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Fidel Castro, il dittatore più longevo della storia moderna, ha finalmente abdicato ai suoi poteri di stato e di governo. Lascia ai successori un regime imbalsamato e al popolo cubano la speranza di liberarsi presto della casta dei  comunisti “puri e duri”, per poter finalmente respirare e agire in libertà. La sfortuna di Cuba è che Castro è sopravvissuto così a lungo. Mao, per fortuna del popolo cinese, è morto da più di trent’anni e subito dopo di lui il regime è cambiato e pur senza rinunziare alla dittatura del partito, ha avviato radicali riforme economiche, ha spalancato le frontiere, ha innescato un processo virtuoso di sviluppo economico. Lo stesso sta succedendo in Vietnam da una ventina d’anni. Oggi la Cina è una potenza economica mondiale, il Vietnam è fra i paesi più sviluppati dell’Asia. Sono ancora due dittature che non rispettano i diritti dell’uomo e nemmeno la libertà religiosa, ma c’è qualche speranza che il miglioramento dell’istruzione e la crescita del benessere possano portare ad una maggior democrazia e libertà per il popolo. Anche perché al comunismo, sbandierato come religione di stato e insegnato nelle scuole, non ci crede più nessuno e i supposti “ideali” del comunismo, se c’erano in passato, oggi non esistono più. Un missionario che vive in Cina dal 1994 mi ha detto pochi anni fa a Canton: “Credo che oggi non esista un paese più selvaggiamente capitalista della Cina, dove i diritti umani e die lavoratori non contano nulla”. E cosa contano nell’isola di Fidel Castro?

    Cuba sotto Castro è rimasta per mezzo secolo una patetica sopravvivenza del passato. La dittatura e le forti motivazioni ideologiche del Partito comunista, di cui Fidel Castro rimane il segretario, non permettono un graduale passaggio all’economia di mercato e a favorire l’iniziativa privata con la denazionalizzazione di terre e aziende. Perché Cina e Vietnam sì e Cuba no? Sostanzialmente per due motivi. Primo, Cuba è stata impostata secondo il modello sovietico di economia e di società, tutto centralizzato e tutto statalizzato; il maoismo era molto più decentrato in tutti i sensi, naturalmente eccetto l’ideologia, il potere politico e militare, i metodi totalitari. Cuba non ha mai avuto un “bo doi”, come dicono i vietamiti dal 1986, cioè una radicale conversione dell’economia verso il mercato libero e l’apertura ad accordi economici anche con i paesi capitalisti.

     Una seconda causa spiega questa anomalia di paesi comunisti che vanno verso un maggior sviluppo economico o verso un sempre maggior sottosviluppo è questa: Castro è rimasto prigioniero fin dall’inizio dell’ideologia anti-americana,  il nemico assoluto di Cuba e del Sud del mondo è l’America. Per la Cina e anche per il Vietnam non è stato così: la Cina ha stretto accordi commerciali con gli Stati Uniti fin dagli anni settanta e il Vietnam dagli anni novanta: oggi i due paesi sono integrati nel mercato mondiale globalizzato e si sviluppano rapidamente anche per questa scelta. Cuba no, è rimasta orgogliosamente e assurdamente anti-americana e anche dopo il fallimento del tentativo di impiantare missili sovietici a Cuba nel 1962 ha continuato nella sua linea ideologica anti-occidentale, mandando militarì cubani in appoggio ai governi “socialisti” (o supposti tali) e a sostegno delle “guerre di liberazione” che si combattevano in Africa negli anni settanta e anche ottanta,  come ho visto in Angola, Etiopia, Guinea-Bissau e Mozambico. Che Castro sia anti-americano a causa dell’embargo americano, che avrebbe impedito lo sviluppo economico di Cuba, è una di quelle panzane che si continua a ripetere senza fondamento nella realtà dei fatti. L’incantevole isola dei Caraìbi ha sempre avuto aperti grandi mercati per le sue importazioni ed esportazioni: Urss, Spagna, Canadà, Cina, quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale Italia compresa.

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     Ma i danni peggiori del “castrismo” sono stati fatti in America Latina e anche in  Africa. Ancor oggi, visitando vari paesi in questi due continenti (ma anche in  Asia), fa pena sentire sempre ripetere che gli Stati Uniti e l’Occidente europeo sono la causa della loro povertà. Dopo il fallimento di tutti i regimi comunisti (su una trentina al potere fino al 1989 non uno ha prodotto il bene del popolo) c’è ancora chi sogna una società egualitaria nella quale lo stato pensa a tutto. Credo che il mito anti-occidentale e anti-americano sparso da Cuba in modo militante, con tanti opuscoli, giornaletti e fumetti in tutte le lingue, fra i popoli più deboli e meno istruiti li deresponsabilizzi (la colpa è sempre gli altri), mentre dovrebbero avere coscienza di impegnarsi per prendere in mano il loro paese e orientarlo in modo onesto e rispettoso dei diritti del popolo, primo dei quali la libertà. Ero in Bangladesh nel settembre 2001. L’11 del mese, quando sono crollate ie Due Torri a New York per un attentato terroristico, non ne avevo avuto notizia subito. Ma quando il giorno dopo mi portavano in auto dal lebbrosario di Dhanjuri a Dinajpur, incontravamo nei villaggi e città maree di bengalesi che gridavano di gioia, manitestavano non si capiva bene per quale motivo. Sono poi venuto a sapere cos’era successo ma anche, mi diceva un confratello, che il bilancio dello stato del Bangladesh è coperto per circa il 70% dai paesi occidentali, primi fra tutti Inghilterra e Stati Uniti! Ma fra il popolo bengalese è comune il pensare che molti dai mali nazionali vengono dall’Occidente e dagli Stati Uniti!
Piero Gheddo
febbraio 2008 su Asianews

Pubblicato con il permesso del Pime
(18/7 R. Perin – Direttrice dell’Ufficio Storico del Pime)

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