Algeria.

Infine, non va dimenticata la questione berbera. I berberi sono circa il 20% dei 35 milioni di abitanti, hanno una forte identità etnica, storica e culturale, parlano la loro lingua e non si sono integrati con la maggioranza araba, discendente degli invasori musulmani nei primi secoli dopo Maometto. Vivono nella regione montagnosa a sud della zona costiera e chiedono l’autonomia federale e il riconoscimento del berbero come lingua nazionale assieme all’arabo e al francese. Fra l’altro proprio nella Kabilia sono nati quelli che si definiscono “gruppi evangelici”, che diffondono il Vangelo, esibiscono visibilmente la loro fede e si dichiarano cristiani della “Chiesa algerina”, indipendente dalle Chiese di origine straniera. Conquistano fedeli e si calcola che siano dai dieci ai ventimila, ma aumentano rapidamente (secondo cifre ufficiali, i convertiti in media sono sei al giorno).

In genere la presenza dei cristiani in Algeria è tollerata, in quanto sono di origine straniera e si impegnano a non fare “proselitismo”, ma queste conversioni al cristianesimo da parte di algerini e senza nessun influsso straniero risulta incomprensibile e spiazza le autorità che non osano intervenire apertamente, anche per paura di suscitare tra i berberi reazioni imprevedibili. La Chiesa cattolica e le Chiese protestanti si dissociano da questo movimento di popolo, ma lo stesso fenomeno si verifica anche in Bangladesh e in Marocco. Segno che la semplice lettura del Vangelo, ormai conosciuto anche attraverso internet, suscita quello stupore gioioso che caratterizza i neofiti provenienti da altre religioni.

Una Chiesa che rinasce

Nel secolo V secolo in tutto il Nord Africa, dall’Egitto al Marocco, c’erano 700 vescovi cattolici[3]. Nei secoli VI e VII la conquista araba ha provocato un graduale declino, ma anche fino al X e XI secolo ci sono testimonianze di lettere inviate a Roma, al Papa, che dimostrano l’esistenza di comunità cristiane, che però diminuivano per le conversioni all’islam e per l’eresia donatista che staccava le diocesi da Roma. Nei secoli XI e XII i governi arabi hanno imposto a tutti i cristiani del Nord Africa di abbracciare la religione islamica. Sono rimasti solo i copti in Egitto.

La Chiesa è rientrata in Algeria dopo la colonizzazione francese che inizia nel 1830 e la Costituzione del 1947 dichiara l’Algeria “territorio metropolitano”. Nel tempo coloniale la Chiesa godeva libertà religiosa, ma doveva limitarsi ad assistere i circa 900.000 coloni francesi. Le autorità coloniali proibivano ai musulmani di entrare nelle chiese, la stampa del Vangelo e di altri libri cristiani in arabo e non accettavano preti provenienti dalla Siria o dal Libano che parlassero arabo. In altre parole: l’Islam per gli algerini e il cristianesimo per i francesi. Quindi in quel periodo non ci fu la presenza attiva di una Chiesa missionaria, dato che anche i coloni francesi vivevano in una specie di apartheid.

Oggi la Chiesa algerina ha quattro diocesi, quak,che migliaio di fedeli (100 dei quali algerini che vivono con prudenza la loro fede), poco meno di 40 sacerdoti, un po’ più di suore; però decisa a restare come segno di presenza e di dialogo fraterno, a volte anche incoraggiata dalle pubbliche autorità, come dimostrano i recenti lavori di sistemazione della grande basilica di Algeri (“Madame l’Afrique” , in onore di Maria), finanziati in parte dal Comune che la considera un monumento nazionale.

C’è stata una evoluzione politica che favorisce la libertà, con approvazione di un sistema multipartitico e una certa libertà di stampa, con i giornali di opposizione combattivi e aperti all’Occidente. Anche il governo vuole tenere a bada i fondamentalisti e vuol essere percepito come un vero alleato delle religioni. Ma poi introduce leggi come quella del 2006 e un’ordinanza del 2008 che penalizzano fortemente il cristianesimo organizzato, cioè le Chiese come quella cattolica, non i gruppi evangelici spontanei della Cabilia. Comunque il prof. Camille Eid dell’Università di Milano, che ha visitato recentemente l’Algeria, afferma che vi sono parecchi segni di speranza per la Chiesa. Dice di “pregare perché l’Algeria era cristiana ed è stata convertita all’Islam dopo secoli di cristianesimo fiorente. Quindi non è strano che gli algerini possano tornare alle loro radici cristiane”.

Quattro missionari del Pime in Algeria

In questo quadro, come si pone la presenza del Pime nella Chiesa algerina? Oggi vi sono tre missionari sul campo e uno al Cairo (Davide Carraro) che termina quest’anno di studiare l’arabo. Padre Cesare Baldi (anche lui fidei donum novarese in Ciad e oggi del Pime) dal 2008 è ad Algeri, vive con l’arcivescovo come incaricato della Caritas algerina ed è sempre molto occupato. Padre Emanuele Cardani vive nella città del petrolio Hassi Messaoud, dove c’è la chiesa intitolata a “Nostra Signora delle sabbie”, che sta ricostruendo con l’aiuto di tecnici e operai italiani. Il suo compito è di assistere i molti lavoratori stranieri nei pozzi di petrolio. Egli visita e conosce le famiglie ed ha frequenti rapporti con gli operai e i tecnici del petrolio. La difficoltà principale è che i lavoratori hanno appena il tempo di mangiare e di dormire, nessun divertimento. Fanno 28 giorni continui di lavoro qui e 28 giorni in Italia. Anche gli algerini 28 giorni di lavoro a Hassi Messaoud e 28 giorni con la famiglia.

La città è solo lavoro, lavoro, lavoro, solo petrolio, petrolio, petrolio. Si lavora giorno e notte, succhiano dal profondo della terra petrolio e gas e ci vuole una presenza continua dell’uomo per controllare e lavorare. Tra l’altro l’atmosfera non è del tutto respirabile, con tutte quelle torce del petrolio che bruciano all’aria aperta.

Anche le missionarie dell’Immacolata (le sorelle del Pime) sono venute in Algeria. Suor Serena Stefani da un anno è a Ghardaia e sta aspettando altre due suore, poi andranno ad Hassi Messaoud; suor Gabriella Tripani e suor Rita Manzoni sono ad Algeri con padre Cesare per la gestione della casa del vescovo, casa di rappresentanza, di ospitalità e di incontri, molto importante per la Chiesa algerina.

Padre Silvano Zoccarato è contento di vivere fra i musulmani: “Molti missionari del Pime hanno vissuto o ancora vivono (ad esempio quelli nell’interno della Cina) il tempo dell’attesa, del silenzio, della preghiera, senza avere risultati di conversioni o senza nemmeno poter annunziare apertamente Cristo. Mia sorella suora mi scrive e mi chiede spesso: ma tu cosa fai a Touggourt? Io le rispondo: “Ogni giorno celebro la Messa, porto il Dio fatto uomo tra i musulmani. Questo il mio primo impegno e la mia prima missione. Il secondo è il vivere con la gente, far vedere che c’è un prete cattolico in città che accoglie tutti, parla con tutti, vive come e con tutti, vuol bene e aiuta tutti quelli che può aiutare. Io celebro la Messa in un popolo non cristiano. E nella Messa mi immergo in Cristo, mi immedesimo in Cristo, porto Cristo al popolo algerino, che è il massimo dell’attività missionaria. Siamo nel tempo dell’attesa, lo Spirito farà lui quel che è meglio. Viviamo il tempo di Nazareth.

“Ringrazio il Signore che mi ha portato in Algeria. Dopo l’intenso lavoro in Camerun, qui trovo il tempo e la libertà di dedicarmi ad una preghiera più profonda. Al termine del suo impegno come arcivescovo a Milano, il card. Martini ha detto: “Adesso sento la chiamata ad una preghiera più profonda”. Io vivo a Touggourt dove ci sono anche quattro sorelle del De Foucauld nella loro casa di fondazione della congregazione, con le quali condivido la preghiera. Questi momenti di adorazione, di preghiera sono importanti. Poi faccio qualche piccolo servizio ai giovani che chiedono di imparare l’italiano o il francese e attraverso questi piccoli incontri di scuola arrivo anche a dialogare con loro. Più che testimonianza direi che la mia è una presenza amica che aiuta, che conforta, che porta speranza. La gente apprezza la presenza delle suore e mia, guai se andassimo via.

“Quando il Papa è andato alla Statua di Maria in Piazza di Spagna l’8 dicembre scorso, ha detto: “Sono qui a pregare Maria perché vorrei vedere Roma come la vede la Madonna, che è mamma e avvocata dei romani”. Ecco, anch’io ho imparato a vedere Touggourt e la sua gente come li vedono le suore, mamme e avvocate con una lunga esperienza di vita in Algeria. A volte, chiacchierando mi viene di dire: sì, però ho visto anche questo e quest’altro e mi riferisco a cose negative; ma loro dicono: sì, però… e mi fanno vedere il positivo”.

La settimana della Mariapoli fra i musulmani a Tlemcen

Nel 2009 padre Silvano ha festeggiato i suoi 50 anni di sacerdozio. Il 7 novembre 2009 i Padri Bianchi di Wargla sono andati a Touggourt con alcune suore e una quindicina di africani, studenti del Burundi, dell’Uganda, del Congo Brazzaville e del Camerun che frequentano l’università a Wargla e sono cristiani.

“La mia cappella – dice padre Silvano – per la prima volta da quando sono arrivato era strapiena. I giovani hanno raccontato di trovarsi fra gli studenti algerini che generalmente sono accoglienti e gentili, ma alcuni mostrano qualche difficoltà ad accettare che ci siano degli africani cristiani. Venendo qui si sono accorti che l’essere cristiani non si può nascondere e mettere da parte. Ma col loro atteggiamento e comportamento sereno, discreto e pieno di pazienza e di bontà, si sentono benvoluti e stimati. E poi hanno manifestato la gioia di vivere un momento di preghiera con fratelli della stessa fede. La solitudine e la lontananza dal loro paese pesa loro moltissimo, ma sono contenti di poter vivere momenti di fratellanza e di universalità. Ho sentito in me un affetto profondo per questi giovani, miei fratelli e figli carissimi. E’ la nostalgia di quanto ho vissuto in Camerun? E’ la realtà del sacerdozio che mi fa segno di comunione e mi dà una vera paternità? La Messa mi fa sentire che la celebro insieme a tanti che vivono nella discrezione, ma con un lievito dentro che anima ogni sentimento e scelta. In arabo si direbbe: Ma zelt elbaraka! La benedizione non è ancora finita, ce n’è ancora. Dio aveva detto ad Abramo : “Sarai benedizione per una grande moltitudine”.

Per il suo 50° di Messa di padre Silvano le Piccole Sorelle di Touggourt gli hanno regalato una bella stola intessuta da un centro locale di artigianato, che mantiene viva l’arte tradizionale dei touareg del Sahara. Un centro che dà lavoro a tante donne. Al momento di pagare le donne dicono: “La stola è per la preghiera, non chiediamo nulla”. “Ora – dice Silvano – quando celebro porto su di me e dentro di me la fede, la preghiera, il lavoro di molte povere donne che mantengono le loro famiglie con tanti sacrifici. Donne meravigliose che mostrano un impegno per formare un mondo aperto, onesto, fraterno. Ma quello che più mi commuove nel popolo algerino è il senso vivo di Dio, vissuto e rispettato. Un amico, formato alla scuola dei Padri Bianchi, ha voluto che mantenessimo visibile una statua della Madonna che coprivamo per un certo rispetto a chi entrava da noi. “Quella è Lalla Myriam, la mamma di Isa (Gesù). Anche noi le vogliamo bene”. E poi un giorno parlando di noi, disse: “Voi siete preghiera, voi siete persone di Dio”.

Padre Silvano racconta che nel 2007 è stato una settimana a Tlemcen (ad ovest di Orano) nella casa dei focolarini che sono in Algeria da circa quarant’anni e hanno una casa anche ad Algeri. Ha partecipato alla Mariapoli, con 150 amici dei focolarini, fra le quali anche persone istruite medici, insegnanti e via dicendo. La loro presenza in terra d’islam ha lo scopo di fare amicizia con molte persone sul tema dello spirito dell’amore. L’amore che è presente in Dio, si può vivere nelle famiglie, nelle comunità, nel mondo intero. Silvano racconta: “E’ stata una bella esperienza: 150 famiglie che vivono il messaggio di amore di Gesù, che è accettato e amato come un grande profeta. Però questi incontri, questo spirito, questo dialogo e amicizia con persone di altra fede religiosa sono una preparazione all’incontro con Cristo nella verità, quando Dio vorrà”.

Poi continua: “Questa comunanza di vita con il popolo musulmano mi ha convinto che il Gesù che i valori evangelici sono accettati: amiamoci come fratelli, aiutiamo i più poveri, ecc. Ci vorrebbe un focolarino per dirti come riescono a trovarsi in accordo con i musulmani sui valori evangelici. Quest’anno, il tema della Mariapoli ad Algeri era la pace, io non ci sono andato ma mi hanno detto che ha avuto un ottimo risultato. Tra l’altro un musulmano ha detto: “Noi non veniamo qui per discutere di problemi teologici, ma per poter ritornare ai sentimenti profondi della nostra fede delle origini”.

“Io faccio una riflessione. Da cinquant’anni sono sacerdote e missionario, eppure sono qui in terra islamica per ritrovare i valori profondi della mia fede e del mio amore a Cristo. Se i musulmani più sensibili fanno lo stesso cammino per ritornare alle origini della loro fede, questi due cammini ci portano verso non dico una unità, ma ci riportano a Dio che è unico per tutti, allora noi possiamo ritrovarci fratelli. Quest’anno parteciperò anche alla Marcia per la pace, che ha questo titolo: la libertà religiosa via per la pace. E questo non significa solo o principalmente chiedere al governo di assicurare la libertà di religione, ma di chiedere a Dio di convertirci tutti alla libertà di religione, di cui tutti gli uomini hanno bisogno.

“Conosco un musulmano profondamente religioso che dice: “Se mio figlio si facesse cristiano, lo ucciderei”. Questo significa che la conversione alla libertà religiosa non è solo un problema di leggi, di polizia, di governi, ma è la lenta conversione che matura in un popolo. Non basta chiedere al governo di garantire la libertà religiosa, ci vuole una conversione autentica e profonda che deve venire dal popolo e che riguarda tutti, certamente i musulmani, ma anche noi cattolici.

“Come noi, per ritrovare le radici della nostra fede, ci rifacciamo a Cristo e agli Apostoli, così i musulmani dovrebbero ritornare all’ispirazione religiosa di Maometto, che era molto forte e autentica. Poi ci sono state le guerre, le conquiste islamiche di popoli cristiani, poi le Crociate, poi tanti altri avvenimenti storici che ci hanno allontanati dalle nostre e loro origini. Ma è possibile incontrarci da fratelli ritrovando ciascuno la sua autentica radice religiosa”.

[1] S. Zoccarato, “In Africa da ospiti”, in “Missionari del Pime”, febbraio 2005, pagg. 6-7.

[2] “Il Vincolo”, n. 208, agosto 2004, pag. 4.

[3] Vedi: Camille Eid, “Algeria: speranza in una Chiesa nascosta”, Agenzia Zenit, 4 ottobre 2010
Padre Gheddo su Radio Maria (luglio 2011)

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